Ancora rivolta in Tunisia: niente petrolio senza giustizia
I disoccupati della regione petrolifera e di frontiera di Tataouine, a sud del paese, hanno innescato una rivolta indirizzata contro i siti produttivi per chiedere più giustizia nella redistribuzione delle risorse e contro la corruzione.
Le tensioni sociali che da mesi scuotevano a bassa ma continua intensità il paese sono esplose negli ultimi giorni: blocco delle stazioni di pompaggio del petrolio, scioperi, scontri prima con l’esercito e poi con la Garde National, cortei di solidarietà nella capitale, morti. La transizione post-rivoluzionaria si è ripiegata su stessi ripresentando gli stessi fantasmi di sempre. Lo sblocco della nuova tranche di aiuti da parte del fondo monetario internazionale in cambio dei tagli nella pubblica amministrazione e la proposta di legge per l’amnistia degli indagati per corruzione nel regime di Ben Ali sono lì a ricordarlo.
Nel mese di marzo le manifestazioni in Tunisia sono state oltre 1025. Il governatorato di Tataouine, che più soffre per la crisi economica e per la mancanza di reddito indotta da una disoccupazione strutturale, ha visto le proteste più massicce. In questa regione ai confini del deserto la marginalizzazione economica subita dagli abitanti che fuggono a migliaia emigrando ogni anno vive in contrasto con le infrastrutture estrattive e logistiche delle compagnie petrolifere che, letteralmente, estraggono la ricchezza dalla regione abbandonandola al suo deserto.
Il 24 marzo una protesta contro la disoccupazione è scoppiata nel piccolo villaggio di Maztouria. Il 27 Marzo la protesta si é allargata rapidamente ad altre località della regione, è stata indetta una “giornata della collera” supportata dall’UGTT, il principale sindacato del paese. Le scuole e tutti gli uffici pubblici sono rimasti chiusi per diversi giorni a causa anche dei blocchi stradali che fermavano in particolare i mezzi delle compagnie petrolifere. L’UGTT ha proclamato uno sciopero generale nelle località di Maztouria, Chennini, Douiret, Ksar Aouled Soltane, Maghit, cité Ennour. Le promesse governative non hanno fermato la protesta che è cresciuta ancora. L’8 aprile una grande assemblea popolare nel centro di Tataouine proclama lo sciopero generale per l’11. È un successo: l’adesione si stima superiore al 90% nella regione e i blocchi vengono allentati solo per permettere agli scioperanti di raggiungere la città. Il filo conduttore degli interventi reclama la redistribuzione dei proventi delle multinazionali petrolifere, più giustizia e contrasto alla drammatica piaga dell’emigrazione (qui un report dettagliato della manifestazione). Nelle settimane successive le pressioni ai siti produttivi si intensificano. Il 23 aprile oltre 1500 si ritrovano nella zona di el Kamour per installare un campo stabile di lotta. L’area viene individuata come terreno di lotta e organizzazione perché snodo dei mezzi di trasporto legati alle compagnie petrolifere.
Il presidente Essebsi, impegnato a stringere accordi di partnership commerciale con l’occidente, teme che le proteste inizino a danneggiare la credibilità del paese agli occhi degli investitori. In febbraio a Roma aveva siglato alcuni accordi di natura economica con l’Italia scambiando, tra le altre cose, alcune facilitazioni commerciali con impegni sul controllo dei flussi migratori dal nord-africa, impegnandosi dunque, per conto dell’occidente, a fare il carceriere del proprio popolo, di quei ragazzi che, come urlavano le proteste a Tataouine, erano costretti a fuggire e a morire in mare. Il 10 maggio, con una conferenza stampa, Essebsi annuncia l’impiego dell’esercito per proteggere i siti produttivi qualora le proteste dovessero isolare la regione o minacciare gli affari delle compagnie. L’UGTT si schiera con la controffensiva dello Stato e volta le spalle alla protesta. Dopo gli attentati terroristici del 2015 la carta securitaria diventa il lascia passare ideale per le autorità statali impegnate contenere la conflittualità sociale. La presidenza di Essebsi si è trovata a fronteggiare l’emergenza del jihadismo di ritorno e quella di una radicalizzazione islamista dei giovani tunisini dettata anche dall’orizzonte stretto di futuro definito dalla crisi economica e dal crollo delle aspettative successive al 2011.
Ma la minaccia dello scontro frontale non arresta la protesta. I tentativi di mediazione condotti dal governo ottengono l’unico risultato di dividere il presidio di El Kamour. Una sessantina di presidianti vota a favore delle proposte governative ma il grosso si mette in marcia verso una stazione di pompaggio distante circa 10 chilometri. Sabato i manifestanti tentano diversi assalti ad alcune stazioni di pompaggio. L’esercito spara in aria per disperdere la folla. I manifestanti si avvicinano alla stazione di Vana. I militari mediano ed evitano la sommossa inviando un ingegnere a chiudere la pompa. L’ENI dichiara che la sua produzione non è stata danneggiata ma l’austriaca OMV evacua in via precauzionale circa 700 operatori non essenziali.
Domenica un’altra stazione di pompaggio viene chiusa dai manifestanti a Faourar, nella provincia di Kebili. Si tratta di una stazione di proprietà della compagnia francese Perenco. La sera, l’assedio al governatorato sfocia in una notte di scontri. La Garde Nationale prova ristabilire l’ordine. Un mezzo della polizia uccide un manifestante investendolo. Scoppia la rabbia a Tataouine. Ieri 13 mezzi delle forze di sicurezza e una caserma sono dati alle fiamme. Un corteo di migliaia di persone sfila per le strade di Tunisi in solidarietà con Tatouine circondando al grido di “Dégage” il ministero degli interni e l’ambasciata francese. Arrivano notizie non confermate di una probabile seconda vittima nel sud del paese. Poche ore prima dal palazzo del governo tramite conferenza stampa il portavoce dell’esercito dichiarava che i manifestanti avevano sabotato il gasdotto nella zona di al Kamour costringendo i tecnici a fermare gli impianti. Le notizie dalla regione si susseguono freneticamente, sembra che i manifestanti abbiano preso il sopravvento sulle forze di sicurezza costringendole a ritirarsi nelle caserme scortate dall’esercito. La piazza di Tunisi si scalda. Un altro presidio di solidarietà si forma a Sidi Bouzid da dove partì la rivoluzione del 2011.
La città guarda di nuovo alla periferia, come nella dinamica detonativa dell’insurrezione del 2011 in cui una periferia giovane, immiserita e insoddisfatta innescò la protesta, fino a raggiungere le grandi città. In questi centri, oggi, l’esperienza rivoluzionaria ha sedimentato una nuova pretesa politica, sempre più divergente con il corso post-rivoluzionario, ma innervata oggi dal sentimento di un tradimento che chiama vendetta. Il corteo di ieri a Tunisi è stato convocato dal movimento Manich Msamah – io non perdono – che si batte contro la proposta di legge per l’amnistia dei corrotti con il regime di Ben Ali. Sabato 13 maggio in decine di migliaia sono scesi per le strade di Tunisi contro questo progetto di riconciliazione nazionale gestito dall’alto. La corruzione è l’altra faccia della medaglia del sistema predatorio che mette in ginocchio il sud del paese e allo stesso tempo l’emblema della continuità dell’apparato statale e del suo progetto con il periodo pre-rivoluzionario. Lo specchio di una transizione incompiuta verso il cambiamento. Il paese non è pacificato.
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