
L’economia genocida di Israele è sull’orlo del baratro?
L’economista Shir Hever spiega come la mobilitazione per la guerra di Gaza abbia alimentato un’”economia zombie” che sembra funzionare ma non ha prospettive future.
Di Amos Brison – 16 dicembre 2025
Fonte: https://www.972mag.com
Dall’ottobre 2023, Israele sta affrontando una convergenza di shock economici. Decine di migliaia di residenti sono stati sfollati dalle regioni di confine del Sud e del Nord a causa delle ostilità con Hamas e Hezbollah, mentre centinaia di migliaia di riservisti sono stati sottra dal mercato del lavoro per lunghi periodi, lasciando i settori chiave a corto di personale e con una produttività ridotta. I servizi pubblici, l’istruzione e l’assistenza sanitaria sono peggiorati a causa del dirottamento della spesa pubblica verso la guerra e quasi 50.000 aziende sono fallite.
La fuga di capitali, in particolare nel settore dell’alta tecnologia, insieme alla crescente dipendenza dai prestiti esteri, ha aggiunto una notevole pressione all’economia, con un debito che dovrebbe raggiungere il 70% del PIL nel 2025. Anche la reputazione internazionale di Israele si è indebolita: gli alleati commerciali, un tempo stabili, si stanno allontanando, le sanzioni e i boicottaggi si stanno espandendo e i principali investitori stanno iniziando a guardare altrove.
Un rapporto annuale sulla povertà pubblicato l’8 dicembre dalla ONG israeliana Latet sottolinea la gravità della crisi sociale. Le spese familiari sono aumentate drasticamente dopo la guerra, quasi il 27% delle famiglie e oltre un terzo dei bambini ora soffrono di “insicurezza alimentare” e circa un quarto dei beneficiari degli aiuti sono “nuovi poveri” spinti in difficoltà negli ultimi due anni.
Eppure, allo stesso tempo, l’economia israeliana ha anche mostrato segni di resilienza. Lo Shekel si è rafforzato di quasi il 20% rispetto al dollaro statunitense dall’inizio della guerra e la Borsa di Tel Aviv ha raggiunto massimi storici, sostenuta in parte dalle spese militari e dall’intervento delle banche centrali.
Per dare un senso a questi segnali apparentemente contrastanti, mercati in crescita insieme a crescenti turbolenze sociali ed economiche, è necessario guardare oltre gli indicatori tradizionali. Il ricercatore economico israeliano e attivista BDS Shir Hever sostiene che Israele stia ora operando in quella che lui definisce una “economia zombie”, alimentata da ingenti spese militari, credito estero e negazionismo politico.

Per oltre due decenni, Hever ha esaminato i legami tra l’economia israeliana, il militarismo e l’Occupazione. In un’intervista con +972 Magazine, spiega perché la crisi economica di Israele non può essere misurata semplicemente in termini di PIL o inflazione, e perché i pilastri che un tempo ne sostenevano la crescita, investimenti esteri, innovazione tecnologica e integrazione globale, stanno iniziando a erodersi. Discute anche dell’illusione di un’economia sostenibile in tempo di guerra, del costo sociale ed economico di una prolungata mobilitazione di massa e di come il crescente isolamento di Israele nei mercati globali possa segnalare l’inizio di un declino a lungo termine.
L’intervista è stata modificata per motivi di lunghezza e chiarezza.
Amos Brison: Per iniziare, se ipotizziamo che la guerra di Gaza, nella forma in cui è stata condotta negli ultimi due anni, sia finalmente terminata, si aspetta che l’economia israeliana si riprenda e, in tal caso, come potrebbe accadere?
Shir Hever: Penso che sia importante chiedersi innanzitutto: riprendersi da cosa?
Il problema economico di Israele è multiforme. Primo, vi è un danno diretto alla produttività a causa dello sfollamento di decine di migliaia di famiglie dalle aree vicine ai confini con Gaza e il Libano, e dei danni diretti inflitti da missili e razzi in quelle aree.
Secondo, il reclutamento di quasi 300.000 riservisti per un periodo di tempo molto lungo ha causato un calo notevole della partecipazione alla forza lavoro. Ha anche cancellato innumerevoli giorni di formazione che erano stati investiti in questi lavoratori, in un momento in cui i mezzi per istruire e formare i sostituti sono ben lungi dall’essere pienamente disponibili.
Terzo, la classe media istruita in Israele sta iniziando a considerare l’emigrazione, e decine di migliaia di famiglie sono già emigrate.

Quarto, la crisi finanziaria: molti israeliani hanno portato i propri risparmi all’estero in previsione dell’inflazione, a cui si è aggiunta la perdita di valore della moneta israeliana, il calo della valutazione creditizia di Israele e l’aumento del premio di rischio.
Con il dirottamento delle risorse per la guerra, con i dati del governo stesso che mostrano l’acquisto di armi a credito per decine di miliardi di dollari, la qualità dei servizi pubblici e dell’istruzione superiore è diminuita drasticamente. Israele non è mai stato così vicino nella sua storia a cadere nella trappola del debito, una situazione in cui lo Stato è costretto a contrarre prestiti per coprire gli interessi sui prestiti più vecchi.
Infine, e questo è molto importante, l’immagine di Israele è diventata tossica. Il Paese deve affrontare boicottaggi, disinvestimenti e sanzioni a un livello mai visto prima. Le aziende israeliane si accorgono che gli ex alleati commerciali all’estero evitano di trattare con loro.
Ho letto questo articolo su Ynet in cui hanno intervistato un gruppo di imprenditori israeliani che raccontavano di quanto si sentissero isolati e di come i loro alleati commerciali, anche quelli di lunga data, affermassero di non voler più avere niente a che fare con loro. Hanno descritto come, persino in “Paesi molto amici di Israele”, sia stato detto loro “per favore, cancellate tutti i verbali di questo incontro, non vogliamo che nessuno sappia che ci siamo incontrati con voi”. Molto probabilmente si riferivano alla Germania, dato che la fiera IFA si era appena tenuta a Berlino prima dell’intervista.
Amos Brison: Negli ultimi mesi lei ha descritto l’economia israeliana durante la guerra di Gaza come un’”economia zombie”. Potrebbe spiegare cosa intende?
Shir Hever: La chiamo economia zombie nel senso che è un’economia che si muove ma non è consapevole del proprio stato di crisi o della sua imminente fine.

Un’economia capitalista si basa sull’idea di un orizzonte futuro costante. Non si può avere un mercato capitalista senza investimenti, e gli investimenti si basano sull’idea di investire denaro ora per ottenere un profitto in futuro. Ma in Israele, il governo ha approvato un bilancio slegato dalla spesa effettiva, portando il debito fuori controllo, e la bozza del bilancio del prossimo anno è altrettanto delirante.
Allo stesso tempo, molte delle persone più talentuose e istruite stanno lasciando il Paese perché non vogliono crescere i propri figli lì. Questo è esattamente l’opposto di un orizzonte futuro: uno Stato che pianifica per l’immediato piuttosto che per il lungo termine.
Quindi, sebbene l’economia possa sembrare funzionante in superficie, ciò è dovuto in gran parte al fatto che una parte significativa della popolazione è stata mobilitata per il servizio di riserva, armata, equipaggiata, nutrita e trasportata per sostenere la guerra. La guerra è la principale attività economica intrapresa dal governo; anche ora, a due mesi dal cosiddetto cessate il fuoco di Trump, non c’è stata una restituzione di massa di riservisti alla vita civile.
Haaretz ha calcolato che la distruzione della Striscia di Gaza è il più grande progetto ingegneristico nella storia di Israele. La quantità di cemento, materiali da costruzione, veicoli e carburante utilizzati supera la costruzione di HaMovil HaArtzi (la conduttura idrica nazionale), che è stato il grande progetto infrastrutturale ingegneristico degli anni ’50, e del Muro di Separazione in Cisgiordania, che è stato il grande progetto ingegneristico dei primi anni 2000. Quindi questa è in realtà un’economia che sembra funzionare, ma senza alcuna traiettoria per il futuro. Si basa su un’illusione.
Amos Brison: Presumibilmente, tutti i riservisti che hanno prestato servizio in guerra e tutte le persone sfollate dalle loro case nel Sud e nel Nord, prima o poi torneranno a lavorare. Questo potrebbe permettere a Israele di sfuggire a una crisi economica?
Shir Hever: Innanzitutto, molti di questi riservisti semplicemente non avranno un lavoro a cui tornare, perché più di 46.000 aziende sono fallite durante la guerra.
C’è anche l’aspetto psicologico. Non sono qualificato per rispondere a cosa succede quando queste persone cercano di riprendere la vita civile, ma l’impatto sarà probabilmente drammatico. Ricorreranno alla violenza ogni volta che qualcosa li infastidisce, come hanno fatto per centinaia di giorni a Gaza? Avranno bisogno di un trattamento psicologico intensivo per gestire il trauma e il senso di colpa? Stiamo già assistendo a molti suicidi tra i soldati.

Bisogna tenere presente che si tratta anche di persone che non hanno dedicato tempo a tenersi al passo con gli sviluppi delle loro professioni e che invece hanno commesso un Genocidio a Gaza, il che alimenta anche la crisi tecnologica e educativa. Le iscrizioni universitarie non hanno tenuto il passo con la crescita demografica, il che significa che Israele è sulla buona strada per diventare meno istruito a lungo termine.
Poi ci sono i circa 250.000 israeliani sfollati dalle loro case vicino ai confini con Gaza o il Libano, che vivono da oltre un anno in hotel. Vivono con la convinzione che da un momento all’altro potrebbero essere invitati a tornare. È molto difficile trovare un nuovo lavoro in queste condizioni, poiché il loro compenso dipende dalla loro volontà di tornare nelle loro comunità di origine. In altre parole, devono scegliere tra obbedire alle condizioni del governo o rinunciare al loro compenso e lasciare il Paese, cosa che alcuni di loro hanno effettivamente fatto.
Amos Brison: Tuttavia, vediamo il mercato azionario israeliano raggiungere nuovi massimi e lo Shekel è stabile. Come si spiega questo?
Shir Hever: È importante notare che il mercato azionario non sta andando in una sola direzione. Ad esempio, è crollato dopo il “discorso di Sparta” di Netanyahu a settembre. La gente è andata nel panico quando ha detto questo, perché ha riconosciuto in una certa misura che Israele è stato colpito da sanzioni, boicottaggi e dall’isolamento economico. È stato un piccolo buco nel pallone dell’illusione.
Ma ci sono altre ragioni per questo, una delle quali è che Israele ha cambiato le sue regole su quanto paga i riservisti, al punto che ora vengono pagati 29.000 NIS (7.640 euro) al mese, più del doppio dello stipendio medio di mercato in Israele e più di quattro volte il salario minimo. Alcuni ufficiali di carriera dell’esercito hanno persino lasciato l’esercito per poter rientrare come riservisti e guadagnare di più.
Questi riservisti non avevano nulla su cui spendere tutti questi soldi perché si trovano a Gaza, quindi li hanno investiti in azioni, o li hanno depositati in una sorta di fondo fiduciario tramite una banca, il che significa che, di nuovo, finiscono in azioni. Questo continua a convogliare sempre più denaro nel mercato azionario, quindi ovviamente il mercato azionario è in rialzo. La domanda importante è da dove provengono questi soldi?
Il direttore generale del Ministero delle Finanze ha osservato che questi pagamenti ai riservisti non sono ancora inclusi nel bilancio della difesa. Lo saranno a posteriori, e quando ciò accadrà, il divario tra il bilancio approvato e la spesa effettiva verrà a galla. A quel punto, mi aspetto che la valutazione creditizia di Israele diminuisca e che le banche internazionali siano molto timorose di commerciare con Israele.
Oltre a ciò, l’enorme spesa sta anche aumentando l’inflazione, mentre la produttività non aumenta. Le persone con un reddito disponibile cercano di proteggere i propri risparmi investendo nel mercato azionario in rialzo, contribuendo alla bolla.
Si crea quindi una sorta di stagflazione, in cui l’inflazione aumenta parallelamente a un rallentamento economico. La Banca Centrale israeliana ha gestito la situazione vendendo ingenti quantità di dollari, soprattutto all’inizio della guerra, il che ha creato l’impressione che tutto fosse sotto controllo e che Israele potesse permettersi di continuare a combattere. Questo trucco ha funzionato, e ha funzionato soprattutto sugli investitori internazionali.
Ciò ha creato una situazione molto strana in cui, da un lato, gli economisti israeliani che scrivono in ebraico dicono: “Non è strano che le agenzie di credito stiano riducendo la valutazione di Israele solo di un livello? Credono ancora che il governo ripagherà i suoi debiti. Quanto possono essere ingenui?”. E dall’altro lato, le agenzie di credito, pur leggendo i media finanziari israeliani, si rifiutano di reagire.
Penso che questa sia una forma di complicità da parte dei media finanziari internazionali. Temono che, se riportassero i fatti, verrebbero accusati di essere “anti-Israele”. Vedono come i governi di Stati Uniti, Regno Unito e Germania stiano diffondendo bugie e agendo come se Israele stesse semplicemente subendo una battuta d’arresto temporanea. Se i media finanziari contraddicono questi governi, rischiano la repressione, quindi preferiscono nascondere le informazioni ai loro lettori. Sulla base di queste informazioni parziali, anche le agenzie di valutazione hanno paura di prendere decisioni basate sui fatti.
Amos Brison: Come si manifesta la situazione economica che stai descrivendo nella vita quotidiana degli israeliani?
Shir Hever: C’è una differenza enorme tra la risposta del mercato azionario o della valuta e l’impatto effettivo sul tenore di vita.
Un recente articolo del quotidiano finanziario israeliano The Marker ha calcolato il costo della guerra per famiglia (confrontando il tasso di crescita medio dell’economia israeliana con il tasso di crescita effettivo degli ultimi due anni) in 111.000 NIS (29.000 euro), una cifra molto elevata.

Se oltre il 40% delle famiglie israeliane spende più di quanto guadagna ogni mese, significa che sono già in crisi. Si indebitano sempre di più ogni mese solo per sopravvivere: fare la spesa, pagare l’affitto, eccetera.
L’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale israeliano non ha ancora pubblicato il suo rapporto ufficiale sulla povertà per il 2024, ma un rapporto alternativo dell’organizzazione della società civile Latet ha rilevato che molti israeliani che non sono ufficialmente classificati come persone che vivono al di sotto della soglia di povertà si trovano comunque in una grave crisi. La percentuale di persone che non sono in grado di acquistare cibo a sufficienza, classificate come insicure dal punto di vista alimentare, è aumentata di quasi il 29% nel 2025. Il rapporto ha descritto la situazione come uno “stato di emergenza”.
Amos Brison: È noto che un’ampia percentuale di famiglie israeliane è in “perdita” da anni, ovvero ha scoperto i propri conti e ha acquistato a credito. Gli israeliani non sono già abituati a questa situazione? Cosa è cambiato durante la guerra?
Shir Hever: La percentuale di famiglie israeliane che acquistano a credito e prelevano in scoperto dai propri conti è stata di circa il 40% negli ultimi cinque anni, ma durante la guerra sono state notate due differenze.
La prima, i prodotti che le persone finanziano con il credito sono meno beni di lusso e più beni di prima necessità. La seconda, c’è una differenza tra le famiglie che mantengono un livello più o meno costante di prestiti bancari e pagano interessi ogni mese, e quelle il cui debito aumenta ogni mese e anche gli interessi aumentano, fino a quando non sono costrette a vendere i propri beni. Abbiamo visto sempre più spesso quest’ultimo tipo di famiglie durante la guerra.

E nel frattempo, tutti i soldi del governo, tutti gli sforzi, tutte le risorse vanno alla guerra. Certo che la gente lo percepisce. Il costo della vita aumenta e il livello dei servizi governativi sta crollando, in termini di qualità dei trasporti, dei servizi sanitari e dei servizi educativi. Il reddito sta diminuendo per quasi tutti, tranne che per i riservisti, che, come abbiamo detto, non spendono più di quanto guadagnano.
Amos Brison: Che dire del fatto che gli investimenti esteri rimangono elevati, in particolare le grandi “uscite” nel settore tecnologico? Questo non riflette forse che il modello economico israeliano, per quanto distorto, è sostenibile?
Shir Hever: Se si escludono le “uscite” gigantesche come Wiz, la variazione netta degli investimenti è negativa, e profondamente negativa. Gli investimenti stanno calando drasticamente, soprattutto nel settore tecnologico.
Ma anche se si esaminano attentamente queste uscite, si vedrà che l’importo che il governo israeliano dovrebbe riscuotere in tasse è ridicolmente esiguo rispetto all’entità dell’accordo.
Nel settore tecnologico è molto comune che i lavoratori abbiano delle opzioni, il che significa che i dipendenti, soprattutto quelli ben pagati come i programmatori, possiedono effettivamente azioni dell’azienda. Quindi, se un’azienda straniera come Google acquista le azioni, in realtà le sta acquistando da loro. Quindi si arricchiscono, ma non spendono questi soldi in Israele, perché se ne stanno andando. I soldi vengono portati via.
Queste uscite sono fondamentalmente il settore tecnologico israeliano che fugge dal Paese. Queste aziende hanno già un piede fuori dalla porta, e anche l’altro piede, che è ancora in Israele, vuole andarsene.
Amos Brison: Ho sentito descrivere il comportamento di Israele durante la guerra di Gaza come una forma di keynesismo militare, suggerendo che si tratti di un approccio economico almeno in parte praticabile. Potrebbe spiegarlo meglio?
Shir Hever: È innanzitutto importante notare che non esiste un keynesismo militare nel ventunesimo secolo, in nessuna parte del mondo.
È una teoria sviluppata principalmente negli anni ’60, e durante la Guerra Fredda aveva un senso, in un modo oscuro e macabro. In sostanza, i governi degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale creavano posti di lavoro artificialmente, spendendo molti soldi in armi, invece di investire nello Stato Sociale, istruzione e una società sana, e convincevano l’opinione pubblica ad assecondarli per paura dell’annientamento nucleare.
Ma poiché il valore produttivo delle armi è zero, anzi, negativo, dato che le armi distruggono anziché produrre, questo ha funzionato solo per un periodo molto breve. Negli anni ’70, ha causato una crisi, ed è stato allora che è nato il neoliberismo, che ha affermato che anche le spese militari devono essere tagliate.
Ora, il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha questa fantasia: “Ehi, qual è il problema? Torniamo ai bei vecchi tempi degli anni ’60 e abbiamo una nazione in uniforme e invece di andare a lavorare, andremo a fare la riserva”. Ma non si può semplicemente tornare indietro.

Il motivo è che ai tempi del keynesismo militare, il commercio globale era una frazione di quello odierno. Le aziende di consumo che soffrivano a causa del minor reddito disponibile non avrebbero potuto semplicemente trasferirsi in un altro Paese. Oggi, alcuni israeliani sono effettivamente bloccati in Israele per motivi personali, di salute e familiari, e non hanno altra scelta che operare come parte di un’economia militarista, nonostante il loro tenore di vita sia in declino. Ma il capitale non ha tali vincoli e può spostarsi in altri Paesi.
Amos Brison: Che dire del Sudafrica durante l’Apartheid e della Russia oggi? Israele non potrebbe emulare quei Regimi nel modo in cui trasforma la sua economia in un modo che gli consenta di rimanere belligerante?
Shir Hever: Innanzitutto, non dimentichiamo che il Regime di Apartheid in Sudafrica alla fine è crollato. Ma per anni è riuscito a sostenersi nonostante i boicottaggi diffusi perché era ricco di risorse naturali e aveva un’economia relativamente autosufficiente. Questo non è certamente il caso di Israele, che dipende fortemente dal commercio estero e non può mantenere la popolazione in uno stato di permanente prontezza militare.
Israele dipende dalle importazioni di energia, materie prime, tecnologia, componenti e prodotti finiti per tutti i suoi settori, e dipende anche dalle esportazioni per autofinanziarsi e ottenere la valuta estera necessaria a sostenere le importazioni.
Per quanto riguarda la Russia, ciò che credo possa spiegare la sua capacità di sostenere la propria economia è la vendita di armi, così come di petrolio e altre risorse naturali, ad altri Paesi. E qui, a mio avviso, sta la principale differenza tra Russia e Israele. Perché la Russia, a seguito della guerra in Ucraina, ha effettivamente ampliato la sua influenza internazionale. Ci sono Paesi come Cina, India, Iran e Turchia che vedono un potenziale nel migliorare le relazioni con la Russia, mentre Israele, al contrario, non sta esattamente prosperando diplomaticamente a causa della guerra, e di fatto si sta isolando dai suoi stessi alleati.
Israele ha cercato di costruire nuove alleanze e partenariati commerciali al di fuori dell’Occidente, ma il tentativo è ampiamente fallito. L’Europa rimane il principale alleato commerciale di Israele, seguita dagli Stati Uniti.
Gli Accordi di Abramo sono stati presentati come una nuova frontiera per l’influenza e le alleanze israeliane, ma in pratica sono poco più di una collaborazione nel commercio di armi, precedente agli accordi stessi. Tuttavia, dopo che gli Emirati Arabi Uniti hanno bandito le aziende israeliane dalla fiera delle armi di Dubai in seguito all’attacco israeliano a Doha, resta da vedere cosa ne sarà rimasto degli Accordi di Abramo.
Amos Brison: Fino a poco tempo fa, lei era anche il coordinatore dell’embargo militare nel comitato ufficiale del movimento BDS. Quindi sono curioso di sapere cosa pensa della campagna per un embargo sulle armi contro Israele dopo due anni di guerra e in prospettiva futura.
Shir Hever: Quando ho iniziato il lavoro nel 2022, credevo fermamente nella campagna per l’embargo militare, ma pensavo che sarebbe stato probabilmente l’ultimo aspetto del BDS ad avere successo, perché i singoli individui non possono davvero boicottare le armi. Mi aspettavo di vedere prima campagne di boicottaggio contro le aziende di consumo, poi campagne di disinvestimento e infine, con l’inasprimento delle sanzioni, un embargo militare.
Quindi stavo pianificando a lungo termine. Ma poi, quando Israele ha iniziato a commettere un Genocidio, mi sono ritrovato seduto di fronte a ministri di diversi governi e a dire loro che è contro la legge per il loro Paese commerciare armi con Israele. E loro si agitavano sulle loro sedie e non avevano altra scelta che ammettere che questo è un dato di fatto.
Si sono quindi trovati in una situazione molto difficile, e molti governi hanno effettivamente preso provvedimenti. Non abbastanza e non abbastanza rapidamente, possiamo sempre chiedere di più, e dovremmo chiederlo di più, ma se guardo solo alla velocità con cui gli embarghi militari sono aumentati in diversi Paesi, soprattutto nel Sud del mondo ma anche in Europa, è davvero incredibile.
E non è paragonabile ad altri casi di Genocidio. Certo, la maggior parte del mondo non si preoccupava molto delle relazioni con il Regime ruandese, quindi rispettava il Diritto Internazionale e imponeva un embargo militare. Ma ci sono stati Paesi, come Israele, che hanno violato l’embargo e non sono stati puniti per questo. Ora, tuttavia, vediamo che nei Paesi che non impongono l’embargo militare, i lavoratori portuali nei porti dicono: “Beh, in tal caso, abbiamo l’obbligo legale e morale di non caricare le armi sulle navi”.
E gli Stati Uniti, che sono il principale fornitore di armi a Israele, e, naturalmente, il più Complice e il più interessato a prolungare il Genocidio, hanno ancora un serio problema logistico perché le armi devono passare attraverso l’Europa per raggiungere Israele. Non è tecnicamente fattibile farlo altrimenti. Per questo motivo, anche i trasferimenti di armi statunitensi a Israele ne subiscono le conseguenze.
Amos Brison: Come prevede che si svilupperà l’economia israeliana nei prossimi anni?
Shir Hever: Se avessi saputo prevedere l’andamento economico, sarei molto ricco. Ma credo che dovremmo prestare attenzione a fine anno, quando il Ministero delle Finanze riferirà quanto il governo ha effettivamente speso per la guerra rispetto agli impegni assunti nel bilancio 2025. Mi aspetto che molti investitori e istituzioni internazionali perdano fiducia.
Nel lungo termine, mentre la Banca Centrale israeliana ha avvertito che l’economia si riprenderà lentamente, se non addirittura mai, l’opinione pubblica si aspetta una rapida ripresa. La delusione colpirà duramente la società israeliana e, se si tradurrà in una maggiore emigrazione di professionisti qualificati, l’esercito israeliano cesserà di funzionare come un esercito moderno entro 2-3 anni.
Possiamo già vedere i segni di questo nel crollo della disciplina militare. Alcune unità adottano le proprie insegne, operano impunemente e seguono catene di comando informali. In Cisgiordania, i soldati si uniscono sempre più spesso alle milizie dei coloni e partecipano a Pogrom contro i palestinesi. E mentre migliaia di soldati crollano mentalmente e moralmente, e altre migliaia lasciano il Paese, il governo risponde aumentando gli stipendi dei riservisti. Il risultato è una sorta di forza mercenaria che migra da un’unità all’altra invece di servire all’interno di una struttura coerente e disciplinata. In questo senso, la disintegrazione della società israeliana si riflette sempre più nel suo esercito.
Amos Brison è un redattore di +972, residente a Berlino.
Traduzione a cura di Beniamino Rocchetto, da InvictaPalestina
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