Gerusalemme: Intifadah e cinismo in una città surreale
Da Gerusalemme sentiamo Davide, compagno torinese e uno dei corrispondenti di Radio Onda d’Urto e InfoAut.org.
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Nella serata di mercoledì di fronte alla porta di Damasco regnava una calma spettrale, con cellulari e blindati della polizia immobili a sirene illuminate, mentre nei negozi palestinesi si respirava una tensione palpabile, con rari gruppetti di israeliani che ancora a tarda sera si inoltravano in vicoli ostili con scorte circospette. Per Michele Giorgio, corrispondente italiano da anni in città, l’attacco di ieri potrebbe rappresentare una svolta: “I tre palestinesi arrivavano da Jenin. La polizia dice che sono riusciti a passare i check point con le pistole, ma non sembra credibile; se non fosse vero, significherebbe che qualcuno ha fornito loro le armi a Gerusalemme. Questo lascerebbe pensare, per la prima volta, a un’azione pianificata da qualche organizzazione”.
La caratteristica della rivolta iniziata a ottobre era stata, al contrario, l’esclusione delle organizzazioni tradizionali palestinesi dall’organizzazione degli attacchi. Naturalmente si tratta solo di ipotesi, al vaglio anche della sicurezza israeliana. “Sono individui giovanissimi, molto coraggiosi, e soprattutto ragazze” commenta Michael Warshawski, storico attivista dell’Alternative Information Center, una realtà creata decenni fa da protagonisti della sinistra radicale israeliana e di quella palestinese. “I miei studenti palestinesi ammirano molto questi ragazzi e il loro coraggio. Mi dicono: vorrei essere come loro, invece sono un vigliacco”. L’attuale sequela di attacchi sembra una reazione ad anni di negoziati senza sbocco, durante i quali le condizioni di vita delle nuove generazioni non sono che peggiorate.
“Può sembrare psicologia da quattro soldi, ma è vero che questa è anche una rivolta contro i padri” continua. “Questi giovanissimi stanno chiedendo ai propri genitori: che cosa avete fatto per noi? La loro rabbia è talmente profonda che talvolta arrivano a disprezzare una generazione che, è vero, ha accettato il processo di Oslo, ma che a suo tempo ha lottato in modo eroico sacrificando la propria vita o la propria libertà. Il solco tra le due generazioni, però, è talmente profondo che neanche questo sembra essere fino in fondo riconosciuto dai nuovi rivoltosi”.
I soldati con il mitra spianato, nella città vecchia, si divertono a fissare una passante palestinese; la ragazza regge il loro sguardo esibendo disprezzo, poi si infila in una delle tante stradine in cui di tanto in tanto, tra negozi di vestiti e kebab, spiccano le bandiere israeliane issate dai coloni. “Bisogna capire la mentalità degli ebrei ultra-ortodossi per comprendere tutto questo: per loro esiste un disegno divino che affida loro il compito di riportare questa terra al popolo ebraico, e l’unico elemento non ebraico che potrà restare sarà quello sottomesso” ci spiega Michele Giorgio. In realtà, aggiunge Warshawski, anche la gioventù israeliana è cambiata. “La maggior parte dei giovani israeliani odia queste cose, non gliene frega niente dei palestinesi. Pensano a fare i soldi per andare in Toscana ogni due mesi, e detestano il fanatismo religioso dei coloni. La destra che emerge in questi anni in Israele è più che altro dovuta a un materialistico senso d’impunità, e alla perdita di ogni rispetto, che pur una volta esisteva nella raffigurazione del nemico, per le rivendicazioni palestinesi”.
Vent’anni di falsi negoziati hanno condotto qui, alla crisi delle vecchie ideologie e delle vecchie organizzazioni, lasciando spazio a uno scenario dove l’odio si esprime là dove può, all’improvviso. Gerusalemme, nel frattempo, mantiene il clima di palpabile cinismo per cui è divenuta tristemente celebre: i palestinesi vivono la loro vita accanto agli israeliani strada per strada, fino a quando non scoppiano le sparatorie e non viene sferrato il fendente con un coltello. C’è anche spazio per i turisti, anche se, dicono qui, sono sempre di meno. Un ragazzo cinese parla dell’attacco di ieri e dice: “Gli arabi sono poveri, gli ebrei sono ricchi. Anche noi cinesi eravamo poveri, quindi comprendiamo certe cose; ma per noi è strano, in Cina non c’è nulla del genere. È vero, occupiamo il Tibet, ma dovrebbero ringraziarci, perché costruiamo loro strade, scuole…”.
Anche Arina, immigrata a Gerusalemme di recente dalla Russia, ragiona così: sebbene sia indecisa se restare a Gerusalemme, è convinta che, prima che arrivasse la colonizzazione israeliana, la Palestina fosse soltanto deserto. “Gli arabi hanno ben ragione ad essere scontenti”, ma d’altro lato, afferma senza remore, “sono sporchi e puzzano”. Lo stesso, aggiunge, dice dei curdi il suo fidanzato, a Istanbul. Per Mara, ex studentessa italiana dell’Università Ebraica “è bello come gli israeliani sanno rispondere all’inevitabile paura con la gioia”. All’inizio della sua esperienza in città frequentava principalmente palestinesi, poi si è stufata: “Parlavano sempre e soltanto dell’occupazione”. Ha appena sostenuto una tesi in Svezia su “l’occupazione israeliana dello spazio attraverso la socialità e l’allegria”. È andata male: “La relatrice della commissione ha sostenuto che Israele non ha alcuna legittimità ad esistere e andrebbe boicottato, e ha duramente attaccato il mio lavoro”.
Ha avviato un procedimento di ricorso all’Università, affinché la sua tesi possa essere esaminata da un’altra commissione. “Spero sarà accolto” dice con un po’ di tristezza, prima di salire sul pulmino che parte dall’aeroporto di Tel Aviv per fare tutte le fermate di Gerusalemme – tranne la città vecchia.
dai corrispondenti di Infoaut e Radio Onda d’Urto – Gerusalemme, 4 Febbraio 2016
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