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La COP 27 dalle mille e una contraddizioni

In questi giorni si sta tenendo in Egitto la COP27, conferenza annuale delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. Come palcoscenico della Conference of the parties è stata eletta Sharm el-Sheikh un non-luogo costellato di resort, centri commerciali, autostrade. Tuttavia con una campagna propagandista, Sharm el-Sheik si è raccontata come una città dalle cento sfumature di verde, pronta ad accogliere delegat* e attivist* da tutto il mondo.

Come afferma Noami Klein in un articolo per il The Guardian: ” Al-Sisi ha messo in scena un vero e proprio reality show, in cui degli attori recitano la parte degli attivisti e hanno un aspetto sorprendentemente simile a coloro che stanno subendo torture all’interno del crescente arcipelago carcerario egiziano”
È emblematico che sia stato scelto l’Egitto come luogo di ritrovo delle potenze dell’ONU: un’organizzazione che si dice portatrice della tutela dei diritti umani, dona legittimità internazionale a uno dei paesi più repressivi del mondo, dove, secondo Democracy for the Arab World Now, vi sono oltre 60mila prigionieri politici e dove gli attivisti egiziani impegnati per i diritti umani e per il clima, giornalisti e accademici, subiscono ripetutamente abusi, vengono spiati e vivono in una situazione che Human Rights Watch definisce di “generale paura” e “repressione della società civile”.

La COP27 ci fa fare passi indietro per quanto riguarda la libertà di espressione e ci ricorda come protestare o anche solo esprimire un’idea politica differente da quella vigente sia ancora, troppo spesso, un privilegio. La repressione politica raggiunge livelli altissimi ed è estremamente violenta. La COP27 è imbevuta in un contesto repressivo: non solo non è possibile organizzare manifestazioni spontanee per mettere pressione ai decisori politici, ma addirittura per protestare bisogna chiedere autorizzazioni fornendo i propri dati personali alle autorità mettendo così a rischio l’incolumità dei manifestanti dandosi in pasto alla polizia egiziana, polizia che ha il potere di scegliere se un individuo ha l’idoneità per manifestare oppure no. Mohammed Rafi Arefin afferma che “ogni vertice presenta un complesso equilibrio di costi e benefici”. Nel suo articolo per il The Guardian, Naomi Klein elenca quelli che sono gli aspetti negativi della COP27: l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera dai delegati, due settimane di albergo per i delegati e il loro staff. Ma Klein ricorda che l’aspetto positivo è che per due settimane la crisi climatica è sulle prime pagine dei più importanti quotidiani, attivisti locali avendo eco mediatico possono porre attenzione alle problematiche socio-ambientali organizzando dei “tour tossici per mostrare la realtà dietro alla strategia di greenwashing (ambientalismo di facciata)”. Tuttavia con la COP27 organizzata in Egitto la situazione cambia drasticamente e il peso dei costi è maggiore di quello dei benefici. L’equilibrio non regge perchè si aggiunge la repressione del dissenso e il fatto che quello di Al-Sisi sia uno dei regimi più repressivi nella storia dell’Egitto. In questo caso, secondo Klein, non si parla solo di greenwashing da parte di uno stato inquinante ma di greenwashing di uno stato di polizia. Nonostante la farsa propagandistica che Al-Sisi ha messo in piedi creando un vero e proprio green reality show con tanto di attor* che giocano il ruolo di attivisti, dovrebbe trapelare il vero scopo di Al-Sisi:  riuscire a salvaguardare i propri profitti e garantire accordi internazionali, come quelli tra l’Egitto e l’industria italiana Eni, una delle più inquinanti al mondo che guardacaso detiene la maggior parte dei suoi giacimenti proprio in Egitto. Sono queste le figure che vengono rappresentate alla COP27 mentre le comunità e le organizzazioni egiziane, più colpite dalle conseguenze dei cambiamenti climatici, non saranno presenti a Sharm el Sheikh. Alla COP27 non è stato organizzato il consueto forum di discussione della società civile perchè la popolazione locale potrebbe mostrare ai delegati la verità rivelando ciò che il governo egiziano vuole a tutti i costi insabbiare. Le leggi in vigore in Egitto impediscono a chi ha davvero a cuore il tema ambientale di diffondere senza permesso notizie considerate politiche: chi prova ad accendere i riflettori viene, in un modo o nell’altro, messo a tacere. Si può parlare solamente di argomenti considerati “accettabili” dal governo. Mona Seif,afferma in un tweet: “La realtà che la maggior parte di coloro che partecipano alla #Cop27 sceglie di ignorare non è solo che diritti umani e giustizia climatica sono connessi, ma che in paesi come l’Egitto i veri alleati, coloro che tengono veramente al futuro del pianeta, stanno marcendo nelle carceri”. Quindi se già la situazione nelle precedenti Cop era critica, questa è aggravata dalla mancanza di una reale opposizione di piazza e non solo. Con questa Cop ci si deve render conto che è impossibile sostenere la giustizia e la lotta climatica senza la libertà politica. Non potremo ottenere alcun cambiamento, non potremmo lottare contro la crisi climatica se le autorià non consentono di scendere in piazza, di protestare, di fare pressione affinchè i leader politici dicano la verità. Riprendendo ancora una volta l’articolo di Noami Klein, “se le manifestazioni sono vietate e fatti scomodi sono definiti false notizie, come succede nell’Egitto di Al Sisi, allora il gioco è finito”.  Altro argomento scomodo: “L’impatto ambientale del vasto e opaco business del complesso militare egiziano è un argomento particolarmente delicato, così come le infrastrutture ‘nazionali’, per esempio la nuova capitale amministrativa”. Sarebbe “meglio” non parlare dell’inquinamento della plastica causato dalla Coca-Cola e il suo eccessivo uso di acqua, poichè la Coca-Cola è uno degli orgogliosi e principali sponsor del summit. Tuttavia, se analizziamo i retroscena internazionali non c’è da stupirsi per quello che stiamo vedendo con la cop27. Basti pensare che la nuova ministra degli esteri tedesca, Baerbock leader dei Verdi, ha promesso un politica estera basata sulla tutela dei diritti umani e sulla tutela ambientale, nonostante la Germania sia uno dei principali donatori e patner commerciali dell’Egitto e invece di far pressione al governo di Al-Sisi gli offre delle opportunità propagandistiche: presentare insieme l’incontro, tenutosi a Berlino, Petersberg climate dialogue. Tale scenario è favorito dalle difficoltà causate dalla dipendenza tedesca dal gas russo, infatti questa crisi ha offerto all’Egitto la possibilità perfetta di proporsi come fornitore di gas e idrogeno. Inoltre, stando all’articolo di Klein, il gruppo tedesco Siemens Mobility ha annunciato un accordo per diversi miliardi di dollari per costruire treni ad alta velocità in tutto l’Egitto”.

Si tratta di un’ennesima COP di contraddizioni in cui coloro che hanno più influenza sono i lobbisti delle compagnie fossili, responsabili delle maggiori emissioni di gas serra, non i rappresentanti dei Paesi più vulnerabili alla crisi climatica, ovvero i meno responsabili. Quindi il messaggio principale di questa Cop è che non c’è giustizia climatica senza giustizia sociale. Questo è stato uno degli slogan più di tendenza sul panorama dei movimenti ambientalisti ed ecologisti in questi ultimi mesi. Uno slogan che cade a pennello per quest’ennesima COP che, come tutte le altre, parte con cattivi presagi. Dal momento che la Conferenza delle parti ha luogo in Egitto, due domande sul fatto che forse giustizia ambientale e sociale non vanno di pari passo, sorgono spontanee. Se da una parte i movimenti ecologisti si sono accorti, attraverso i  campeggi nati post-pandemia, che un discorso “sostenibile ecologicamente” non può essere slegato da un discorso “sostenibile socialmente”, dall’altro i leader del Pianeta eleggono come sede dei trattati climatici un Paese a dir poco controverso, sia dal punto di vista dei diritti umani sia dal punto di vista dei continui investimenti nel fossile che porta avanti. 
D’altronde non stupisce neanche più di tanto l’emergere di così tante incoerenze in ambito di una COP. Possiamo forse addirittura affermare  che le contraddizioni sono proprio una delle caratteristiche principali di questi appuntamenti annuali, la COP27 non è sicuramente la prima. Dopo 30 anni, infatti, gli accordi stipulati sono aria fritta e lo abbiamo visto più volte: ondate di calore e conseguenti decessi in tutta Italia, alluvioni in Pakistan, siccità e conseguenti migrazioni dell’Africa subsahariana. 

Sono molteplici i motivi per cui queste conferenze non hanno successo: gli accordi non sono vincolanti, le conseguenze del cambiamento climatico sono diverse a seconda dei paesi e le emissioni vengono prodotte dai paesi più arretrati tecnologicamente che non possono permettersi moderni efficientamenti energetici. Tuttavia c’è una motivazione alla base che fa sì che a priori questo meccanismo sia fallimentare. Le COP hanno cercato di prevenire, poi mitigare e poi adattare i danni provocati dai cambiamenti climatici mettendo sempre al primo posto l’inesorabile crescita economica. Potremmo dire che le COP nascono proprio per questo motivo: per coniugare il cambiamento climatico e la distruzione degli ecosistemi a un’economia capitalista in espansione continua. Il problema è alla base ed è un problema di produzione non di regolazione.  Per questo le COP erano, sono e rimarranno fallimentari. Il sistema di produzione in cui siamo immersi oggi, basato su una crescita infinita, è un sistema  incompatibile con una riduzione a lungo termine delle emissioni di gas climalteranti e quindi con la riduzione del consumo di energia. Tutte le tecnologie ad alta efficienza energetica del mondo, non possono, da sole, far quadrare il cerchio riducendo le emissioni totali di questo sistema. Ad ogni modo, la risposta che hanno dato i leader dei vari paesi è sempre stata una risposta tecnica e di mercato: mercati del carbonio e sempre più elaborati apparecchi tecnico-ingegneristici come le geoingegnerie che sembrano segnare l’unico percorso da intraprendere per evitare il collasso planetario.

Negli anni, COP dopo COP, ha sempre preso più piede una diffusa mercificazione della natura in tutti i suoi dettagli: siamo riusciti a creare un mercato perfino su delle molecole atmosferiche. Tra le strategie adottate: le Nature Based Solution che prevedono delle compensazioni di carbonio attraverso conservazione di foreste; i meccanismi di Carbon Capture and Storage che prevedono lo stoccaggio di molecole di carbonio sotto terra; la costruzione di megaimpianti eolici e fotovoltaici da imbastire in quelle che saranno definite come zone di sacrificio o batterie d’Europa. Quest’ultime sono zone considerate desertiche e disabitate dal momento che sono soggette a espropriazioni di massa; un esempio di ciò sono proprio i mega parchi eolici che Enel vorrebbe costruire nei territori appartenenti alla comunità Sahrawi e che vengono presentati alla COP27 come la nuova frontiera dell’economia verde, ma che a noi appare molto come colonialismo verde o meglio forse colonialismo rosso sangue. Inoltre queste sono le stesse zone che servono all’Unione Europea per poter raggiungere il carbon net zero nel 2050: non importa se si collocano dall’altra parte del Mediterraneo, non importa chi le abita. Le poche aspettative della COP27 sono motivate anche dalle continue ammonizioni dell’IPCC riguardo al superamento di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, di fronte a una minaccia energetica come lo è stata quella della guerra. Nessun governo Occidentale si è fermato dal stipulare una serie di accordi che li legano a paesi antidemocratici e a una delle risorse più inquinanti: il gas metano. Ma se le richieste in questi anni durante le COP erano proprio quelle di indurre una riduzione delle emissioni anche in quei paesi non-occidentali come Cina e India, considerati attualmente, ma non storicamente, i maggiori emettitori attualmente, come si potranno avanzare simili richieste se l’Europa in primis decide di riaprire le porte del famigerato carbone alla luce di una fantomatica sicurezza energetica? D’altronde il termine sicurezza energetica a noi, in Italia, risulta ancora più familiare dal momento che il Governo Meloni ne ha istituito un Ministero. Sebbene infatti la premier abbia smantellato il Ministero della transizione ecologica, non si pone alcun problema nel dipingere il Paese come paladino della transizione (addirittura) giusta, come l’ha definita lei. Ma l’avevamo accennato: il palcoscenico della COP è il teatro delle contraddizioni. Per rincarare la dose, il settore energetico egiziano, è legato a doppia catena con il nostro Paese e qui scendono in campo due dei nostri attori preferiti: ENI e Intesa SanPaolo, che sbucano all’orizzonte ogni qual volta si parli di profitti e di combustibili fossili. Coadiuvati dalla continua necessità di aumentare le entrate di gas metano, sempre in nome della cosiddetta sicurezza energetica del Paese, ENI e Intesa hanno stipulato nuovi accordi che si sono sommati a quelli già indissolubili che intercorrono tra il Regime e i due colossi italiani. 

Per quanto riguarda ENI bisogna sapere che la sua produzione annuale si aggira, stando a un report di ReCommon, attorno ai 15 miliardi di metri cubi di gas, il che significa il 30% della produzione globale di ENI e il 60% di quella egiziana. Utilizzare e sfruttare tali depositi ha permesso all’azienda italiana di guadagnare, negli ultimi cinque anni, oltre 5.2 miliardi di euro di utili. Tutto è iniziato nel 2015 quando al governo italiano c’era Renzi e con la scoperta del giacimento Zohr, la più grande riserva di gas del Mediterraneo. Con oltre 850 miliardi di metri cubi di gas in una colonna di idrocarburi situata a quattro chilometri di profondità, quella di Zohr può esser considerata una della “maggiori scoperte mai realizzate a livello mondiale”. L’amministratore delegato di ENI, Descalzi, afferma che “questa scoperta assume un valore ancora maggiore perché fatta in Egitto, paese strategico per la nostra società”. Nel febbraio del 2016 l’uccisione di Giulio Regeni sembrano mettere in stand by le relazioni tra Italia ed Egitto al punto che Descalzi dichiara con fermezza in un’intervista che “abbiamo detto chiaramente che noi siamo per i diritti umani, per questo pretendiamo chiarezza assoluta. La vogliamo come italiani e come Eni”. Ma tale dichiarazione sembra essere solo di facciata e gli affari miliardari tra il regime egiziano ed ENI continuano indisturbati: il 21 febbraio ENI incassa l’assegnazione del Zohr Development Lease che sancisce l’inizio delle attività di sviluppo del giacimento. Stando al report di ReCommon, nel corso del 2016 gli investimenti dell’azienda in Egitto saliranno fino a 2,2 miliardi di euro. L’azienda italiana continua a fare affari e a trarre enorme profitto da un regime autoritario che tortura, incarcerca, uccide attivisti egiziani e non. Per l’ENI sono molto più importanti i profitti che i diritti umani infati il caso Regeni passa velocemente in secondo piano. Anno dopo anno ENI ha incassato sempre di più, fino ad arrivare al 2021 con oltre  11 miliardi di euro d’investimenti complessivi. Vi sono altri 2,4 miliardi, che finiscono nelle casse del regime sotto forma di imposte, royalties, e bonus. Al-Sisi è più che felice del denaro che riempe i suoi portafogli, motivo per cui inizia a realizzare diversi progetti faraonici di miliardi di dollari e triplica la spesa militare del paese: l’Egitto, grazie anche al denaro che proviene dall’ENI, diventa il terzo maggiore importatore di armi al mondo “molte delle quali provengono da imprese italiane”. Grazie ad aziende come ENI, l’Egitto appare sempre più vicino a coronare il sogno del suo dittatore di trasformare il Paese in un hub regile del gas cosa cheg gli consente di blindare il proprio potere e prevenire qualsiasi tipo di tentativo da parte dei governi occidentali di interferire con la sua agenda, sopratutto per quanto riguarda i diritti umani.Non contenti dei loro affari con uno dei regimi più autoritari del mondo, a maggio 2022 ENI ha avviato un progetto di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica in Egitto all’interno di depositi esausti del Mediterraneo. Secondo ReCommon, si tratta di un chiaro tentativo di greenwashing.Ma passiamo ora ad un altro colosso che altro non fa che stipulare contratti ambigui e  all’insegna del greenwashing: Intesa SanPaolo. Quando si parla di Egitto e Intesa SanPaolo, non si pul non parlare della Bank of Alexandria. Si tratta di una banca fondata dal governo egiziano nel 1957 il cui obiettivo era quello di finanziare un sistema a servizio dell’industria nazionale. Ad oggi Bank of Alexandria è la quinta banca del paese con 1.5milioni di clienti e oltre 170 filiali.Ma qual è il collegamento tra la Bank of Alexandria e l’Intesa San Paolo? Nel 2006, si vuole attuare un piano di transizione al libero mercato ma tale transizione non è accolta positivamente ne dagli oppositori di Mubarak tantomeno dalla società civile. Riportando il report di ReCommon, il governo viene dunque accusato di coinvolgimento in “affari corrotti relativi alla vendita del settore pubblico a noti uomini d’affari, vendita di società a un prezzo inferiore rispetto a quello reale, mancata tutela dei diritti dei lavoratori e apertura senza limiti a imprese straniere.” È in questo scenario che entra in campo l’Intesa SanPaolo: Mubarak vende per 1.6miliardi di dollari l’80% della azioni di Alex Bank alla banca torinese. A tale vendita ovviamente si oppongono i dissidenti di Mubarak che lo accusano di aver vendono la banca a un valore di mercato molto infieriore rispetto a quello reale. Subito dopo esser stata acquistata, mentre la banca egiziana e il suo management si focalizzano sull’enerigia e le infrastrutture, Intesa Sanpaolo comincia a “intessere il proprio legame con il governo egiziano partecipando a prestiti sindacati e organizzando incontri con le autorità egiziane in qualità di mediatore tra il governo e gli investitori egiziani e italiani”. Proprio a tal proposito, nel luglio del 2007, il presidente di Alex Bank dichiara che Intesa SanPaolo vuole rendere la banca egiziana “un canale per gli investimenti italiani in settori strategici per l’Egitto”.Nel 2014 viene organizzato il Business Council italo–egiziano, alla presenza di Al-Sisi, diverse aziende italiane e Alex Bank, in rappresentanza di Intesa SanPaolo. Durante questo incontro, l’allora viceministro dello Sviluppo economico, Calenda, e il ministro egiziano degli Investimenti, Salman, firmano accordi volti a “finanziare investimenti strategici delle imprese italiane in Egitto tra cui il collegamento ferroviario ad alta velocità Alexandria-Ciro-Aswan-Luxor, l’estrazione di metalli preziosi nel  Triangolo d’Oro d’Egitto e il raddoppio del canale di Suez.I rapporti tra Intesa SanPaolo e Alex Bank sono stati molto importanti anche per quanto riguarda l’industria egiziana dei combustibili fossili. Infatti, stando al report di ReCommon, “fra il 2018 e il 2019, Intesa ha concesso 140 milioni di dollari alla Egyptian General Petroleum Company, coinvolta in grandi progetti tra cui l’onnipresente mega-giacimento di Zohr”. Gli investimenti e i collegamenti tra la banca torinese e il gas egiziano non sembrano arrestarsi perchè sono tropop strategici sia per le banche sia per il governo egiziano e quello italiano.

Ritornando alla COP, possiamo dire che ogni paese guadagna dalla COP una facciata di sostenibilità e oggi anche l’Egitto si è potuto dipingere di verde: così i bus elettrici nascondono le espansioni dei bacini di gas metano che il regime continua ad implementare

 

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pubblicato il in Crisi Climaticadi redazioneTag correlati:

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