La guerra in Libia, l’intellettualismo umanitario
‘Filosofi in guerra’ di Gianni Vattimo
Quoi de mieux, in tempi di smaccati interessi materiali contrapposti e in assenza di un reale dibattito pubblico che coinvolga il governo italiano (impegnato a difendere l’orgia del potere), di uno scambio tra filosofi di livello internazionale sulla presunta necessità dell’intervento militare in Libia? In un articolo pubblicato su Libération il 28 marzo, Jean-Luc Nancy difende le operazioni occidentali. Gli insorti di Bengasi, spiega, ci chiedono di sconfiggere il “vile assassino” Gheddafi, e l’Occidente è chiamato ad assumersi la responsabilità politica dell’auspicato cambiamento. Nancy ritiene che gli argomenti sollevati dai non-interventisti – i possibili rischi collaterali dell’operazione, i sospetti relativi ai reali interessi in gioco, il principio di non-interferenza nel dominio riservato degli stati e anche il peso del (recente) passato coloniale – non valgano più, di fatto, nell’attuale mondo globalizzato, che svuota di senso il principio di sovranità, e nel quale è anzi necessario “reinventare il vivere insieme, e prima di tutto lo stesso vivere”. Sarebbe questo, in ultima istanza, ciò che i popoli arabi ci costringono a riconoscere. Di qui la necessità dell’intervento, per proteggere i rivoltosi dalle grinfie sanguinarie di Gheddafi. In seconda battuta, ma solo in seconda, i popoli occidentali (noi tutti) dovrebbero agire in modo tale da neutralizzare gli interessi petroliferi, finanziari, e quelli dei mercanti della guerra, che hanno condotto e mantenuto al potere “puppets” come Gheddafi.
La risposta a Nancy giunta da uno stupefatto Alain Badiou è degna della massima attenzione. Primo, ricorda Badiou, in Libia non si è assistito a una rivolta popolare del tipo di quelle egiziana e tunisina. In Libia non vi è traccia di documenti e di vessilli di protesta dello stesso carattere di quelli utilizzati in Egitto e Tunisia, e tra i ribelli libici non si osservano donne. Secondo, è dall’autunno che i servizi segreti britannici e francesi organizzano la cacciata di Gheddafi; di qui (terzo argomento) la presenza di armi di origine sconosciuta a disposizione dei rivoltosi libici, e del consiglio rivoluzionario immediatamente formatosi in sostituzione del governo del raiss. Quarto: esplicite richieste di aiuto sono giunte alle potenze occidentali, in Libia ma non negli altri paesi arabi in rivolta. L’obiettivo dell’Occidente è palese, secondo Badiou: “trasformare la rivoluzione in una guerra”, sostituire i rivoltosi con le armi (armi pesanti, mezzi militari, istruttori di guerra, caschi blu), così da permettere al “dispotismo del capitale” di “riconquistare” l’effervescente mondo arabo. Altrimenti come potrebbero, si domanda Badiou e domandiamo noi al nostro regime, quegli stessi capi di governo occidentali amici di Gheddafi operare un simile voltafaccia?
Ma allora, come sempre, che fare? Se anche – e siamo lontani dall’esserne persuasi – la motivazione umanitaria fosse sufficiente per giustificare l’intervento, come sostiene Peter Singer richiamando il disastro del Rwanda, non si può nascondere (è Singer stesso a ricordarlo) che la risoluzione dell’Onu non autorizza all’intervento militare. In ottica utilitaristica ma nella sua versione consequenzialista, i rischi collaterali contano eccome. Non sarebbe stato meglio tentare di ottenere il risultato sperato adottando misure deterrenti e sanzioni di elevata efficacia, puntando proprio (e unicamente) sulle ragioni umanitarie dell’opposizione a Gheddafi? La soluzione di Nancy è poi del tutto insoddisfacente: perché attendere (che l’intervento militare abbia successo) per impedire (in seconda battuta, appunto) il ritorno dei sordidi interessi materiali sulla scena politica? Così facendo, ci si piegherebbe alla volontà occidentale, spiega Badiou, di reprimere il carattere “inatteso e intollerabile” (per i signori della guerra occidentali) della rivolta egiziana e tunisina, “l’autonomia politica” e “l’indipendenza” dei rivoltosi arabi.
Badiou ha ragione: come scrivevo in questo blog qualche post fa, il mondo multipolare ha le sue esigenze. Non basta ricordare che l’imperialismo occidentale dei tempi della guerra fredda e degli anni immediatamente successivi non può più ambire a dominare il mondo. La vera rivoluzione giungerà quando l’Occidente avrà imparato a fare un passo indietro, ad accettare la differenza, a capire che il concetto di sovranità è ancora più importante, ora che il mondo è globalizzato. Quello di Nancy è un errore logico: è proprio il mondo che vorremmo, la società (internazionale) nella quale vorremmo vivere, per usare le parole scritte da Singer in altri saggi, che ci chiama a rivisitare i tradizionali criteri della logica interventista. E il mondo nel quale vorremmo vivere, oggi e domani, non è quello di Sarkozy e Cameron, ma uno che i paesi arabi, così come quelli dell’America Latina e quelli asiatici, siano legittimati a costruire in posizione di indipendenza e di pari diritti rispetto alle nazioni occidentali.
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