Palestina: Il piano di pace come proseguimento del colonialismo con altri mezzi
Il 28 gennaio 2020, Donald ed il primo ministro Israeliano Benjamin Netanyahu hanno presentato il cosiddetto “Piano di pace per il Medioriente”. In pompa magna nella sala stampa della Casa Bianca, alla complice presenza degli ambasciatori di Oman, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, sono stati rivelati i primi dettagli del progetto che di fatto annette gran parte della Cisgiordania allo stato di Israele.
Il piano prevede l’annessione delle colonie illegali Israeliane presenti in Cisgiordania, delle alture del Golan e della città di Gerusalemme, riconosciuta di fatto come “capitale indivisibile dello stato ebraico”. Inoltre, si stabilisce la prossima occupazione della valle del Giordano.
Il destino del popolo Palestinese invece sarebbe relegato a dei territori che, in misura sempre maggiore, guardano al modello delle riserve indiane negli USA oppure a quello delle nazioni indigene del Sud Africa nel periodo del segregazionismo razziale.
Questo teatrino si svolge seguendo il più classico dei copioni coloniali, nell’assenza dei diretti interessati: i Palestinesi. Infatti il presidente dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) non è stato invitato alla presentazione del cosiddetto “piano del secolo”.
Note critiche sulla storia della Palestina Britannica
È necessario partire da una breve storia della Palestina sotto il mandato britannico per comprendere fino in fondo la paradossalità di quanto sta avvenendo sotto il nome di “piano di pace”. Dopo quattro secoli di occupazione Ottomana (1517-1918), la regione viene messa sotto il dominio del fu impero Britannico in seguito agli accordi Sykes-Picot del 1916, nei quali gli imperi coloniali stavano studiando le soluzioni per spartirsi le colonie degli stati nemici. Così, nel 1917, l’esercito inglese occupa la Palestina. Nel 1920 comincia ufficialmente il “Mandato Britannico” con il benestare della Società delle Nazioni secondo il leitmotiv del colonialismo: “aiutare quelle popolazioni delle colonie a emanciparsi perché considerate ancora incapaci di autogovernarsi”. Tuttavia, già nel 1917, la dichiarazione di Balfour, esponente di spicco del partito conservatore Britannico, auspica per la Palestina tutt’altro che un destino di indipendenza e autodeterminazione. Infatti la dichiarazione, diretta a un esponente di rilievo del nascente movimento sionista, recita:
“Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo”
L’arroganza coloniale si fonda sul potere di disporre a piacimento della colonia. Poco importa degli abitanti del territorio, “selvaggi e inadatti all’autogoverno”. L’impero dispone dello sfruttamento, dello scambio, della vendita e addirittura del dono della colonia. Con essa cede anche la popolazione presente su quella porzione di suolo. Accordando il diritto sulla terra si concede anche il diritto di disporre a piacimento degli abitanti nativi, seguendo un principio feudale millenario. Questi elementi sono fondativi di ogni colonialismo, occorre tenerlo bene a mente perché tornerà utile nell’analisi del presente.
Durante il mandato britannico, dunque, si pongono le basi per un nuovo colonialismo di insediamento. Tra il 1920 ed il 1948, la migrazione di coloni bianchi di religione ebraica conosce una netta accelerazione anche in conseguenza dell’espulsione, più o meno forzosa, degli ebrei europei dal vecchio continente.
È in questi anni che la popolazione araba si solleva sia contro il nuovo colonialismo di insediamento sia contro il vecchio colonialismo britannico. I moti culminano nella ribellione del marzo 1939. La repressione inglese, con l’uccisione di più di 5.000 persone tra ribelli e civili e l’esecuzione di più di 120 leaders della rivolta, fa in modo di disarticolare l’organizzazione delle comunità native: il tentativo dell’amministrazione, infatti, fu quello di costruire una governabilità della colonia, col disarmo totale della popolazione indigena, la disgregazione delle comunità locali e il nullaosta per la militarizzazione massiccia delle colonie degli ebrei bianchi. Questo processo si accompagnò a una parziale limitazione dell’immigrazione di nuovi coloni ebrei come rassicurazione per il popolo palestinese. Il tentativo fallì: i coloni sionisti iniziarono a condurre una campagna terroristica nei confronti dell’impero britannico e della popolazione civile palestinese. Questa campagna di terrore nei confronti dei non-ebrei fu funzionale all’edificazione della nuova “patria ebraica” favorendo l’indipendenza dalla “madrepatria” inglese e l’espulsione o l’eliminazione della popolazione araba.
Questi sono alcuni dei fatti storici che resero possibile la Nakba, catastrofe del popolo palestinese. La Nakba non fu altro che l’intensificazione di quelle attività di terrorismo genocida iniziate nel 1939 da parte delle milizie coloniali e la conseguente predazione della terra abbandonata dai civili in fuga. Ciò non sarebbe stato possibile senza il disarmo palestinese compiuto dall’amministrazione coloniale britannica. Così tra il febbraio ed il dicembre 1948 più di 15.000 palestinesi inermi furono uccisi, più di 530 villaggi distrutti e più di 750.000 abitanti deportati.
Così nasce lo stato di Israele tra un piano di pace dell’ONU e la pulizia etnica dei nativi che continua sino ai giorni nostri con il costante furto della terra da parte dello stato Israeliano.
Inseriamo la sequenza temporale delle mappe della Palestina che raccontano più di mille parole il progressivo furto della terra a cui abbiamo brevemente accennato, sul quale per motivi redazionali non possiamo dilungarci ma ci ripromettiamo di approfondire in un altro momento.
Il “piano di pace” Trump o il piano di annessione di Netanyahu?
Il piano israelo-statunitense parte dal presupposto che sia necessaria una “realistica soluzione a due stati”. Queste le parole con le quali il presidente dell’amministrazione USA ha aperto la conferenza stampa alla quale nessun rappresentate del popolo palestinese è stato invitato.
Il piano prende in considerazione una storia differente da quella che, rapidamente, abbiamo provato a tracciare noi. Il contesto sul quale si colloca è una vera rimozione delle cause storiche dello sviluppo del conflitto. Nei presupposti del programma di pace si accenna solamente a un’ostilità che dura da settant’anni, ovvero dall’abbandono della Palestina da parte dell’impero britannico. Si rimanda invece a una misteriosa convivenza conflittuale dei due popoli, rimuovendo la questione coloniale: si sostiene infatti l’inutilità di un esercizio di “declamazione” del passato per una contingente edificazione di un piano “realistico”.
Il realismo della soluzione a due stati equivale ad assumere come fatto legittimo l’usurpazione delle terre palestinesi; il presupposto storico è il riconoscimento dell’occupazione illecita e del furto della terra. Le 180 pagine del “piano di pace”, definito dai suoi creatori il “piano del secolo”, tracciano un’idea di quello che vorrebbero diventasse lo stato di Palestina. La mappa concettuale della Palestina indica il futuro del popolo palestinese che, se dovesse accettare le tragiche condizioni americane, si vedrebbe coinvolto in un piano di “prosperità e sviluppo” fondato sull’investimento di “cinquanta miliardi di dollari”. Proviamo a dare uno sguardo alla “mappa concettuale”, disegnata dagli statunitensi e allegata al piano, per capire meglio di cosa si tratta.
Figura 2 – Mappa concettuale
Questa mappa rappresenta plasticamente il futuro di segregazione al quale si vorrebbe relegare il popolo palestinese. Andiamo comunque a leggerla attraverso la descrizione del piano stilato dagli USA:
“Approssimativamente il 97% degli israeliani in West-Bank [Cisgiordania] saranno inclusi nei territori israeliani contigui e approssimativamente il 97% dei palestinesi in West-Bank saranno inclusi nei territori palestinesi contigui. Lo scambio di terra fornirà allo Sato di Palestina una porzione di suolo ragionevolmente comparabile in quantità con la quantità di territorio pre-1967 della West-Bank e di Gaza.”
Questa formula, volutamente ambigua, rispecchia la confusione che si vuol gettare sulle questioni pragmatiche della soluzione a due stati. Parlare di percentuali precise ma approssimative, evocare la restituzione della terra sottratta nel 1967, scambiando larghe porzioni di deserto contro città e terreni fertili, offrire miliardi di dollari senza capire chi sarà a stanziarli è il solito giochetto elettorale di chi non ha nulla da promettere se non miseria e furto ai malcapitati. Quello che si vorrebbe far controfirmare ai rappresentanti palestinesi è una condanna a morte del loro popolo. Tuttavia è fortemente improbabile che la dirigenza dell’ANP firmi un accordo del genere come in passato firmò sciaguratamente per gli accordi di Oslo.
Quello che prevedibilmente accadrà nel futuro prossimo è che Israele annetterà unilateralmente i territori che la potenza Nordamericana gli ha concesso. In campagna elettorale, infatti, il presidente israeliano Netanyahu aveva promesso al suo elettorato di annettere giuridicamente le colonie in Cisgiordania allo stato di Israele e con esse la valle del Giordano. Occorre parlare di annessione giuridica perché l’area C è di fatto già sotto il controllo israeliano. La zona è interamente presidiata dall’esercito di occupazione e per gran parte abitata da coloni israeliani e costituisce il 64% dell’intero territorio della Cisgiordania. Vogliamo ricordare qui che la divisione in aree della Palestina è un’eredità di altri accordi di pace, quelli di Oslo. Accordi che, oggi come ieri, hanno sempre avuto come obiettivo l’erosione del territorio Palestinese in favore dello stato ebraico.
Il modello segregazionista delle Homelands e delle riserve indiane nel piano Trump
Il destino del popolo Palestinese sarebbe dunque relegato a dei territori che, in misura sempre maggiore, guardano al modello delle riserve indiane negli USA oppure a quello delle nazioni indigene del Sud Africa nel periodo della segregazionismo razziale. Come è possibile osservare dalla mappa concettuale il territorio destinato ai palestinesi non assomiglia in nulla a una nazione indipendente. Piccole aree semi-adiacenti sono collegate da “ponti o tunnel” che nel progetto americano dovrebbero fungere da infrastrutture di collegamento. In realtà sappiamo bene che queste infrastrutture sono, già oggi, dispositivi di controllo: strade presidiate da check-point e barriere di vario tipo che l’autorità militare israeliana apre e chiude a piacimento.
Il quadro di sistemi per impedire la libera circolazione all’interno della Cisgiordania è così complesso e sofisticato da “meritare” un intero dossier delle Nazioni Unite per spiegarne il funzionamento nel dettaglio. Inoltre questi luoghi di “controllo e sicurezza” si rivelano essere spesso luoghi di violenza e morte. Ogni anno viene ucciso un elevato numero di palestinesi ai checkpoint per il solo motivo di risultare sospetto dal soldato di turno, in quelle che l’ANP definisce “esecuzioni extragiudiziarie”. Tanti sono anche i casi di donne con complicazioni durante il parto o persone con gravi condizioni mediche che vengono lasciate ad aspettare nelle ambulanze, a volte fino alla morte. Questo ci sembra il senso del potenziamento delle infrastrutture di collegamento pensate dalle amministrazioni USA e israeliana.
Nella maggior parte dei casi saranno “tunnel o ponti” collegheranno zone sconnesse costruendo delle vere e proprie isole di segregazione dalle quali si potrà uscire, come già parzialmente è adesso, previo permesso scritto dell’autorità militare Israeliana. Questo sistema di controllo e segregazione non interviene esclusivamente tra territori palestinesi e stato di Israele ma bensì anche tra un’area palestinese e l’altra. La struttura della separazione è funzionale alla disarticolazione della società palestinese. Come abbiamo visto l’amministrazione coloniale Britannica per smembrare i movimenti politici mandò a morte la maggior parte dei leaders delle comunità locali. Oggi, il sistema israeliano costruisce muri con l’intento di eliminare la resistenza palestinese e di creare divisioni interne al popolo e ai movimenti, seguendo lo stesso schema con cui ha operato tra Gaza e la Cisgiordania, fomentando le lotte intestine, separando le famiglie e creando esistenze di vita materiale diverse per le popolazioni civili. La strategia coloniale oggi come sempre è divide et impera.
La deportazione della popolazione dalle proprie terre consente di liberarsi dall’annoso “problema delle minoranze native”. Riprendiamo le parole di Connie Mulder, ministro delle relazioni raziali nel Sudafrica dell’apartheid:
“Se la nostra politica viene perseguita fino alla sua logica conclusione per quanto concerne i neri, non resterà neppure un nero con cittadinanza sudafricana. Ogni nero sarà sistemato in uno Stato indipendente in modo onorevole e questo Parlamento non sarà più tenuto a occuparsi politicamente di queste persone.”
Se questo, da un punto di vista umanitario, sembrerebbe l’aspetto centrale della segregazione, a noi invece pare necessario guardare con attenzione anche alla questione materiale, alla terra che viene lasciata “vuota”. Come abbiamo visto l’elemento fondativo dei colonialismi è quello di disporre a piacimento della proprietà della terra. Questa può essere utilizzata per costituire delle aree di segregazione per le popolazioni indigene, quanto più i coloni si possono assicurare il controllo sulle risorse strategiche.
L’annessione della Valle del Giordano è un esempio paradigmatico del molteplice sfruttamento dei territori conquistati manu militari. La Valle del Giordano è un luogo ricco di risorse naturali, come pochi in Palestina. L’afflusso di acqua dal lago di Tiberiade verso il Mar Morto e le temperature elevate consentono produzioni agricole di pregio e lo sfruttamento dei minerali marini, i quali riforniscono gran parte dell’industria chimica israeliana. Le bellezze naturalistiche e storiche lo rendono un luogo di attrazione turistica con campeggi attrezzati, comunità naturiste, stabilimenti balneari e resort con spa di bellezza che sfruttano i fanghi salini del Mar Morto, ritenuti un ottimo cosmetico naturale. Contemporaneamente l’occupazione delle alture al di sopra della valle consente il controllo militare di tutta l’area circostante e l’osservazione del confine con la Giordania che, dal 1967, è completamente minato per impedire qualsiasi attraversamento fuori dai checkpoint. L’occupazione di quest’area, come di altre che verranno annesse, è multifunzionale per lo stato coloniale: sfrutta estrattivamente le risorse naturali attraverso i settori più disparati, dal turismo all’industria chimica passando per l’agricoltura intensiva, allo stesso tempo garantisce il controllo militare all’interno ed all’esterno allo stato israeliano.
Lo “sviluppo e la prosperità” del neoliberismo
Quello che sin qui è stato detto sarebbe abbastanza per capire cosa significa, nelle intenzioni dei promotori, “piano di pace” per il popolo palestinese. Tuttavia ci interessa soffermarci su un altro aspetto che nessuno, sino ad oggi, ha evidenziato: il significato delle parole “sviluppo e prosperità” che sono comparse sin dalla prima presentazione del piano e ritornano con ossessiva insistenza nel programma diffuso dalla Casa Bianca.
Sviluppo e prosperità sono due parole che nel nostro dizionario politico conosciamo bene. Ogni volta che gli araldi del neoliberismo le pronunciano sappiamo che si sta andando in contro ad un processo intensivo di sfruttamento e distruzione di quei territori che dovrebbero “svilupparsi e prosperare”. Infatti più si scorre dettagliatamente il programma di “pace, sviluppo e prosperità” più si accentua il tono megalomane dell’amministrazione statunitense. Zone industriali ad alta tecnologia e residenze agricole affiorano nel deserto del Negev, al confine con il Sinai. La città di Al-Khalil (Hebron in lingua ebraica) si trasforma in un’enorme centrale elettrica in grado di coprire il fabbisogno energetico dell’intero Stato di Palestina. Quest’operazione, a metà fra il collage di immagini fatte dalla megalomania statunitense e una spietata operazione di propaganda per indorare la pillola ai palestinesi, racconta un altro colonialismo. Il neocolonialismo statunitense, attraverso l’arma a doppio taglio della pioggia di dollari, cerca di trasformare intere aree del nostro pianeta per metterle a profitto. Lo abbiamo visto in America Latina come in altre parti del sud e del nord del globo.
Il principio secondo il quale è strutturato il programma statunitense ci racconta bene quali sono le logiche di dominio economico che il neoliberismo impone nel mondo. La popolazione viene deportata dalle proprie terre per essere reclusa e messa a produrre beni e servizi calati dall’alto. In questo modo si impone al popolo palestinese una produzione aliena e alienante della propria esistenza, si distruggono le comunità e insieme a loro la produzione e la riproduzione del proprio popolo. C’è di più: in questo caso specifico il piano di “sviluppo” proporrebbe una produzione con un ricatto aggiuntivo, poiché in assenza totale di controllo sulle frontiere, sui porti e sugli aeroporti, i quali verrebbero “messi a disposizione” ai palestinesi dallo stato di Israele. Le frontiere, come le importazioni ed esportazioni, verrebbero controllate dagli israeliani per “motivi di sicurezza nazionale”. Il progetto israelo-americano con questo passaggio chiude il cerchio della pianificazione coloniale di stampo capitalista. Il “piano di pace, prosperità e sviluppo” in definitiva altro non è che la trasformazione della “più grande prigione del mondo a cielo aperto”, come l’ha definita lo storico israeliano Ilan Pappé, nella più grande prigione-fabbrica del mondo a cielo aperto. Nel disegno di ingegneria sociale presentato alla Casa Bianca si dispongono da una parte i territori ricchi di risorse naturali e strategiche, dall’altra la popolazione palestinese, deportata nel deserto, resa docile, affamata e pronta per essere spremuta nella catena di montaggio.
Il popolo palestinese, una lotta che non retrocede di un passo
Questi sono i piani per la “pace” in Medioriente che, come ogni piano di pace promosso da settant’anni ad oggi in questa parte di mondo, altro non sono che il proseguimento del colonialismo con altri mezzi.
Abbiamo molto da imparare dal popolo palestinese e dalla resistenza che, dalle città sovraffollate nella striscia di Gaza alle aree rurali della Valle del Giordano, ci parla della stessa lotta che non si piega e non retrocede di un passo. Nessun rappresentante palestinese sembra intenzionato a firmare questa proposta che ha già scatenato le proteste del popolo e le rappresaglie dell’esercito di occupazione.
La storia del popolo palestinese è la storia della lotta per la Palestina libera e indipendente. La resistenza popolare è l’unica risposta possibile ai vari piani di pace che si sono susseguiti e agli altri che seguiranno, perché il popolo palestinese lo sa bene: nessuna pace è possibile senza terra, giustizia e libertà!
Patrick Wolfe, uno storico e scrittore australiano, ha sostenuto che occorrerebbe rileggere la storia del capitalismo attraverso la storia del colonialismo. Questa intuizione sarebbe interessante da verificare anche altrove: oltre la Palestina, oltre le ex-colonie, nel cosiddetto mondo occidentale. D’altronde sappiamo bene cosa significa dalle nostre parti distruzione e devastazione dei territori in nome del profitto, necessità securitarie e carcerazione preventiva, “siti strategici di interesse nazionale” e spopolamento dei territori. Come sappiamo bene che le promesse di “sviluppo e prosperità” altro non sono che un’esistenza di miseria in cambio di un salario precario. Allora oggi più che mai è importante sostenere e imparare dalla lotta del popolo palestinese, gettare il cuore oltre l’ostacolo. Occorre rifiutare il compromesso come condizione di un’esistenza nella rassegnazione che un altro mondo non sia possibile. Vogliamo chiudere lasciandovi con una frase del poeta e scrittore Gazawi Ahmed Abu Artema: “Lottare per la libertà del popolo palestinese significa lottare per la libertà e l’autodeterminazione di tutti i popoli del mondo!”
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