Elezioni Europee: fallito l’assalto sovranista ma la tela dell’Unione è logora
Tanto tuonò che non piovve. Ma il terreno del dopovoto delle Europee di domenica è arido e crepato.
Dopo mesi in cui i leader della destra sovranista come Salvini e Le Pen (che ora appunto ripiegano sul terreno delle relative vittorie nazionali) avevano illuso il proprio elettorato di poter cambiare il volto dell’Unione le consultazioni riportano un’istantanea in cui i “poteri forti” di Bruxelles restano al comando. Al netto però di tutte le contraddizioni e le perplessità di un quinquennio aperto dall’austerità genocida imposta alla Grecia, spaccato in due dai referendum scozzese, catalano e sulla Brexit, dalla crisi migratoria e dallo stato di emergenza; e che si appresta a chiudersi in un 2019 all’insegna del ripiego nazionalista e in cui i caratteri e le soluzioni delle emergenze sono sempre più radicalizzati e sistemici.
L’evidente frammentazione dell’emiciclo di Bruxelles consegnataci dalle consultazioni lavora in più direzioni. Da una parte verso l’ulteriore svuotamento di politicità dei partiti tradizionali PPE e PSE – storicamente in virtuale alternanza, poi in grosse koalition ed ora insufficienti a comporre una propria maggioranza. I loro deludenti risultati in Francia ed in Germania ed il maggiore peso specifico dei liberali (incluso l’exploit dei liberaldemocratici inglesi, che però rischia di essere vanificato dalla Brexit), di cui l’azionista di maggioranza è il pur logoro Macron, indicano la probabilità di una presidenza di compromesso. Il cui cardine sia la rilegittimazione di una narrazione europeista tecnocratica, prosecutrice del rigore e della blindatura dei confini dell’Unione. Al massimo con una spruzzata di verde per tentare di rilanciare una prospettiva di crescita a colpi dell’ennesima incarnazione della green economy; per riassorbire le domande delle piazze ambientaliste riempitesi dopo l’appello di Greta e le loro traduzioni elettorali (uno degli exploit di questa tornata); e per guardarsi le spalle da mine vaganti come il Fidesz di Orban e la CSU bavarese – ancora formalmente in seno al PPE nonostante l’intensificarsi negli anni delle loro pulsioni autoritarie.
Dall’altra impedendo sulla carta una sintesi del fronte delle opposizioni – in cui convivono opzioni diverse, dai nazionalisti di destra agli stessi verdi, dai conservatori euroscettici alla sinistra. Con il vaso di coccio di un Movimento 5 stelle, dissanguato di voti ed alleati e che vede sfaldarsi il proprio gruppo parlamentare e quindi i propri ultimi terminali di influenza a Bruxelles. Non è escluso che questa conformazione non possa mutare anche a breve, pur senza mettere in discussione gli equilibri complessivi dell’emiciclo.
Tuttavia la contrapposizione tra europeismo e sovranismo è un falso problema laddove la dicotomia reale è tra vincitori e perdenti dell’integrazione europea e dalle politiche estere da essa agite negli ultimi anni. I sovranisti e gli euroscettici subiscono le maggiori battute d’arresto nel nord Europa, in cui rimangono lontani dalla maggioranza o arretrano – come in Germania, Svezia, Olanda e paesi baltici, capisaldi di una possibile “Lega Anseatica 2.0”. Mentre in una Francia spaccata a metà tra astensione e voto nessuna forza politica è riuscita nell’intento di riportare nelle urne il malcontento dei gilet gialli.
Fattore poco affrontato dai media nostrani è quello della Brexit: paradossalmente il Brexit Party di Farage porta all’europarlamento la rappresentanza più ampia (assieme alla CDU tedesca), a cui fa da contraltare quella pro-remain dei liberaldemocratici: una fotografia che rende ancora più aleatoria l’eventualità di un secondo referendum. Quali equilibri costruiranno questi attori, e quali smuoveranno a Bruxelles in caso di uscita britannica dall’UE? Ancora una volta all’angolo sono finiti i partiti tradizionali: quello laburista, di fatto spaccato e incapace di indicare un percorso coerente rispetto alla questione europea; e quello conservatore, ormai avviato sulla strada dell’implosione – con una dozzina di candidati a contendersi le macerie lasciate dal catastrofico premierato della May.
Affonda infine la sinistra populista nelle varie salse periodicamente brandite in Italia, dallo stesso Corbyn a Podemos (che perde le amministrazioni amiche di Barcellona e Madrid) e da Tsipras (costretto alle elezioni anticipate da una posizione di svantaggio) fino a Melenchon (precipitato alle stesse percentuali del Partito Socialista).
In attesa che nei prossimi giorni si dipanino una serie di nodi sulla composizione e sull’operatività delle istituzioni di Bruxelles è dalla piazza della stessa capitale belga che fridays for future e gilet gialli pongono una sfida a vecchi e nuovi padroni d’Europa; e persino alla stessa rappresentanza verde appena ringalluzzita dal voto.
Come potrà questa sedere a fianco di quelle forze le cui politiche hanno portato alla catastrofe climatica e fungere da loro comprimaria?
Come potrà il costo della transizione ecologica essere distribuito senza politiche di spesa contrarie ai dettami del rigore fiscale (tema furbescamente colto persino da Salvini nella sua conferenza stampa di ieri)?
Le risposte a queste domande potrebbero rappresentare un buon viatico per un secondo tempo dei movimenti esplosi nei nostri venerdì e nei nostri sabati a partire da quest’autunno.
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