Doppiogioco USA in Siria, Manbij appesa a un filo
Gli USA vendono alla Turchia la dipartita delle YPG/YPJ ed Erdogan spera di potersi spingere sempre più a ovest per eliminare l’esperienza di auto-governo laica e multiconfessionale che è cresciuta in ciò considera il suo cortile di casa.
La città di Mambij era stata liberata dalle SDF, le forze democratiche siriane a trazione curda, nell’estate del 2016.Una offensiva durata mesi, con combattimenti casa per casa, che aveva cancellato la presenza dello stato islamico permettendo poi l’instaurazione di un auto-governo della città. Il destino della popolazione di queso crocevia strategico è ora appeso a un filo.
Lunedì il segretario di Stato USA Mike Pompeo e il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu hanno infatti concluso un accordo che prevede il ritiro delle unità di difesa del popolo YPG/YPJ che, a costo di centinaia di vittime, avevano liberato la città due anni fa.
Le YPG/YPJ si erano in realtà ufficialmente ritirate tre mesi dopo la liberazione della città, nel novembre del 2016, erano rimasti sul posto soltanto alcuni ufficiali come supporto al Consiglio militare di Membij. I curdi hanno quindi annunciato in un comunicato la partenza dei militari rimasti specificando però che le unità di difesa del popolo torneranno se necessario. Dal suo canto il Consiglio militare di Membij non nasconde infatti le sue preoccupazione per l’accordo USA-Turchia, “lo stato turco sta mandando all’aria la pace nella zona” denuncia in un comunicato.
Nel marzo scorso, con l’assenso della Russia, la Turchia ha infatti iniziato una vera e propria invasione della parte settentrionale della Siria, portando avanti un brutale attacco contro il cantone di Afrin attraverso l’orwelliana operazione “ramoscello d’ulivo” durante la quale ha usato bombardamenti e truppe di terra per distruggere le strutture di autogoverno e consentire l’installazione di famigli arabe nel tentativo di operare una pulizia etnica che riduca la presenza curda nell’area.
Le implicazioni dell’accordo turco-statunitense firmato pochi giorni fa sono ancora poco chiari, se la stampa governativa turca insiste sul fatto che l’accordo su Manbij è solo una delle tappe che porterà la Turchia a prendere il controllo di tutta il territorio siriano a sud della sua frontiera meridionale, da Afrin a Hasakah, sottomettendo i curdi del Rojava e liberandosi delle YPG/YPJ, gli USA parlano di tempistiche ancora da definire e non hanno specificato se i combattenti curdi dovrebbero, secondo i piani, fisicamente deporre le armi, tanto che lo stesso Cavusoglu ha dovuto correggere le dichiarazioni della stampa turca che parla ora di una road map che si dovrebbe svolgere nell’arco di circa sei mesi.
In ogni caso lo stesso scenario a cui abbiamo assistito ad Afrin sembra difficilmente ripetibile visto che, a differenza della città invasa nel marzo scorso dalla Turchia, a Mambij si trovano direttamente truppe statunitensi con cui la Turchia dovrebbe andare direttamente a confliggere, palesando la sempre più imbarazzante spaccatura all’interno della NATO.
Se dettagli e conseguenze sono ancora difficili da definire la natura dell’accordo conferma comunque la politica di sfacciato doppio-gioco degli USA in Siria che, dopo aver appoggiato le SDF (e le YPG) per combattere quel giocattolino a stelle e strisce sfuggito di mano che è stato il “califfato”, non esitano ora a voltare le spalle ai curdi, portatori sani dell’unico progetto politico che propone una convivenze tra le etnie nel reciproco rispetto nell’autodeterminazione popolare attraverso le strutture di base del confederalismo democratico. Non è la prima volta e non sarà l’ultima per un popolo senza padrini, tanto che uno dei motti della guerriglia curda è da sempre “Nessun amico, tranne le montagne”. Proprio in virtu di questa consapevolezza, in questi anni, le YPG/YPJ hanno saputo giocare a proprio vantaggio le divisioni e le contraddizioni tra le superpotenze invischiate nel caos siriano (Russia e USA innanzitutto) appoggiandosi tanto all’uno che all’altro. Il giorno seguente all’accordo annunciato da Pompeo e Cavusoglu il segretario generale dell SDF, Mayass Karidi, ha incontrato a Qamichli il co-presidente del Consiglio democratico siriano Ilham Ahmed, annunciando che le strutture nate dalla rivoluzione confederale sono pronte a inviare una delegazione per negoziare con Damasco. Qualche giorno da Bachar Al Assad aveva rilasciato una lunga intervista dove dichiarava che “con le SDF si cerca il dialogo perché la maggior parte dei suoi componenti sono siriani che amano il proprio paese e non vogliono essere strumentalizzati dalle truppe straniere” prima di lanciare un duro attacco contro la presenza statunitense in Siria. La via del confederalismo democratico resta comunque molto stretta e solo l’avvenire potrà dirci qual’è il destino di questa straordinaria esperienza di rivoluzione sociale e autogoverno che da sette anni resiste nel mezzo della guerra civile in Siria.
Nel frattempo, la Turchia si avvicina alle elezioni del prossimo 24 giugno – le prime dopo la riforma in senso ultra-presidenziale voluta da Erdogan – in uno scenario poltiico piuttosto confuso. Nel più classico degli sciovinismi elettorali, il governo turco ha annunciato un’operazione di terra sulle montagne di Qandil, in territorio iracheno, storica base del PKK. Se la possibilità concreta di un’invasione diretta rimane ancora tutta da verificare, i bombardamenti contro i guerriglieri curdi della zona continuano senza sosta come continua la guerra di guerriglia nella zona ormai occupata intorno ad Afrin. Qualche giorno fa è stata attaccata una base dell’esercito turco a Qurtqulak-Sharran e poi un’altra base a Maryamain, uccidendo numerosi soldati turchi e miliziani salafiti, in un’operazione che è costata la vita a tre combattenti ypg/ypj. Domenica sono anche ripartite le operazioni per eliminare le ultime sacche di presenza dell’ISIS. Nella provincia di Hasake, le SDF hanno liberato diversi villaggi e avanzato di molti chilometri. L’obbiettivo è quello di liberare la città di Al Dashisha. Nella provincia di Deir Zor le SDF sono invece avanzate di 4 chilometri, con l’obiettivo di arrivare da sud verso la cittadina di Hajin dove si troverebbero alcuni comandanti dell’isis. Fonti sul posto riferiscono che l’operazione dovrebbe durare un paio di mesi, vista anche la dura resistenza dei miliziani dell’isis.
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