Proteste di massa e false speranze: la Corte Suprema di Israele non è amica del popolo palestinese
MEMO e Palestine Chronicle. Di Ramzy Baroud. Mentre in tutto Israele centinaia di migliaia di persone si univano alle proteste antigovernative, hanno cominciato a sorgere domande su come questo movimento avrebbe influenzato, o eventualmente si sarebbe unito, alla più ampia lotta contro l’occupazione militare israeliana e l’apartheid in Palestina.
da Infopal
I media pro-Palestina hanno condiviso, con entusiasmo, la notizia delle dichiarazioni di alcune celebrità di Hollywood, tra cui Mark Ruffalo, sulla necessità di “sanzionare il nuovo governo di estrema destra del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu”.
Netanyahu, al centro delle polemiche e delle proteste di massa, ha faticato persino a trovare un pilota per il volo che lo ha portato a Roma il 9 marzo per partecipare ad un incontro di tre giorni con il governo italiano. L’accoglienza del leader israeliano in Italia è stata altrettanto fredda. La traduttrice italiana, Olga Dalia Padoa, si è rifiutata di fare da interprete durante il discorso di Netanyahu, tenutosi il 9 marzo in una sinagoga di Roma.
È comprensibile l’importanza di utilizzare strategicamente la rivolta contro il governo di estrema destra di Netanyahu per smascherare la falsa pretesa di Israele di essere una vera democrazia, presumibilmente “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Tuttavia, bisogna stare altrettanto attenti a non legittimare le istituzioni intrinsecamente razziste di Israele che esistono da decenni, prima ancora che Netanyahu arrivasse al potere.
Per anni, il primo ministro israeliano è stato coinvolto in casi di corruzione. Pur rimanendo popolare, Netanyahu ha perso la sua posizione alla guida della politica israeliana nel giugno 2021, dopo tre elezioni aspramente contestate. Tuttavia, il 29 dicembre 2022 è tornato, questa volta attorniato da personaggi ancora più corrotti – anche secondo i canoni di Israele – come Aryeh Deri, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, gli ultimi due attualmente in carica rispettivamente come ministro delle Finanze e della Sicurezza nazionale.
Ognuno di questi personaggi aveva il proprio motivo per voler entrare nella coalizione. Il programma di Smotrich e Ben Gvir spaziava dall’annessione degli insediamenti illegali in Cisgiordania alla deportazione dei politici arabi considerati “sleali” nei confronti dello Stato.
Netanyahu, pur essendo un ideologo di destra, è invece più interessato alle ambizioni personali: mantenere il potere il più a lungo possibile, proteggendo se stesso e la sua famiglia da problemi legali. Vuole semplicemente stare lontano dal carcere. Per farlo, ha dovuto anche soddisfare le pericolose richieste dei suoi alleati che hanno quindi dato libero sfogo alla violenza dell’esercito e dei coloni contro i Palestinesi nella Cisgiordania occupata, come è avvenuto a Huwwara, Nablus, Jenin e altrove.
Ma il governo di Netanyahu, il più stabile degli ultimi anni, ha obiettivi più importanti che la semplice “cancellazione” delle città palestinesi dalla mappa. Vuole modificare il sistema giudiziario che gli permetterebbe di trasformare la stessa società israeliana. La riforma garantirebbe al governo il controllo sulle nomine giudiziarie, limitando il potere della Corte Suprema israeliana nell’esercitare il controllo giudiziario.
Le proteste in Israele hanno ben poco a che fare con l’occupazione israeliana e l’apartheid, e difficilmente riguarderanno i diritti dei Palestinesi. Sono guidate da molti ex leader israeliani, come l’ex primo ministro Ehud Barak, l’ex ministro Tzipi Livni e l’ex primo ministro e leader dell’opposizione Yair Lapid. Anche durante il periodo nel quale erano al potere Naftali Bennett-Yair Lapid, tra il giugno 2021 e il dicembre 2022, centinaia di Palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania. Il 2022 è stato descritto dal coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, come il più “letale” in Cisgiordania dal 2005. In quel periodo, gli insediamenti ebraici illegali si sono allargati rapidamente, mentre Gaza è stata continuamente bombardata.
Eppure, il governo Bennett-Lapid ha subito poche reazioni da parte della società israeliana per le azioni sanguinose e illegali commesse in Palestina. Anche la Corte Suprema israeliana, che ha approvato la maggior parte delle azioni governative nella Palestina occupata, ha affrontato poche o nessuna protesta per aver sdoganato l’apartheid e legittimato la presunta legalità delle colonie ebraiche, tutte illegali secondo il diritto internazionale. L’approvazione della Corte Suprema è stata concessa anche quando Israele ha approvato la Legge sullo Stato-Nazione, che si identifica esclusivamente come Stato ebraico, escludendo in questo modo la totalità della popolazione araba musulmana e cristiana che condivide la stessa terra situata tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.
Raramente il sistema giudiziario israeliano si è schierato dalla parte dei Palestinesi e, quando a volte si sono registrate delle piccole “vittorie”, queste hanno a malapena scalfito la realtà generale. Sebbene si possa comprendere la disperazione di coloro che cercano di lottare contro le ingiustizie israeliane utilizzando il “sistema giudiziario” del Paese, questo linguaggio ha contribuito a creare confusione sul significato che le proteste in corso in Israele hanno per i Palestinesi.
In realtà, non è la prima volta che gli israeliani scendono in piazza così numerosi. Nell’agosto 2011, Israele ha vissuto quella che alcuni hanno definito come la propria “primavera araba”. Ma anche in quel caso si trattava di una lotta di classe all’interno di confini ideologici ben definiti e di interessi politici che raramente si sovrapponevano a una lotta parallela per l’uguaglianza, la giustizia e i diritti umani.
In molte società del mondo esistono lotte socio-economiche duplici, e la loro conflittualità non è rara. Nel caso di Israele, tuttavia, tale confusione può essere pericolosa perché l’esito delle proteste israeliane, sia esso un successo o un fallimento, potrebbe stimolare un ottimismo infondato o demoralizzare chi lotta per la libertà dei Palestinesi.
Sebbene si tratti di gravi violazioni del diritto internazionale, gli arresti arbitrari, le esecuzioni extragiudiziali e le violenze quotidiane contro i Palestinesi avvengono per lo più all’interno dell’ambito giuridico israeliano. Tutti questi atti sono sanzionati dai tribunali israeliani, tra cui la Corte Suprema del Paese. Ciò significa che, anche se Netanyahu non riuscirà ad egemonizzare il sistema giudiziario, i civili palestinesi continueranno ad essere processati da tribunali militari, che, a loro volta, continueranno ad approvare le demolizioni di case, le confische illegali di terre e la costruzione di insediamenti.
Un impegno valido nelle proteste attualmente in corso è quello di smascherare ulteriormente il modo in cui Tel Aviv utilizza il sistema giudiziario per mantenere l’illusione che Israele sia un Paese di legge e ordine, e che tutte le azioni e le violenze in Palestina, per quanto sanguinose e distruttive, siano pienamente giustificabili secondo la legislazione del Paese.
Sì, Israele dovrebbe essere sanzionato, non per il tentativo di Netanyahu di cooptare la magistratura, ma perché il sistema di apartheid e il regime di occupazione militare rappresentano la completa inosservanza e la totale violazione del diritto internazionale. Che agli israeliani piaccia o meno, il diritto internazionale è l’unica legge che conta per una nazione occupata ed oppressa.
(Foto: israeliani protestano contro la riforma giudiziaria di Netanyahu. Hanay, via Wikimedia Commons).
Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi
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