La frontiera è macchiata di rosso
Condividiamo il racconto della carovana migrante partita ad ottobre dal Chiapas e arrivata pochi giorni fa a Città del Messico, che ci aggiorna sulla gestione dei governi messicano e statunitense dei processi migratori.
Dopo aver percorso più di mille km, la “carovana migrante” partita da Tapachula il 23 ottobre, in Chiapas, arriva finalmente a Città del Messico. È il 12 dicembre, giorno della Vergine di Guadalupe secondo la tradizione cattolica. L’intenzione delle persone migranti, in gran parte famiglie di origine centroamericana, è quindi quella di giungere fino alla Basilica di Guadalupe durante la notte stessa, in modo da ringraziare la Vergine per essere arrivate vive e in buone condizioni, nonostante le infinite avversità affrontate nel tragitto. Dopo cinquanta giorni di cammino sotto il sole cocente e la pioggia battente, sfidando posti di blocco e operazioni di contenimento da parte delle autorità federali, Istituto Nazionale di Migrazione (INM) e Guardia Nazionale (GN), le persone migranti vengono ricevute con manganellate e lacrimogeni dalla polizia di Città del Messico in assetto antisommossa.
Sono trascorsi solo tre giorni da quando un camion che trasportava 159 persone migranti stipate nel rimorchio, per lo più guatemalteche originarie del Dipartimento del Quiché, si é ribaltato in una curva sull’autostrada Chiapa de Corzo-Tuxtla Gutiérrez, in Chiapas: 55 persone sono morte e 104 sono sopravvissute, riportando lesioni multiple e gravi. Di fronte allo sgomento di una parte della comunità nazionale e all’attenzione dei media internazionali, il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador esprime il suo dolore per quanto accaduto e rivolge un fraterno abbraccio ai parenti di coloro che hanno perso la vita nell’incidente, assicurando: “questo è l’aspetto principale, è molto doloroso quando si verificano questi casi”. Ma “questi casi” sono accaduti e continueranno a verificarsi, replicano le organizzazioni della società civile impegnate nella difesa dei diritti umani, proprio a seguito della militarizzazione della politica migratoria messicana, che ha costretto le persone migranti a percorrere rotte sempre più pericolose e controllate da trafficanti di esseri umani che agiscono in collusione con le autorità corrotte.
Entrambi gli eventi derivano infatti da un graduale processo di esternalizzazione dei controlli di frontiera, dal sud statunitense al sud del Messico e ai paesi dell’America Centrale, sotto la pressione del governo degli Stati Uniti e con l’obiettivo principale di scoraggiare le domande di asilo nel paese di destinazione; similmente a quanto è accaduto in Europa, con il subappalto della gestione dei confini a diversi paesi dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Europa dell’Est, come Turchia, Libia, Niger e Bielorussia. Il governo repressivo delle migrazioni agiste contemporaneamente in diverse aree del mondo.
L’inizio di questo processo risale alle iniziative di sorveglianza della frontiera e di contenimento dell’immigrazione che gli Stati Uniti hanno messo in atto a partire dagli anni Ottanta e Novanta del Novecento. La nuova dottrina di Sicurezza Nazionale si é diffusa in Messico a partire dagli anni Duemila, attraverso una serie di misure legislative e programmi per l’implementazione di aiuti economici, assistenza tecnica in attività d’intelligence, presenza militare e di polizia: il Plan Sur (2001), la Legge sulla Sicurezza Nazionale (2005), l’accordo che ha riconosciuto l’Istituto Nazionale di Migrazione come istanza di Sicurezza Nazionale (2005), l’Iniziativa Merida (2008), il Programma Nazionale di Sicurezza Pubblica (2014-2018), il Programma Frontera Sur (2014). Inoltre, a partire dal 2019, il governo messicano si è impegnato nella riduzione dell’immigrazione irregolare disponendo 21 mila agenti della Guardia Nazionale a difesa delle frontiere nord e sud, con l’intenzione di scongiurare la minaccia del presidente Donald Trump d’imporre dazi doganali del 25% sulle importazioni messicane nel caso in cui non venisse contenuto l’ingresso irregolare di persone migranti. Questo lungo processo di chiusura e indurimento della politica migratoria messicana si é definitivamente consolidato grazie alle misure di controllo sanitario e le limitazioni imposte al traffico terrestre considerato non essenziale, attraverso la frontiera sud e nord, in linea con le misure internazionali per il contenimento della diffusione del Covid- 19.
L’imponente dispiegamento di militari della Guardia Nazionale, che intervengono in coordinamento con gli agenti di Migrazione, ha fatto sì che il Messico non costituisca più un paese di transito per le persone migranti, ma sia divenuto bensì un muro di contenzione, un paese di attesa forzata e di deportazione. La città di Tapachula, che costituisce la principale porta d’accesso da cui intraprendere la rotta costiera che dal confine con il Guatemala conduce al nord del Paese, attualmente assume le sembianze di una città carceraria. Conformemente si restringe la possibilità di procedere in grandi gruppi, così come di ricorrere a strumenti istituzionali di regolarizzazione, i flussi migratori si spostano dalla costa verso rotte più interne e pericolose.
La carovana partita il 23 ottobre da Tapachula è riuscita ad avanzare verso Città del Messico dopo una serie di tentativi di carovane precedenti, violentemente represse e dissolte nei limiti dello stato del Chiapas da parte di agenti dell’INM e GN. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, migliaia di persone haitiane hanno cercato di fuggire dalla paralisi di Tapachula, dove erano rimaste forzosamente bloccate per mesi. Qui hanno vissuto nell’interminabile attesa di ottenere un appuntamento presso la Commissione Messicana in Aiuto a Rifugiati (COMAR) o di ricevere un permesso di soggiorno per motivi umanitari dall’INM, in totale assenza di informazione. Hanno sofferto quotidinamente gli effetti di un razzismo sistemico, affrontato il rischio di cadere vittima delle frequenti retate degli agenti di Migrazione e quindi di essere deportati, hanno disperato per la difficoltà di trovare un lavoro formale e dover pagare affitti elevati seppur in condizioni di sovraffollamento.
Le operazioni messe in piedi per repimere e dissolvere queste carovane haitiane sono state di una durezza straordinaria, con cariche estremamente violente, rastrellamenti a tappeto tra piantagioni di banane e irruzioni senza mandato nelle case della popolazione locale, abbondante uso di strategia a tecnologia militare. Sono emerse numerose testimonianze a carico di agenti dell’INM che hanno strappato o sequestrato risoluzioni positive di rifugio e permessi umanitari vigenti, nella più totale e smascherata violazione del diritto nazionale oltreché internazionale. Contemporaneamente i media filo governativi hanno sostenuto la campagna presidenziale di criminalizzazione delle stesse persone migranti, delle organizzazioni coinvolte nel monitoraggio del rispetto dei diritti umani e dei giornalisti impegnati sul campo in reportage di denuncia. Questi ultimi infatti hanno potuto documentare l’uso di droni e accerchiamenti massivi di agenti dellla GN dotati di armi lunghe, minori separati con la forza dai genitori come strategia di dissuasione a procedere, deportazione e detenzione di persone rifugiate e dotate di regolare permesso di soggiorno, abbandono forzato delle persone migranti in aree remote e selvagge della frontiera sud o direttamente in Guatemala.
Attualmente Tapachula continua ad essere una prigione a cielo aperto, dove il fallimento umano di una politica di contenimento forzato è stato semplicemente occultato tramite lo spostamento della popolazione migrante dal centro storico verso la periferia della città. Ancora oggi circa 3 mila persone haitiane, tra cui molte famiglie con minori, si trovavano abbandonate tra cumuli d’immondizia sul piazzale dello Stadio Olimpico, senza informazioni né accesso ai servizi basici, come acqua potabile, cibo e cure mediche. Altre centinaia di persone dormono poco distante sul ciglio di una strada a lunga percorrenza, che occupano frequentemente come forma di protesta per l’interminabile attesa degli autobus gestiti dall’INM, che arrivano sporadicamente per trasferirle in diversi stati del paese. In alcuni casi autisti e popolazione locale tentano autonomamente di sgomberare la strada dai picchetti, ma i migranti hanno imparato a difendersi a tutti i costi. Inoltre non esiste comunicazione ufficiale della destinazione di questi viaggi e, solo grazie alle testimonianze dirette delle stesse persone migranti e di alcune organizzazioni della società civile, emerge un panorama di totale abbandono delle persone nelle strade di diverse città o presso installazioni periferiche, nella più completa incertezza e mancanza di attenzione da parte delle istituzioni responsabili, come nel caso del Centro sportivo Xonaca a Puebla.
La militarizzazione di Tapachula ha reso praticamente impossibile intraprendere la via costiera del Chiapas, cui si accede attraversando il fiume Suchiate. Per proseguire sul percorso che dal confine con il Guatemala porta al centro e al nord del Messico esistono altre due alternative principali, più interne e insicure, controllate da cartelli e gruppi criminali organizzati nel traffico di esseri umani in connivenza con funzionari corrotti. Il secondo cammino è quello della foresta, che dal passo di frontiera del Ceibo attraversa Tenosique e Palenque. Il terzo è il cosiddetto corridoio centrale, a cui è possibile acceder tramite vari passi che conducono alla zona montagnosa tra Comitán de Domínguez e San Cristóbal de las Casas. Dalle case di sicurezza dove vengono rinchiusi i migranti lungo queste rotte, il viaggio prosegue verso diversi punti del confine settentrionale.
È proprio lungo la rotta centrale che, il 9 dicembre, si è ribaltato il camion a rimorchio, lasciando sulla strada un centinaio di feriti e 55 storie di vita spezzate, famiglie, amici e comunità colpite duramente e per sempre. Secondo Rubén Figueroa, membro del Movimiento Migrante Mesoamericano, “il prezzo pagato per ogni posto in un camion oscilla intorno ai 5 mila dollari, il camion che si è ribaltato trasportava circa 160 persone migranti, il che equivale a circa 800 mila dollari di profitti per il cartello che traffica esseri umani”. Il traffico di persone migranti stipate nei camion è una realtà molto diffusa in Chiapas, insieme agli autobus e alle carovane di auto che quotidianamente lasciano il sud del paese in direzione della frontiera con gli Stati Uniti.
Al di là delle complesse stime sui profitti milionari dei cartelli, è evidente che la militarizzazione delle frontiere e la dissoluzione violenta delle carovane migranti, che assicurano una certa protezione alle persone che avanzano collettivamente, ampliano i margini di azione delle reti di traffico e tratta, in collusione con le autorità di diversi livelli di governo. In concreto le politiche migratorie applicate nel corridoio Centro America-Messico-Stati Uniti privilegiano le azioni di contenimento delle migrazioni piuttosto che combattere le organizzazioni che commettono crimini contro le persone migranti. Emerge quindi una contraddizione fondamentale tra, da un lato, il discorso in difesa dei diritti umani enunciato dal presidente messicano di fronte alla comunità nazionale e nei fori internazionali, dall’altro lato, il dispositivo di sicurezza nazionale che assicura l’attrazione di risorse da parte del governo statunitense e alimenta il mercato di vari tipi di trafficanti e funzionari conniventi.
Finalmente le 55 persone migranti guatemalteche hanno ricevuto un vero abbraccio in un commosso e sincero addio. Nel pomeriggio del 14 dicembre, l’instancabile carovana, arrivata due giorni prima a Città del Messico, si è nuovamente incamminata dal Rifugio del Pellegrino, decisa ad occupare le strade della capitale per portare la propria voce fin sotto agli uffici dell’INM e denunciare pubblicamente l’assassinio di persone migranti in cerca di un vita migliore. Più di 300 persone degne, capaci di infrangere la contenzione di Tapachula camminando per 50 giorni come una sola famiglia, hanno marciato per le strade del lussuoso quartiere di Polanco, per gridare la loro rabbia e dare l’addio ai compagni e alle compagne migranti tra danze, canti, cori, preghiere, fiori e candele, promettendo con orgoglio e determinazione che la loro lotta per la libertà continuerà.
Anna Mary Garrapa – Città del Messico, 18/12/2021
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