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Il falso mito del “modello tedesco”: sfruttamento, bassi salari e futuro incerto

Philippe Legrain, Prospect, Regno Unito

Investimenti scarsi, infrastrutture fatiscenti, un sistema scolastico in declino. L’economia tedesca, che per anni è stata presa a modello in tutta Europa, è più fragile di quanto sembri. E troppo dipendente da esportazioni e bassi salari

Nel 1999, quando l’euro fu introdotto nei mercati finanziari, la Germania era “il malato d’Europa”. L’economia ristagnava sotto il peso delle tasse e dell’eccessiva regolamentazione, mentre quattro milioni di tedeschi erano senza lavoro. Nei primi anni del nuovo mil- lennio il paese arrancava, superato dal di namismo e dalla crescita del Regno Unito e dell’Europa meridionale. Le cose sono cambiate dopo la crisi finanziaria del 2008. Mentre quasi tutto l’occidente era stato messo in ginocchio da roboanti ma fragili operazioni finanziarie, i tedeschi, famosi per la loro solida e stabile ingegneria industriale, sembravano improvvisamente al sicuro. Mentre gli altri paesi avevano costruito castelli di carta e debiti, la Germania aveva oculatamente risparmiato. Mentre il resto d’Europa sembrava impreparato alla nuova sfida con la Cina, le esportazioni tedesche nel paese asiatico prosperavano. Mentre la disoccupazione raggiungeva tassi record in tutto il vecchio continente, in Germania diminuiva, fino a scendere sotto i livelli precedenti alla crisi. In una fase di esplosione della spesa pubblica, il governo tedesco è riuscito perfino a raggiungere il pareggio di bilancio.

Nel 2010, quando nell’eurozona si è diffuso il panico, la Germania era considerata il porto più sicuro: gli investitori erano disposti addirittura a pagare il governo affinché accettasse i loro fondi.

Forte del suo status di economia più grande e popolosa d’Europa, oltre che di maggiore esportatrice e creditrice del continente, oggi la Germania sembra avere solo buone carte in mano. Molti la temono, qualcuno la detesta, ma pochi mettono in dubbio il suo primato.

Leader politici e analisti di ogni orientamento e colore, da Bill Clinton a Nicolas Sarkozy, si sono messi in fila per tessere le lodi di Berlino. Nel Regno Unito, dove fino a poco tempo fa l’ammirazione per il modello renano era confinata a pochi pensatori di centrosinistra con scarsa influenza sul vecchio governo laburista (come l’ex diret- tore dell’Observer Will Hutton), oggi perfino i conservatori più liberisti considerano la Germania una fonte d’ispirazione. Secondo il primo ministro David Cameron, a Londra serve “un approccio germanico alle competenze”. Il ministro delle finanze George Osborne ha ricoperto di elogi la Germania in un recente articolo sul Financial Times, scritto a quattro mani con il suo collega tedesco Wolfgang Schäuble. E la strategia economica del leader laburista Ed Miliband sembra consistere soprattutto nell’imitazione del sistema tedesco.

Dopo la crisi

Evidentemente inebriato da tutte queste lusinghe, un politico tedesco di lungo corso ha detto scherzando che “oggi improvvisamente l’Europa parla tedesco”. E nel 2013, dopo essere stata rieletta alla guida del paese, la cancelliera Angela Merkel ha dichiarato: “Quello che abbiamo fatto noi possono farlo tutti”. Secondo i sostenitori del modello tedesco il futuro sarà ancora più radioso. Nel loro bestseller del 2012 Fette Jahre. Warum Deutschland eine glänzende Zukunft hat (Gli anni grassi: perché la Germania ha un futuro brillante), Bert Rürup, ex presidente del Consiglio degli esperti economici della Germania, e Dirk Heilmann, giornalista del quotidiano economico Handelsblatt, prevedono che nel 2030 la Germania diventerà il paese di grandi dimensioni più ricco del mondo per reddito pro capite.

Ma questa visione della Germania come prima della classe nell’economia mondiale è infondata. L’economia tedesca non va particolarmente bene, e tanto meno può essere un modello per gli altri. Le banche non scoppiano di salute, la crescita della produttività è modesta e gli investimenti sono inadeguati. Tenendo conto dell’inflazione, l’anno scorso i tedeschi hanno guadagnato meno che nel 1999. In pratica il paese ristagna da 14 anni. In termini di pil pro capite corretto per il potere d’acquisto, la Germania è un po’ più ricca del Regno Unito, ma meno di altre dodici economie avanzate, tra cui Australia, Austria, Canada, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera e Stati Uniti.

Dopo la crisi l’andamento dell’economia tedesca è stato meno disastroso di altri (all’inizio del 2014 l’economia francese era leggermente al di sopra dei livelli del 2008 e quella britannica leggermente al di sotto, mentre l’Europa meridionale è sprofondata), ma non si può certo definire travolgente. Rispetto a sei anni fa la Germania è cresciuta solo del 3,6 per cento, mentre la Svizzera e la Svezia sono cresciute entrambe più del 7 per cento. Perfino gli Stati Uniti, che sono stati l’epicentro della crisi finanziaria, hanno avuto una crescita più o meno della stessa percentuale.

Se si osserva la situazione più da lontano, la prospettiva cambia. Dal duemila la Germania ha inseguito la crescita, più che guidarla, e fino al 2013 il pil tedesco è aumentato del 15 per cento, appena l’1,1 per cento all’anno: nella stessa misura della Francia, ma molto meno degli spericolati Regno Unito (21 per cento) e Stati Uniti ( 25 per cento), e perfino dei pigri paesi latini ( 19 per cento in Spagna) e degli irresponsabili irlandesi (30 per cento). Tra i 18 paesi dell’eurozona la Germania è al tredicesimo posto in termini di crescita.

Una crescita economica sostenuta nasce da una combinazione di investimenti produttivi e aumento della produttività, e sotto entrambi gli aspetti la Germania lascia a desiderare. Dal 2000 al 2013 gli investimenti sono calati dal 22,3 al 17 per cento del pil. Nel Regno Unito sono stati ancora più bassi, ma la Germania è dietro paesi come la Francia, la Spagna e anche l’Italia. Particolarmente modesti sono stati gli investimenti pubblici: appena l’1,6 per cento del pil nel 2013, meno di Italia e Regno Uni- to (2 per cento) e molto meno di Francia e Svezia (3,3 per cento). Dopo anni di abbandono, le infrastrutture tedesche si stanno deteriorando. Come osserva Sebastian Dullien, del centro studi European council on foreign relations, “i ponti autostradali sono così malridotti che i camion che trasportano carichi pesanti spesso devono deviare per strade secondarie, mentre la rete dei trasporti su acqua è ancora quella di un secolo fa”. Nel marzo del 2013 il canale di Kiel, un’arteria fondamentale per il commercio, è stato dichiarato temporaneamente inagibile perché due chiuse erano in pessime condizioni. Nonostante questo, nell’ultima finanziaria la cancelliera Merkel ha tagliato ulteriormente gli investimenti pubblici.

Cosa ancora più grave, la Germania è rimasta indietro nella formazione professionale. Il paese spende appena il 5,7 per cento del pil in istruzione e formazione, meno della Francia e di molti altri paesi, compreso il Regno Unito, dove la spesa è del 7,6 per cento. Se all’estero i suoi contratti di apprendistato sono molto ammirati, i giovani tedeschi sono decisamente meno entusiasti: il numero dei nuovi apprendisti è sceso ai livelli minimi dalla riunificazione del 1990 e molti posti disponibili restano vuoti. Per giunta, neanche un quarto della forza lavoro tedesca ha un ti- tolo di studio universitario: la situazione è peggiore che in diversi paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Regno Unito. Tra i giovani ci sono meno laureati in Germania (29 per cento) che in Grecia (34 per cento). “Il paese non è stato in grado di investire nel suo sistema universitario pubblico”, osserva Adam Posen, presidente del Peterson institute for international economics, un centro studi statunitense. Il primo ateneo tedesco nella graduatoria di Times Higher Education è l’Università Ludwig Maximilian di Monaco, al 46° posto. Anche le startup sono bloccate. In Germania avviare un’impresa è più difficile che in Russia o in Senegal, secondo la classifica Doing business della Banca mondiale. Tutte le principali aziende tedesche sono vecchie e tradizionali: non esiste una Google tedesca. Non è un caso che cinquantamila imprenditori tedeschi siano emigrati nella Silicon valley.

Investimenti fiacchi, infrastrutture cadenti, un sistema scolastico in declino, mancanza di spirito imprenditoriale: sono tutti indicatori preoccupanti. Ma la prova decisiva della stagnazione tedesca è lo scarso aumento della produttività: appena lo 0,9 per cento all’anno negli ultimi dieci anni, meno del Portogallo. Per essere un modello di riferimento, la Germania ha bisogno di tassi di produttività molto più alti.

Quel poco di crescita che la Germania è riuscita a portare a casa è dovuto principalmente alle esportazioni manifatturiere, un settore in cui il paese eccelle: è secondo solo alla Cina. Dal 2000 le esportazioni sono raddoppiate, un risultato che nessun’altra economia europea è riuscita a ottenere. E mentre negli ultimi quindici anni l’attività manifatturiera si è ridotta in quasi tutti i paesi sviluppati, in Germania è cresciuta.

Ma il boom delle esportazioni tedesche è meno impressionante di quanto sembri, e una dipendenza così forte dalla manifattura nei prossimi anni potrebbe rivelarsi uno svantaggio. L’andamento delle esportazioni non tiene conto dell’esternalizzazione della produzione in Europa centrale e orientale: le automobili made in Germany contengono oggi molti componenti prodotti in Slovacchia, in Ungheria e altrove. Quando però un’auto viene esportata, il valore totale viene ascritto alla Germania. Il paese è stato anche fortunato. Le sue esportazioni tradizionali – beni capitali, prodotti dell’ingegneria e chimici – sono esattamente quelle di cui aveva bisogno la Cina per la sua verti- ginosa espansione industriale.

Anche l’euro ha costituito un vantaggio enorme. Con un valore molto più basso rispetto a quello che presumibilmente avrebbe il marco, la moneta unica ha stimolato le vendite all’estero, impedendo alla concorrenza di paesi come l’Italia di fare svalutazioni competitive per mettere fuori mercato le imprese tedesche. Fino allo scoppio della crisi l’euro ha anche aperto alla Germania le porte di un mercato in fortissima espansione nel sud dell’Europa, prima che questo venisse colpito dalla recessione. Ora che anche l’economia cinese sta rallentando e si è sganciata dalla crescita alimentata dagli investimenti, la macchina delle esportazioni si è fermata. Dall’inizio della crisi la quota tedesca sulle esportazioni mondiali è scesa dal 9,07 del 2007 all’8,01 per cento del 2013, cioè la percentuale che aveva all’inizio degli anni duemila.

Inoltre, il boom delle esportazioni tedesche è avvenuto a spese dei lavoratori. Il ribasso dei salari (cominciato nel 1999 con l’accordo tra governo, imprese e sindacati più che con le riforme del lavoro del 2003- 2005 volute dall’allora cancelliere Gerhard Schröder) e l’assenza di un salario minimo fissato per legge hanno fatto sì che alcuni lavoratori oggi guadagnino la miseria di 4 euro all’ora. Secondo l’Istituto tedesco di ricerca sull’occupazione, circa un quarto della forza lavoro tedesca è pagato meno dei due terzi del salario mediano: si tratta della seconda quota più alta tra i 17 paesi europei per cui sono disponibili dati corri- spondenti.

Valore aggiunto

Il problema non è solo che alcuni lavoratori sono sottopagati, ma che il lavoratore tedesco medio non viene premiato per gli aumenti di produttività: oggi produce il 17,8 per cento in più all’ora rispetto al 1999, ma in proporzione guadagna meno. Alcuni partiti (in particolare i verdi e la sinistra della Linke) denunciano la stagnazione dei salari, ma per molti esponenti del mondo politico ed economico tedesco è un dato positivo, perché il contenimento del costo del lavoro aumenta la competitività delle esportazioni tedesche. Se limitare i salari ha senso dal punto di vista del singolo imprenditore, per l’economia nel suo complesso i salari non sono costi da minimizzare, ma un vantaggio da massimizzare, a patto che siano commisurati alla produttività. Quindi, se i salari bassi sono una necessità quando la produttività è bassa, tenerli al di sotto del livello della produttività è dannoso. Se le retribu- zioni vengono mantenute basse artificialmente, i lavoratori hanno meno incentivi a migliorare le loro competenze e le imprese a investire e a puntare su una clientela più ricca. E se la Germania non interverrà, le produzioni che hanno un tasso di competenze, un costo del lavoro e un valore aggiunto più elevati si sposteranno altrove. “La compressione dei salari non è una strategia di crescita vincente per il futuro della Germania o dell’Europa”, afferma Posen.

Ci sono però dei cambiamenti in vista. Dopo che alle elezioni del 2013 il Partito liberale democratico (ex alleato della cancelliera Merkel) è rimasto escluso dal parlamento, i cristianodemocratici della Cdu (e i loro alleati cristianosociali) hanno formato una grande coalizione con i socialdemocratici dell’Spd. E l’Spd ha preteso l’introduzione di un salario minimo pari a 8,50 euro all’ora (misura che entrerà in vigore dal 2017). Nel 2011 quasi un lavoratore su quattro nell’ex Germania Est e uno su sette nell’ex Germania Ovest hanno guadagnato meno. A livello nazionale hanno preso meno del minimo salariale la metà dei dipendenti di alberghi e ristoranti e un quarto dei lavoratori del commercio al dettaglio. Il salario minimo darà un po’ di respiro ai lavoratori sottopagati, ma nulla lascia pensare che gli altri avranno quanto gli spetta, specialmente nel settore manifatturiero.

Per un paese come il Regno Unito, dove la manifattura vale il 10 per cento della produzione industriale, l’imponenza del settore manifatturiero può sembrare un punto di forza. Ma è davvero così? Tanto per cominciare non c’è nulla di speciale nel costruire cose. Costruire auto vale forse di più che migliorare la salute delle persone? Produrre lavatrici è più importante che programmare computer? La manifattura ha un peso ancora più rilevante in Repubblica Ceca, Irlanda e Ungheria: le economie di questi paesi sono forse considerate più forti di quella tedesca?

La cosa importante non è quello che i lavoratori fanno, ma se producono valore aggiunto o meno. E anche in Germania più del 60 per cento del valore aggiunto viene dai servizi. Purtroppo la produttività in questi settori (dai trasporti alle telecomunicazioni, passando per il commercio al dettaglio e la ristorazione) è spesso bassissima, anche a causa di forti vincoli burocratici. La regolamentazione delle professioni liberali in Germania è la sesta più severa tra quelle dei 27 paesi su cui l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha realizzato uno studio. Per i professionisti, che costituiscono un decimo dell’economia tedesca, ci sono regole che stabiliscono chi può offrire un certo tipo di servizio, le tariffe che si possono praticare e i limiti entro i quali si può fare pubblicità. Per fare un esempio, solo chi ha studiato farmacia può aprire una farmacia, e comunque non può mai aprirne più di quattro. E gli altri esercizi commerciali non possono fare concorrenza alle farmacie, neanche sui farmaci senza ricetta. In molte professioni ci sono restrizioni agli investimenti da parte di soggetti esterni.

La debolezza del terziario in Germania è particolarmente allarmante perché l’industria difficilmente riuscirà a sfidare le leggi della storia ancora per molto. Com’è successo in passato per l’agricoltura, con il tempo il peso della manifattura sull’economia tende a diminuire: è così perfino in Cina, l’officina del mondo. I progressi tecnologici permettono di produrre beni di maggiore qualità a un costo più basso, e il miglioramento delle condizioni economiche spinge i consumatori a spendere una percentuale più alta del proprio reddito in servizi (vacanze, sanità, aiuto domestico) anziché in beni materiali. Ecco perché l’eccessiva dipendenza della Germania dall’industria manifatturiera a conti fatti è un elemento di fragilità.

Crediti e surplus

Se l’economia non si adeguerà, risentirà inevitabilmente di un calo della domanda di beni, soprattutto quando la Cina scalerà posizioni nella catena del valore e le aziende cinesi cominceranno a competere dire tamente con i tedeschi nel settore dei beni di alta qualità. Nei campi in cui hanno dovuto confrontarsi con la concorrenza cinese (soprattutto quello della produzione dei pannelli solari), le imprese tedesche hanno avuto difficoltà e hanno invocato misure protezionistiche da parte dell’Unione europea. La Germania, inoltre, è in una posizione particolarmente precaria perché affida a soli quattro settori – auto, macchinari, apparecchi elettronici e prodotti chimici – oltre la metà delle sue esportazioni.

Il costo dell’elettricità è più che raddoppiato dal 2000, e un aumento del genere rappresenta una minaccia immediata per i settori che hanno bisogno di molta energia come la chimica. Grazie alla rivoluzione del gas di scisto, le imprese degli Stati Uniti pagano l’elettricità quasi tre volte meno dei loro concorrenti tedeschi, secondo uno studio del colosso dell’ingegneria e dell’elettronica Siemens. In più il governo tedesco sta pensando di rinunciare all’energia nucleare e di sostituirla con energie rinnovabili più costose.

Per crescere e avere successo l’economia tedesca dovrà adattarsi. Purtroppo, spesso oggi è sclerotizzata. La forte regolamentazione dei mercati limita la concorrenza e favorisce le aziende consolidate rispetto ai nuovi operatori, e gli interessi dei produttori rispetto a quelli dei consumatori. La riforma del lavoro di Schröder ha contribuito a creare posti di lavoro non qualificati e a reinserire sul mercato i disoccupati di lungo corso, ma non ha reso più flessibile il mercato del lavoro tedesco. E la situazione non sta migliorando: secondo l’Ocse, dal 2007 la Germania ha introdotto meno riforme per favorire la crescita di qualsiasi altro paese avanzato. La conseguenza è che l’economia tedesca è diventata rigida e stagnante. È efficace nel tagliare i costi, ma non sa cambiare rotta.

La Germania dovrà inoltre affrontare gravi problemi demografici. Con un’età media di 46 anni, la popolazione tedesca è la più anziana dell’Unione. Se le tendenze attuali saranno confermate, nel 2040 il paese avrà meno abitanti sia del Regno Unito sia della Francia. E a meno di un miracolo produttivo o di un aumento dell’immigrazione, anche l’economia ne risentirà. Un’economia con una popolazione che invecchia, in cui i salari (e quindi la spesa) sono deboli, gli investimenti latitano e il governo non s’indebita genera inevitabilmente un enorme surplus di risparmio, cioè un surplus delle partite correnti. Questo è spesso visto come un indicatore della superiore “competitività” della Germania. Ma se quello tedesco è un modello così vincente perché le imprese straniere non vogliono investire in Germania?

Grazie ai suoi surplus la Germania è diventata il maggiore creditore netto d’Europa. Nel 2000 il suo patrimonio all’estero era a malapena in attivo. Alla fine del 2013 la posizione patrimoniale netta verso l’estero ammontava a ben 1.300 miliardi di euro, quasi come quella della Cina.

Nell’attuale crisi del debito, la condizione di creditrice netta dà alla Germania un forte peso negoziale. Ma i suoi prestiti all’estero sono stati spesso investiti male. Negli anni dell’espansione finanziaria le grandi banche private tedesche, come la Deutsche Bank e la Commerzbank, e gli istituti di credito pubblici dei land hanno riversato enormi somme su mutui subprime americani di dubbia provenienza, hanno alimentato bolle immobiliari in Spagna e Irlanda, finanziato il boom dei consumi in Portogallo e hanno concesso prestiti in maniera scriteriata al governo greco, che nel frattempo è diventato insolvente.

Contrariamente alla leggenda secondo cui i contribuenti tedeschi avrebbero sal- vato l’Europa meridionale, i loro prestiti ai governi dei paesi mediterranei hanno salvato soprattutto le banche tedesche e gli investitori che avevano indirizzato male i loro risparmi negli anni precedenti alla crisi.

Secondo uno studio dell’istituto tedesco per la ricerca economica (Diw), tra il 2006 e il 2012 la Germania ha perso 600 miliardi di euro, pari al 22 per cento del pil, in attività finanziarie all’estero. Vista la paura che la Germania ha di perdere soldi facendo credito agli stranieri, è assurdo continuare ad accumulare surplus destinati necessariamente a essere investiti all’estero. Quando si scoprirà che i debitori non potranno pagare o non pagheranno – eventualità resa più probabile dal rifiuto di Berlino di contribuire alla crescita europea – la sua colossale esposizione verso l’estero porterà a enormi perdite.

I tanto decantati surplus tedeschi delle partite correnti, quindi, sono il sintomo di un’economia malata, non di un’economia forte. La stagnazione dei salari gonfia i profitti delle imprese mentre una spesa asfittica, un settore terziario ingessato e le difficoltà delle startup deprimono gli investimenti, con il risultato che i risparmi vengono sperperati all’estero.

Un futuro radioso

Das Modell Deutschland, il modello tedesco, va quindi urgentemente rivisto. I lavoratori devono essere ricompensati per il loro lavoro con salari più alti. Per migliorare il tenore di vita a lungo termine, i vertici politici ed economici devono concentrarsi sull’aumento della produttività. Devono investire di più sulla crescita, intervenendo prima di tutto sulle infrastrutture fatiscenti e su un sistema scolastico in declino. Dovrebbero inoltre creare maggiori opportunità d’investimento per le aziende, favorendo la concorrenza nei mercati chiusi e rendendo la vita più semplice a chi vuole aprire un’impresa. E dovrebbero anche essere più accoglienti verso gli immigrati, che saranno fondamentali per arginare il declino demografico tedesco e porteranno nuove idee e un nuovo spirito d’impresa.

La Germania eccelle nell’adattare tecnologie già esistenti e nel ridurre i costi, ma deve diventare molto più dinamica e duttile per adeguarsi ai continui cambiamenti tecnologici. Senza queste riforme il futuro del paese non sembra particolarmente radioso. A conti fatti l’aquila tedesca non si è librata così in alto come ci hanno fatto credere. E alla fine dovrà pur scendere a terra.

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