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La necessità di andare oltre.

Qualche considerazione sulle mobilitazioni per la Palestina a Torino.

Negli scorsi giorni la città di Torino è stata scenario di un’attivazione diffusa per la Palestina. Si sono susseguite diverse giornate di mobilitazione, dall’occupazione di Palazzo Nuovo a diverse manifestazioni e iniziative. E’ importante sottolineare alcuni aspetti, in un tentativo di scendere in profondità rispetto a “cosa si sta muovendo”, seppur in maniera non del tutto spontanea e ancora troppo marginale, non per celebrare questi momenti ma per evidenziare quali sono le leve e quali sono le possibilità in questa fase con l’obiettivo di moltiplicare queste esperienze.

Palazzo Nuovo occupato, non succedeva da anni. Si è trattato di due giornate molto partecipate che hanno preso il via grazie a diverse centinaia di persone che a seguito di un’assemblea hanno deciso di occupare l’università per dare un segnale forte. Queste giornate hanno visto la loro conclusione con la partecipazione al corteo studentesco di venerdì 17 novembre e hanno lasciato un segno, poiché si è trattato di un’esperienza reale. Gli studenti e le studentesse hanno ripetuto più volte l’importanza che ha assunto il blocco della didattica (nel vero senso della parola, con filtro all’ingresso e aule barricate) così come la richiesta effettiva che i docenti si esprimessero in merito alla solidarietà alla Palestina, con particolare attenzione a porre fine agli accordi delle università con Israele. Le lezioni bloccate e la disponibilità di centinaia di studenti e studentesse a presidiare l’università, di giorno e di notte, sono indice della necessità di mobilitarsi in maniera attiva, seppur non ci sia un’abitudine a questo tipo di iniziative, ed è chiaro che si possa partire dall’espressione di questa esigenza per fare sì che diventino qualcosa di riproducibile ovunque. Anzi, l’obiettivo di chi ha occupato è quello di lanciare un messaggio che vada oltre i confini di questa esperienza, sollecitando a replicare queste pratiche al di là delle occupazioni simboliche. Molti giovani che hanno occupato oggi sono stati protagonisti delle occupazioni delle scuole degli anni scorsi, in particolare del ciclo di occupazioni durante la mobilitazione contro l’alternanza scuola-lavoro. Chi non vi ha potuto partecipare, perché non ne era a conoscenza o perché fuori città, sa che vi prenderà parte la prossima volta. In piazza non sono tanto le rivendicazioni specificatamente legate alla riforma della scuola o le questioni riguardanti l’università ad emergere, bensì la necessità, quasi esistenziale, di non rimanere impotenti o indifferenti – anche questa volta – davanti all’attacco di Israele. Non ci sono esigenze di dirimere questioni di lana caprina su con chi stare o quale sia il ruolo di Hamas, l’importante è ribadire come la resistenza palestinese sia da sostenere come unica possibilità per la liberazione di un popolo colonizzato. Leila Khaled lo ha detto chiaramente davanti a una platea di seicento persone, il problema dei palestinesi non è Hamas ma l’occupazione israeliana. Nonostante Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, si sia espressa in questi termini poco prima dell’incontro : “Chiediamo alle autorità competenti, dal Questore di Torino al ministro dell’Interno, se sia ragionevole che a un personaggio, dal passato e dal presente assai discutibile, venga invitato a un evento pubblico e consentito di propagandare liberamente l’odio antisemita [..]”, probabilmente con l’auspicio che l’incontro perdesse di interesse, l’aula magna di Palazzo Nuovo era gremita. Durante le due manifestazioni di venerdì e sabato pomeriggio in solidarietà alla Palestina moltissimi giovani hanno preso parte a questi momenti, sottolineando la necessità di dare spazio alla solidarietà concreta. Di fronte alla necessità di mobilitarsi per la Palestina, i collettivi studenteschi e le realtà organizzate hanno avuto la lucidità politica di lavorare per una lotta che aspirasse ad essere di massa, al di fuori dei propri tornaconti settari, liberando spazi per le energie e la volontà di esprimersi da parte di studenti e studentesse che solitamente non partecipano alla vita militante in università. A partire da questi dati sarebbe importante capire come riprodurre esperienze simili anche in altri atenei del Paese.

Momenti di blocco del normale svolgimento della vita, della produzione, che sia nell’ambito della formazione o in generale, assumono un valore effettivo oggi come una delle poche vie da percorrere per prendersi spazio e visibilità nel maremagnum della confusione. I media mainstream hanno silenziato le proteste di questi giorni perché hanno interesse a fare sì che non si propaghino le pratiche di lotta sperimentate in queste occasioni. Scioperare e rifiutare la propria condizione nell’ingranaggio in cui si è immersi, significa fare la propria parte di fronte al senso di impotenza generalizzato. Nelle parole delle persone intervistate in queste giornate si riscontra un senso di vuoto dell’immaginare cosa si possa fare ma, forse, una rinata disponibilità alla lotta. Perché nell’assuefazione generale di questi tempi bui quanto sta accadendo nella striscia di Gaza ha aperto uno spazio, ha acceso delle connessioni e ha mostrato l’evidenza della marcescenza del sistema di dominio occidentale. Alle nostre latitudini si aprono nuove sfide, per chi si pone il problema di incidere nel presente. Se a Roma quarantamila persone in piazza per la Palestina non è un dato scontato, anche su un livello qualitativo l’esperienza di Torino rappresenta un piccolo scarto, da ampliare e potenziare.

Ciò che risulta evidente è che la questione della Palestina ci riguarda da vicino e ci interroga su molto del nostro agire. Innanzitutto, ci interroga rispetto all’essere all’altezza della situazione, quanto l’opzione della lotta come unica possibilità di emancipazione, di demercificazione e di valorizzazione contro e non all’interno di questo sistema, è qualcosa di traducibile nelle composizioni che si muovono su questi terreni ? Intanto, rompere la ritualità della solidarietà di testimonianza, spacchettare i discorsi di rappresentanza per praticare, in nuce, un’altra lettura del mondo oggi, complessa e allo stesso tempo semplice, è un primo passo. Una lettura che vada oltre la settorializzazione delle questioni, che non si accomodi nelle politiche dell’identità, ma che si ponga l’obiettivo di ricomporre e di tessere nuove alleanze nella lotta e nella pratica, può essere un punto di partenza per ragionare al di là degli automatismi e con l’ambizione di voler contare qualcosa.

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