Argentina, un G20 di crisi
Il G20 che apre i battenti oggi 30 novembre in Argentina sembra essere decisamente più significativo di altre recenti edizioni dei meeting. Ma è un G20 di crisi globale multipla: politica, economica, ambientale.
Se ad Amburgo lo scorso anno l’attenzione venne catturata dalla prima partecipazione di Trump e dalle proteste di piazza, in questo caso gli occhi sono sul programmato incontro tra Usa e Cina. L’incontro dovrebbe avere ripercussioni sui futuri sviluppi della guerra commerciale e tecnologica in corso tra i due paesi da diversi mesi.
Gli Usa minacciano di imporre ulteriori tariffe sulle importazioni dalla Cina, oltre a quelle già in atto. Tariffe finalizzate secondo i falchi di Washington a mettere in ginocchio l’economia di Pechino. Ciò ovviamente accadrebbe solo caso di mancato accordo tra Trump e Xi, che si vedranno ai margini del meeting. Allo stesso modo però la Cina sembra voler resistere alle richieste americane, che sono giudicate inaccettabili poiché metterebbero a repentaglio lo sviluppo economico cinese di qui ai prossimi anni.
Un muro contro muro insomma, nello scontro per l’egemonia globale. Le tensioni tra le due superpotenze potrebbero portare, se non risolte, ad una forte contrazione dell’economia nel 2019, con ripercussioni globali che potrebbero condurre a crisi del credito e a nuove politiche di austerità imposte a livello transnazionale.
Al momento le prospettive di un accordo sembrerebbero esserci, almeno dalle voci che filtrano da alcuni esponenti del governo americano. Ma non è semplice prevedere quello che succederà.
Accordo o non accordo, prosegue la tendenza all’emersione di un assetto multipolare sempre più definito. In un contesto in cui non è ancora stata trovata una soluzione duratura alle ragioni di fondo che portarono allo scoppio della crisi del 2008, e dove lo scontro tra riduttive e semplici etichette come “unilateralismo americano” e “multilateralismo cinese” nasconde una fragilità sistemica complessiva molto profonda.
In questo senso, la decisione di General Motors di chiudere alcuni stabilimenti in Nord America a causa degli elevati costi di produzione sembra mettere la pietra tombale sulla affermazione pratica della retorica trumpiana del Make America Great Again. Ovvero, su una delle principali ipotesi di “nuovo ordine globale” emersa negli ultimi anni. Nonché, insieme al caos inglese sulla Brexit, sullo stesso sviluppo futuro dell’ondata che sbrigativamente viene definita “nazional-populista”.
Non a caso Trump ha minacciato di tagliare gli tutti gli aiuti governativi a General Motors al fine di tenere il punto sul suo progetto cardine, ovvero la fine della delocalizzazione e il ritorno nel paese di posti di lavoro. Nessun ritorno al passato è però possibile ai tempi del combinato disposto innovazione tecnologica/automazione e globalizzazione finanziaria.
L’assalto americano all’economia cinese sembra esser riuscito in uno dei suoi obiettivi, vale a dire spostare verso altri paesi gli stabilimenti produttivi attualmente locati in Cina delle varie multinazionali dell’elettronica o del settore automobilistico. Ma non sta riuscendo a farlo verso gli Stati Uniti. I milioni di posti di lavoro promessi da Trump cozzano con la realtà della ricerca del profitto delle grandi aziende, che agli USA preferiscono Vietnam, Bangladesh, India, Indonesia.
Ciò non vuol dire che la nuova ondata nazionalista-populista verrà messa in un cassetto e che tornerà il sostegno ad un entusiasmo popolare pro-globalizzazione. Non emerge infatti alcun piano alternativo, nessun “liberismo moderato e sociale” ha spazio e possibilità di emergere. Allo stesso tempo, progetti come quello cinese della Nuova Via della Seta sono sempre più messi sotto accusa nei paesi interessati dagli aiuti cinesi, per via dei processi di indebitamento e sfruttamento che descrivono il piano neocoloniale di Pechino.
Inoltre, il sostegno alle politiche del presidente USA rimane invariato da parte delle lobbies industriali e finanziarie, soprattutto per la sua politica di incentivi fiscali alle aziende e tagli delle tasse ai ricchi. Un modello che appoggia anche l’appena eletto Bolsonaro, l’indiano Modi o il giapponese Abe. Ma tornando agli USA, questa “droga” immessa nel mercato non sembra però possa funzionare a lungo. Le prospettive per la crescita e l’occupazione sono peggiori per i prossimi due anni, quelli che porteranno alle prossime elezioni USA.
Inoltre, l’indebitamento nel paese aumenta e potrebbe portare all’esplosione di nuove bolle. Ciò proprio a causa delle politiche protezionistiche e di deregulation finanziaria, che esacerbano ulteriormente la realtà di un mondo sempre più diseguale in termini di distribuzione della ricchezza.
L’attualità ci parla di una enorme polarizzazione dei redditi e allo stesso tempo di un enorme indebitamento collettivo, in primis americano, ma anche europeo. Il QE di Draghi, che aveva messo un tappo alla situazione, finirà a dicembre con il rischio che l’economia europea possa subire ulteriori dinamiche speculative della grande finanza sulla tenuta dei debiti sovrani.
La situazione è complicata. Non a caso, l’amministrazione americana sembra essere sempre più solerte nella costruzione di un nemico esterno su cui scaricare le future problematicità interne. Il ripristino delle sanzioni all’Iran ne è testimonianza diretta, così come la marcia indietro sulla risoluzione della questione nordcoreana o l’appoggio alle peggiori politiche iper reazionarie di Israele e Arabia Saudita nello scenario mediorientale. La guerra è il modo migliore, da parte capitalista, per risolvere una crisi..
Le stesse nuove sanzioni all’Iran hanno mostrato però come esistano movimenti sotterranei in cui l’egemonia USA sembra avere ulteriori complicazioni. La decisione di Ue Russia e Cina di continuare a commerciare con la Repubblica islamica tramite sistemi speciali di pagamento è di fatto un tentativo inedito di svincolamento dall’egemonia del dollaro, pilastro della supremazia americana post seconda guerra mondiale.
Allo stesso modo, l’enfasi di Macron e Merkel sulla necessità di un salto in avanti del processo di unificazione europeo in ambito militare e finanziario segnalano che alcuni settori dell’establishment europeo iniziano a mal sopportare la tenaglia che tra dominio militare e tecnologico USA e supremazia commerciale e finanziaria cinese sta facendo sprofondare nell’irrilevanza il grande capitale europeo.
Le multe contro i cosiddetti Gafa (Google, Amazon, Facebook e Apple) e lo stop agli investimenti indiscriminati cinesi nell’Unione sembrano segnalare questo cambio di atteggiamento. Non sarà però un passaggio né immediato né facile. L’unione è spaccata, con paesi come quelli del blocco orientale e l’Italia gialloverde che agiscono de facto da lunga manus di USA e Cina nel boicottaggio di ogni passaggio di ulteriore integrazione.
Altro tema centrale del G20 sarà quello del cambiamento climatico. Anche su questo esiste una forte polarizzazione tra chi insiste sul rispetto dell’accordo di Parigi, in particolare Cina ed Unione Europea, e chi invece lo denuncia come gli USA, che potranno inoltre contare sull’appoggio del neoeletto Bolsonaro. Uno stallo che cozza con la drammaticità della situazione a livello globale, dove ondate migratorie di massa sono previste come esito della progressiva devastazione del pianeta e dove imprenditori politici senza scrupoli si fregano già le mani al pensiero di strumentalizzarle.
Su ogni dossier insomma, le principali potenze globali sono spaccate. Segnale di difficile ricomposizione delle tensioni internazionali. Dove quella tenaglia che odora di guerra di cui parlavamo qualche settimana fa è sempre più all’opera..
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