Via Cernaia _qualche parola sul 19 ottobre
_di Jacob Foggia_
È una trappola, dice qualcuno. A qualcuno piace parlare di trappole. Ridimensiona il soggettivo insito nell’agire, sottomette le pratiche del branco alle meccaniche celesti di un non meglio precisato Re del mondo. Che, di solito, è un perfido traditore del migliore sangue in circolazione. Certo, non c’è molto da capire. Se si resta a casa, non si corre il rischio di sbagliare. Si sa. Dai vetri della camera, ogni elemento sociale trova la sua giusta collocazione. Statica o dinamica che sia. Siamo d’accordo, la piazza non è l’unico proscenio possibile. Annusare i conflitti solo quando si riconfezionano scarpe di nastro isolante, quando l’asfalto è una miniera di sampietrini, quando i cappucci calano sul cranio, è sminuente e avvilente. Ma siamo animali da conflitto. Da scontro aperto. E conosciamo la nostra natura bifronte. Quartieri da strappare all’inerzia, da riconvertire alla lotta, fortezze da conquistare e difendere, con l’analisi che viene dall’esperienza; ma anche il campo d’onore, l’appuntamento che non si può mancare, per affrontare – stretti in una morsa e ad armi impari – l’impatto delle nostre crude esistenze con l’espropriatore di sempre. E i loro gendarmi. A questo pensiamo, mentre aggiriamo i caselli e proviamo a perforare le barriere. Come Pezzali&Repetto, Nord-Sud-Ovest-Est. A questo dedichiamo il nostro residuo di veglia, in attesa del risveglio d’adrenalina e fumo. Che bisogna esserci. Sempre, o nella maggior parte dei casi. Anche solo per poter dire, con le narici gonfie e gli occhi rossi, che no, non ne valeva la pena.
Sole alto, abbacinante e dannato. Che non fa pendant coi nostri abiti d’autunno, per quanto caldo. Coda. San Lorenzo è piena d’omini che fanno i vaghi. Di setter irlandesi e bracchi nostrani, vestiti all’Outlet del Perfetto Manifestante. E già la distanza che intercorre tra questo new-style e quello modello “concerto del Primo Maggio”, dovrebbe inorgoglirci. E farci comprendere che ne stiamo facendo, di passi avanti. Avanti! I compagni nei doppifondi dei bar. Allergici alle macchine che vanno troppo lentamente. Malanni di stagione. Gli appuntamenti si rincorrono. Mancano ore concave. Le riempiamo di birra e caffè. Sono elettrici, gli sgherri. Fomentati. Ieri hanno caricato al mercato del Pigneto. Scudi e manganelli tra le bancarelle e le massaie. Alla rinfusa, alla rincorsa dei manifestanti. O dei loro fantasmi. Hanno bloccato cinque francesi a spasso per Roma e li hanno scortati Oltralpe. “Professionisti del disordine”, li hanno definiti, facendo correre lussuriose le impiastricciate penne degli scrivani. I quali, avidi di tensione e ansiosi di agevolare il panico, in mancanza di meglio, li hanno accorpati ad altri episodi pescati qua e là. Così, per zelo di reazione. Si teme, questa giornata. Si deve temere. Perché, fondamentalmente, al corteo dei Cobas e alla partita della Roma, non è successo un cazzo. E pare brutto uscire dal weekend di paura senza aver dimostrato un assioma. Dovesse filare tutto liscio al corteo No Tav, No Muos e per il reddito, la cittadinanza e il diritto alla casa, siamo certi che qualche giornalista di Repubblica potrebbe compiere l’insano gesto di attaccare le camionette a colpi di Blackberry. Dobbiamo tutelarli, questi qua. Sono sotto pressione. Proprio come gli sbirri che si agitano a scatti. Che vanno a caccia. Dati anagrafici, terminale, foglio di via. A Piazza San Giovanni deve arrivare quanta meno gente possibile. Perché Piazza San Giovanni, come il castello di Dracula, è vetusta. Ed evoca molti brutti ricordi. Il nero sfina. Ma insospettisce. Porta Maggiore è un fortino senza capisaldi. Siamo scoperti su tutti i lati. L’ultima volta – la prima dopo le gloriose ore dell’Ottobre 2011 – della Città eterna abbiamo visto solo l’eterna cella di sicurezza del Commissariato di zona. Vorremmo evitare. Non ci si addice l’onore che si deve ai martiri senza colpa e senza peccato. A noi piace peccare. E il piazza vorremmo giungere. Carabinieri e polizia blindano gli accessi. Hanno bloccato diversi pullman, dicono quelli che hanno una connessione internet. Stanno incriminando i compagni di Napoli per detenzione di armi da guerra. Mentre setacciano borse e zaini a coloro che fermano spaesati in giro. Occhi aperti. Uno sguardo coperto alle pattuglie di controllo. Passiamo tutti, a micro-gruppi. Sono in fibrillazione, gli amici in blu. Si muovono senza un briciolo di routine. Del resto, se le maggiori testate italiane si sono spinte a parlare esplicitamente di “aria di vendetta”, qualcosa in pentola dovrà pur bollire. Quella rotta di due anni fa brucia ancora. Bene così.
La piazza è la solita di sempre. A perdita d’occhio. Teste e cappellini. Casuals e sedicenni. Radicali e fricchettoni. I volantini con le lunghe disamine della fase piegati in due, poi in quattro, poi in sedici, e poi lasciati scivolare al suolo. Fare No, No con la testa a quella che propone Falce&Martello. Cercare una zona d’ombra. Un’ombra climatica ed esistenziale. Un’ombra definitiva. Dalla quale emergere al momento opportuno. I tizi che vendono fischietti sono i veri eroi della contemporaneità. Due pezzi, un euro. Lo direbbero anche se fossimo in Russia. E questo fosse l’assedio di Leningrado. Scalinata e pessimi presagi. “Siamo pochi e quelli sono a mille”. Incrociamo le preoccupazioni. Ma finiamo per scaldarci. Non sono male le facce. Non sono male per niente. Belli, i compagni. Belle, le compagne. Almeno, da questa parte. Il tizio della digos che si finge Turista per Riot, ha azzeccato il bacino d’utenza per il suo casting. “No, grazie, non vogliamo firmare per Ocalan”. Ore tredici e dispari, è tempo di migrare. Il centro sociale davanti, le tre frecce dietro. In coda al serpentone che punta la basilica. Un gruppo di anarchici intona L’inno dei malfattori. All’uso antico. Dopo mezz’ora, la calotta cranica prende a bruciare. Il sole è perfettamente estivo. Tardo primaverile, a volergli concedere una chance. Dopo un’ora, non si muove foglia. E così fino quasi alle sedici quando, tra mille sorpassi a destra, troviamo il nostro spazio vitale e imbocchiamo via Merulana. Non prima d’aver donato il nostro sguardo di sanguinante nostalgia al chiosco delle bibite piazzato di fronte alla Scala santa. Lì, due anni fa, cominciò tutto. Ma non va bene. Ecco. Siamo qui oggi anche per uscirne. Per guarire dalla sindrome del Quindici di Ottobre. Per smetterla d’essere reduci di quella serata magnifica come in troppi (e per troppo tempo) lo furono dell’orrore di Genova. Il corteo si muove. È imponente. La testa è già distante. E dietro di noi c’è un mondo. Ancora uno sguardo al percorso. Abbiamo raccolto solo critiche sul tracciato designato. Critiche che si sono aggiunte alle nostre. L’idea che ci trasmette quel foglio muto è quella di un passaggio onirico dallo spazio aperto alla claustrofobia delle spalle al muro. Si, d’accordo, i Ministeri, V per Vendetta, l’Assedio. Ma di simbolismo, Baudelaire ci è morto! Piazza dei Cinquecento, ci ripetiamo. Tutt’al più Piazza Esedra. E sappiamo quel che intendiamo. Ma non abbiamo idea di quel che verrà. Marciamo, attenti, sulla difensiva, senza che nessuno attorno a noi esprima velleità differenti. Spalla a spalla come sempre, come sempre sarà. Dei ragazzini emergono tra le teste non cordonate per salutare la loro insegnante di liceo. Due napoletani spingono il loro frigo mobile di Peroni grandi a 5 euro. L’ombrellone affiora tremolante come torretta di sommergibile. Un signore ci circumnaviga leggendo, concentratissimo, un libro giallo. Come se fosse alla Feltrinelli. La gente dai margini ci saluta. La normalità pretende un costo di vite altissimo. Ci squama. Ci ridimensiona. Ci comunica che è inutile stringersi nelle spalle tese, gonfiare il petto, tenere il fiato all’altezza dello stomaco, stringere le aste, rifornirci di Malox e limoni, nell’attesa dell’impatto devastante. Tanto ci sarà sempre chi venderà fischietti e chi spingerà carrelli, chi chiederà l’elemosina, chi mangerà gelati artigianali e chi saluterà gli amici. Anche ai margini della Rivoluzione. O dell’inferno. Ma non abbiamo bisogno di queste considerazioni, adesso. Veleggiamo – con parsimonia – verso Santa Maria Maggiore. Davanti a noi, un muro di individui. Dietro, non se ne vede la fine. È un buon segno. È il segno. Ma analizzarlo ora ruberebbe tempo prezioso al fegato che lavora alacremente per filtrare tensione. Quindi, avanti. Laggiù, pare che quelli di Casapound siano tutti in strada. Caschi e bastoni tra le mani, a difendere la Cloaca Massima da eventuali provocazioni. Carabinieri alle loro spalle, carabinieri di fronte. Due minuti e scartiamo la ventilata ipotesi dell’attacco aereo. Fotografi e filmakers del Terzo Millennio. In posa. È il momento di massimo relax del corteo, che ondeggia fino all’angolo con via Torino. Eppure, ci dicono da casa, si parla di scontri. In realtà, nessuno è arrivato a contatto con i fascisti. Ma gli inviati friggono. Come noi, che all’approssimarsi di Termini, continuiamo a ripeterci che piazza dei Cinquecento sarebbe la soluzione ideale. Le scritte sui muri parlano di Rivoluzione e nuovi comitati di Liberazione nazionale da organizzare. Ci chiediamo se l’idiozia non sia un prerequisito – propedeutico – alla dimensione di Compagno. Questi vendono venti giornali in piazza e parlano come il Comitato centrale dei Soviet di Pietrogrado. Qualcosa si muove, ma sulla sinistra sta scivolando il Planetario di Piazza dei Cinquecento. Tardi, pensiamo, troppo tardi.
E allora la differenza tra avere dei legami e non averne diventa via Cernaia. Un budello stretto e poco lungo che costeggia le Terme di Diocleziano per riversarsi sul Ministero dell’Economia e delle Finanze. Una strada come tante, alla fin fine, che per alcuni secondi – quelli che la sorte stabilisce con sublime vanvera – diventa il discrimine. Quanto meno per chi ha coscienza di ciò che sta per accadere. Imboccarla significa predisporsi alla battaglia, senza possibilità di ripiegare. Significa seguire quei nostri lugubri fratelli nell’epicentro di quel che riteniamo un errore strategico. Che attaccare il grosso dell’esercito nemico sul terreno che ha scelto e che presidia meglio, senza vie di fuga sufficienti, con il corteo che gonfia gli accessi avanti e dietro, senza averlo costretto al duello in campo largo, potrebbe risultare fatale. Per noi e per la nostra autostima (più che per la nostra fedina penale). Imboccare via Cernaia significa che i fratelli, a conti fatti, contano più della politica. La imbocchiamo convinti. E, con l’aria che si inspessisce come un climax ascendente, aggiriamo la struttura. E divampiamo. Una fiammata di rabbia a pezzo singolo. Offerta speciale. Alta e impetuosa, folle e suicida. Il resto sono deviazioni ripide, percorsi forzati, urla. I finanzieri chiudono il fianco sinistro con una carica di alleggerimento. Abbiamo modo di gridare a chi ci grida che ci sono donne e bambini che farebbero meglio a continuare a camminare, piuttosto che sostare – con donne e bambini al seguito – a godersi lo spettacolo selvaggio degli scontri, come villeggianti al safari. Con tanto di videocamere e digitali. Schiene, tante schiene. Una sull’altra. Accalcarsi, cercare di non cadere, di non calpestare chi cade. Voltarsi. Fronte al nemico. Ricompattare un cordone che faccia da argine, da limite. Frattanto che il resto dei manifestanti risale via Goito. Evitando, al contempo, di farsi prendere nel mezzo dalla squadriglia di grigioverdi che sbuca dalla traversa di via Calatafimi. Risorgimento a piene mani. Isolare i violenti, stavolta, sarebbe più di uno slogan. Come i gamberi, muoviamo all’indietro. Facce rivolte alla Finanza che avanza. Che adesso è a distanza. Che non carica. Mentre l’aria riporta un ricordo di lacrimogeni. E la consapevolezza d’aver spaccato il corteo. Attimi eterni. Di rabbia e incertezza. Poi il resto del corteo viene fatto passare. Siamo di nuovo un monoblocco. Arriveremo a Porta Pia.
Provocazioni e considerazioni
Però va detto. Ad onor del vero. Se avessero caricato, oggi staremmo parlando di una carneficina. Di teste e braccia rotte, di compagni piantonati in ospedale, di fermi e pestaggi in commissariato. Le solite cose. Se gli ordini fossero stati differenti, oggi avremmo un altro mega-processo sulle spalle. Così, tanto per gradire. Perché il simbolo, certo, per carità, ha la sua importanza evocativa. Ma la forza “militare” del movimento italiano – un movimento che non ha continuità nell’esercizio dello scontro di piazza, che si improvvisa una volta all’anno, che non dà seguito alle fiammate improvvise di ottobre – sembra quella degli scozzesi prima di Wallace. Colpire e fuggire. Anche per ore, come a San Giovanni. Fino allo sfinimento delle forze avverse. Basandosi sul numero che cresce, sui compagni che rompono gli indugi, sul tiro al bersaglio. Non è nelle nostre corde, al momento, una minoranza che tiene il corpo a corpo. Al dilagare delle forze dell’ordine, abbiamo bisogno di riportare lo scontro sulle nostre frequenze. Abbiamo bisogno di traverse, slarghi, vie di fuga. Se l’ordine impartito ai gendarmi fosse stato quello di caricare a fondo – a maggior ragione considerando il clima di esaltazione del pre – davanti al Ministero saremmo stati chiusi. Come tonni in trappola. Stavolta sul serio. E, pur non contando le responsabilità morali nei confronti del resto del corteo, ci saremmo messi nel guaio politico dell’autoisolamento. Perché nessuno avrebbe creduto alla favoletta della legittima difesa. Di sbirri, i manifestanti ne avevano visti solo i segni da lontano. Quello portato al Ministero sarebbe stato percepito come un attacco a freddo, inutile e gratuito, addirittura distraente rispetto alle motivazioni della sfilata. È andata bene, tutto sommato. Ma fa riflettere. Perché si, dopo decenni di grane pacifiste, è da tempo maturo il tempo di discutere delle regole d’ingaggio e della gestione della piazza. Senza ipocrisie. Senza buoni e cattivi. Lasciar fare all’istinto, all’estro, sul momento, può essere stimolante, ma non è sempre salutare. Come nel calcio, la tecnica sopraffina non serve a niente se non si ha visione di gioco. E, al momento e limitandosi a questo aspetto, al movimento serve visione di gioco. Cosa che invece sembra fare capolino dal punto di vista della proposta politica. L’ibridazione di Porta Pia, le occupazioni a scopo abitativo, la lotta per gli spazi e per il reddito, segnano una frontiera. E illuminano un percorso. È quella la direzione, dice questo corteo, a guardarlo in controluce. Ed è territoriale. Locale. Ognuno nei luoghi che conosce meglio. Invitato, coi fatti, a fare altrettanto. Ad adattare una lotta unitaria per casa, spazi e reddito. Ed estendere l’urgenza. A riprenderci la strada attraverso la militanza e la politica. L’epoca dei lupi da piazza non è tramontata. Ma non può servire come stella polare, alfa ed omega dell’intero esistere politico. Tornare ai bisogni e farlo in fretta. È questo il messaggio che abbiamo riportato a casa il 19 ottobre. Anche se, va detto, un po’ ci eravamo arrivati anche di nostro.
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