La Turchia e le sue dighe: assetare terra e popolazione per l’egemonia regionale
Fin dalla sua fondazione la Turchia ha considerato come parte inalienabile del proprio territorio l’acqua dei fiumi Tigri e Eufrate e così il loro sfruttamento, articolato in una moltitudine di dighe e centrale idroelettriche che formano il GAP (south-eastern anatolian project) un piano di approvvigionamento energetico sostenibile che nei piani di Ankara dovrebbe colmare il divario economico tra il territorio della Turchia del sud-est, cioè il territorio del bakur curdo occupato, da sempre lasciato strategicamente ai margini della crescita economica, e il resto del paese.
Di fatto la costruzione di queste dighe promuove una forma di controllo del territorio che accompagna sfruttamento coloniale e militarizzazione e ha per conseguenze la distruzione del patrimonio curdo, assiro e armeno; come l’allagamento pianificato della bimillenaria città di Hasankeyf, seguito alla costruzione della diga di Ilisu, ha dimostrato. Si stima che dal GAP in avanti il livello dell’acqua dell’Eufrate si sia abbassato del 75%, inaridendo l’intera regione, come sanno bene le persone che abitano lo Shatt al Arab, l’area lagunare dove confluiscono Tigri ed Eufrate prima di immettersi nel golfo persico, dopo che l’abbassamento delle acque ha provocato un innalzamento enorme nei livelli di inquinamento di queste. In Rojava, le centrali che si approvvigionano dagli effluenti del Tigri come quella di Alouk che rifornisce la città di Hasaka sono bombardate dall’esercito turco per fiaccare la resistenza della popolo auto-organizzatosi secondo i principi del paradigma del confederalismo democratico (vedi articolo); la siccità indotta inoltre riducendo le fonti di acqua pulita, ha fatto sì che malattie debellate da decenni come il colera tornassero.
Ai microfoni di Radio Blackout ne ha parlato un compagno di UIKI, l’ufficio informazione per il Kurdistan in Italia.
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