Egitto, a chi appartiene la “Rivoluzione”?
L’immagine che ci viene oggi dall’Egitto è quella di un paese sull’orlo del burrone, un clima da quasi guerra civile: piazze contrapposte, da una parte quella galassia che si schiera contro l’Islam dei Fratelli Musulmani, e dall’altra i tanti che continuano a innalzare le ormai vecchie gigantografie di Morsi.
Piazze che certe volte si scontrano, come nella battaglia che ieri ha insanguinato la periferia del Cairo, quando la capitale egiziana è stata per tutta la notte teatro di scontri che hanno provocato decine di morti (una cinquantina quelli accertati).
Questo episodio, al di là delle dinamiche dello scontro – siano stati i militari ad uccidere a sangue freddo manifestanti anti-Morsi, oppure se abbiano invece ucciso uomini armati che volevano attaccare manifestanti pacifici – ci pone di fronte a quello che potrebbe essere il potenziale rivoluzionario della piazza, in uno scenario che cambia di ora in ora e di cui dare prospettive chiare risulta adesso più che mai difficile.
La questione che salta agli occhi è quella della “protezione della rivoluzione”. Mentre i Fratelli Musulmani incitano alla “rivolta del grande popolo d’Egitto” contro coloro che vogliono “rubargli la rivoluzione con i carri armati”, le forze armate giustificano invece l’attacco di ieri affermando di essere stati costretti ad intervenire, contro un gruppo di facinorosi che “minacciavano la rivoluzione” – come tante volte affermato quando ad essere attaccati erano invece i manifestanti di Piazza Tahrir.
Ciò che vien da chiedersi è di chi sia la “Rivoluzione”, quella che i militari dichiarano di voler proteggere e la stessa che i Fratelli Musulmani affermano, col Corano in mano, di voler difendere con un attacco che sa molto di Jehad.
A queste domande risulta ancora più difficile rispondere guardando alla società egiziana – 90 milioni di persone la cui maggioranza continua a mostrare fiducia al potere militare, ma anche una società fortemente religiosa, dove forte è tuttora l’influenza delle moschee, su cui tanto ha giocato il potere islamista.
Adesso le carte in gioco sono però cambiate. I Fratelli Musulmani hanno mostrato la loro vera faccia, il popolo egiziano si è mosso e ha fatto cadere Morsi con una mobilitazione di 17 milioni di persone. Poi è arrivato l’esercito che, in larga parte acclamato, è riuscito a scippare al popolo un forte potenziale rivoluzionario. La piazza egiziana non si dimentica però della lunga transizione militare, durante la quale l’apparato dell’esercito ha adoperato strumenti repressivi non certo minori di quelli di un Morsi o di un Mubarak; quello stesso regime che ancora oggi utilizza le tanto contestate corti militari per i civili, quello stesso regime che è stato oltremodo lontano da quelle aspirazioni rivoluzionarie che dice di voler proteggere.
La piazza egiziana è una piazza che ha preso coscienza e che – nonostante il potere militare sulle masse – appena un anno fa ha duramente contestato le forze armate. La stessa piazza che – nonostante l’influenza religiosa – ha saputo riconoscere e combattere l’Islam del Fratelli Musulmani.
In questa composizione vi è certamente quella delle masse egiziane che hanno accolto i soldati, che ne hanno invocato un intervento contro il nemico più grande – l’esercito che salva li paese dalla deriva islamista – ma vi è anche quella che in Piazza Tahrir si organizza, si interroga, che prende coscienza nelle università, nelle piazze e nei posti di lavoro.
Una piazza che continua ad autorganizzarsi, a mettere in campo nuove lotte nelle fabbriche, a sperimentarsi e a cercare un alternativa alla politica istituzionale, ai due unici poteri finora conosciuti – Islam ed esercito – che sempre di più si mostrano essere facce della stessa medaglia, entrambe parte di quel sistema che l’Egitto di Piazza Tahrir si è riproposto, dal gennaio 2011, di voler abbattere.
Una piazza che ha ben mostrato ciò che vuole, in cui i militari hanno saputo inserirsi a loro vantaggio, ma anche una piazza che prende sempre più coscienza, che non dimentica quali sono i nemici, una piazza pronta a battersi e ad innescarsi di nuovo.
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