L’omaggio dei popoli a Chávez
Maduro si impegna a «consolidare l’indipendenza e la rivoluzione bolivariana» Per il suo ultimo viaggio la camicia bianca, la cravatta nera, l’uniforme con il berretto rosso
Geraldina Colotti – il manifesto – Si passa in fretta davanti alla bara, ci si tocca il petto e si accenna a una carezza. Non più di cinque secondi. Non c’è tempo per trattenersi, le diverse file di persone che aspettano davanti a Forte Tiuna formano una coda di 12 km. Anziani, donne, bambini, arrivati da tutto il paese e da fuori per dare l’ultimo saluto al presidente Hugo Chávez, morto martedì. Il giorno dopo, la bara è stata trasferita nell’Accademia militare, accompagnata da una marea di camicie rosse che hanno pianto e cantato. Per la veglia, hanno sfilato quotidianamente davanti al feretro circa 70 mila persone.
Per il suo ultimo viaggio, Chávez è vestito con una camicia bianca, una cravatta nera, l’uniforme verde dell’esercito con il berretto rosso, quella «di gala n. 2». Appare come nell’unica foto diffusa dal governo durante l’ultima convalescenza a Cuba: non era un falso, come invece aveva suggerito l’opposizione.
La salma del presidente, 58 anni, rimarrà esposta nella cappella militare per altri sette giorni: e imbalsamata come quella di Lenin, Ho Chi Min e Mao Tse Tung. Forse saranno degli specialisti russi ad assistere i venezuelani nell’imbalsamazione. Poi il corpo del presidente bolivariano verrà sepolto al Cuartel de la Montana, nel quartiere 23 de Enero: un luogo storico, determinante per la cacciata del dittatore Pérez Jimenez, nel ’58, e fulcro della rivolta civico-militare guidata da Chávez il 4 febbraio ’92. Quando quella rivolta fallì e gli ufficiali progressisti che l’avevano ideata si arresero e andarono in galera, Chávez pronunciò la famosa frase, rimasta impressa nella memoria dei venezuelani: «Compagni, purtroppo la rivoluzione è fallita. Por ahora». E quel cocciuto «per ora» significherà per tutti un nuovo appuntamento con la storia: questa volta vincente, per i vari filoni di lotta popolare impegnati nella lotta al neoliberismo, ma ancora privi di un leader capace di essere all’altezza delle proprie responsabilità. Chávez lo è stato, giocando fra azzardo e empatia, fra inventiva e democrazia partecipata: facendo la muta dal vecchio mondo a embrioni di socialismo. Per questo, non solo la maggioranza del suo paese, ma anche buona parte del mondo è venuta a rendergli omaggio.
Al funerale hanno assistito 33 capi di stato e delegazioni di 55 paesi. In 16 paesi sono state istituite giornate di lutto nazionale, e 10 organismi multilaterali hanno espresso il loro cordoglio. All’acme delle celebrazioni, tutti i presidenti sono stati chiamati alla veglia d’onore intorno alla bara. Quando veniva pronunciato il loro nome, partivano gli applausi. Quelli più lunghi sono andati all’iraniano Ahmadinejad, che in piedi davanti al feretro ha avuto un gesto d’affetto, ha scosso la testa e si è lasciato andare alle lacrime. L’orazione funebre di monsignor Mario Moronta, «in rappresentanza della chiesa cattolica» ha salutato «l’amico, il fratello e il compagno» che si è messo dalla parte dei poveri e lascia a chi resta l’impegno di continuare a volgersi dalla parte degli ultimi. Per la Conferenza delle chiese pentecostali, il Consiglio evangelico e le chiese indipendenti si è lungamente espresso anche Alexis Romero, pastore della guardia d’onore presidenziale. I governi di molti altri paesi che non sono venuti al funerale, hanno inviato le proprie condoglianze: sentite o formali secondo il grado di condivisione con le politiche del Venezuela bolivariano: chiaramente orientate a una decisa lotta anticapitalista d’impronta socialista.
Anche per questo, si poteva pensare ai funerali dei grandi rivoluzionari del secolo scorso, che hanno vissuto e agito nell’unico periodo storico in cui le classi dominanti hanno davvero tremato. «Cambiano i tempi, ma la paura del comunismo fatica a morire, anche quando i suoi colori sono quelli rojo-rojito del socialismo bolivariano – dice un giovane militante del Partito socialista unito del Venezuela (Psuv) – per questo il nostro comandante ha fatto arrabbiare i grandi padroni del mondo». E una ragazza aggiunge con la voce rotta dal pianto: «Chi vive dando l’esempio, spendendosi senza riserve anche per gli altri indica una strada… una libertà. Così ha fatto il Che, così Chávez».
L’ampia passeggiata di Los Procedes è davvero troppo piccola per contenere la marea di persone venute ad assistere al funerale. Per qualche minuto alcune barriere di sicurezza crollano. «Chávez non sono io, è un popolo, siamo milioni», ha gridato il leader socialista durante l’ultima campagna presidenziale del 7 ottobre. E «siamo tutti Chávez» è diventato lo slogan vincente, declinato anche oggi in ogni angolo di strada. In tanti lo esponevano sui cartelli o sulle magliette rosse. Alle ultime presidenziali, il leader bolivariano ha vinto alla grande contro Enrique Capriles Radoski, candidato della Mesa de unidad democratica (Mud), facendo registrare una partecipazione record alle urne. Dal ’99 al 2012, Chavez ha vinto tutte le partite elettorali tranne una (il referendum costituzionale del 2007). Nel 2013 ha perso quella decisiva, cedendo al tumore devastante che lo ha attaccato nel 2011 e che se l’è portato via con un ultimo colpo al cuore : «È morto per un infarto fulminante», ha detto ai giornalisti il generale José Ornella, capo della guardia presidenziale, rivelando particolari sugli ultimi istanti di vita del morente: col movimento delle labbra, Chávez, (costretto a respirare attraverso una cannula e dunque impossibilitato a parlare) avrebbe detto: «Non voglio morire, per favore non lasciatemi morire». La stessa preghiera al cielo, rivolta pubblicamente nel corso di una messa nel pieno della sua malattia: «Cristo, dammi ancora vita, fammi vivere per servire ancora il mio popolo».
In una Caracas frastornata dal lutto, il popolo bolivariano rinnova il suo impegno a andare avanti: «Siamo tutti Chávez». Le strade, i teatri chiusi e i luoghi associativi traboccano di fiori rossi e di omaggi al presidente da parte di collettivi, organizzazioni popolari, singoli cittadini.
Come continuerà questa rivoluzione senza il carisma del suo leader, senza la sua capacità d’ascolto e di tenere insieme le varie anime che la compongono? Entro 30 giorni, la costituzione prevede che vengano indette nuove elezioni. Ieri alle 19 (mezzanotte passata in Italia), durante una sessione speciale del Parlamento il vicepresidente Nicolas Maduro ha ufficializzato l’interim che sta già svolgendo, giurando davanti all’Assemblea: sarà lui a guidare il paese fino alle nuove elezioni presidenziali e il suo partito dovrebbe ritenerlo il proprio candidato.
«Se “alcune circostanze” dovessero impedirmi di portare a termine il mandato, il mio parere fermo, chiaro come la luna piena, irrevocabile, assoluto e totale è di eleggere Maduro in caso di nuove elezioni», aveva detto Chávez l’8 dicembre, tornando all’improvviso da Cuba per far conoscere al paese la gravità del suo male. Durante le celebrazioni, Maduro ha ricordato il coraggio del presidente e si è impegnato a «mantenere e consolidare l’indipendenza conquistata durante la rivoluzione bolivariana, a costruire un socialismo diverso e democratico e a fare del Venezuela un paese potenza nel segno di quella grande potenza che è l’America latina che si andrà costruendo nei prossimi anni». Un impegno a «costruire un mondo di equilibrio e senza imperi», e «a preservare la vita del pianeta e a salvare la specie umana».
Maduro, 50 anni, ex autista di autobus e sindacalista, ha dato buona prova di sé come ministro degli Esteri per più di sei anni ed è stato nominato vicepresidente dopo la vittoria del 7 ottobre. Ha una formazione marxista e ha giocato la partita bolivariana fin dai suoi inizi. È abituato a sgolarsi nei comizi fino a perdere la voce, sa mediare al vertice e stare in piazza, ma con uno stile distante da quello del leader defunto che gli ha dato massima fiducia. Se vincerà le elezioni, dovrà mantenere un equilibrio tra le varie anime del proceso bolivariano, assicurarne la continuità e garantire la governabilità di un paese in crescita, ma anche attraversato da problemi di non facile soluzione.
La storia non produce tutti i giorni leader come quello che se n’è andato. La sua malattia ha però dimostrato che, in sua assenza, questa «rivoluzione», che scommette di sconfiggere il capitalismo minandolo dall’interno, sta costruendo una nuova leadership, decisa a procedere all’insegna dell’unità sulla stessa strada. Anche il mito di Chávez può servire a questo. «Pensa – ha detto al manifesto la documentarista Lilian Blazer, che ha raccontato dall’interno i momenti più importanti dell’arrivo di Chávez al governo – in un contesto ancora così omofobico come quello latinoamericano, guarda quanti uomini che piangono e dicono: “Chávez ti amo”. Al presidente, che ha avuto a cuore la libertà delle donne, viene simbolicamente riconosciuta anche la sua parte femminile».
Accampata fra gli alberi o in piedi lungo il viale, la folla che non ha potuto entrare, ha assistito alle celebrazioni dai numerosi schermi installati in vari punti, applaudendo e asciugandosi con una mano le lacrime, mentre con l’altra riparava dal sole i bambini. I venditori ambulanti hanno proposto parasole e le ultime foto di Chávez , in forma di manifesto e in altri formati. Qualcuno ha montato un ritratto del presidente morto a fianco di Cristo. Gruppi di lavoratori hanno diffuso specifici volantini di sostegno. Ce n’era anche uno della Delegazione di pace delle Farc, impegnate a Cuba nelle trattative con il governo di Manuel Santos. Un percorso fortemente voluto da Hugo Chávez. Per lui, la delegazione ha riprodotto le parole del cantautore Ali Primera: «Coloro che muoiono per la vita non possono chiamarsi morti».
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