Siria 2015, ovvero come il realismo vince ancora nel XXI secolo
L’accusa mossa dai turchi è che il bombardiere russo avrebbe sconfinato nel proprio spazio aereo, violandone così la sovranità.
Ankara ha anche affermato che più avvisi di allerta sono stati lanciati al pilota del Sukhoi (disponibile a questo link), caduti nel vuoto. Mosca al contrario ha negato questo fatto.
Errore del pilota? O esplicito tentativo russo di testare le capacità anti-aeree turche/NATO nel contesto siriano? O forse l’obiettivo russo era veramente all’interno dei confini turchi? Non lo sapremo mai.
Sta di fatto che a seguito di questo incidente la Russia ha risposto con una serie di misure “classiche” della diplomazia: ha richiamato l’ambasciatore turco a Mosca, ha annullato il viaggio del ministro Lavrov, ha sospeso la cooperazione militare, e la Duma (il parlamento) russo ha fatto richiesta per l’annullamento dei voli diretti con Ankara. Da tenere in conto che si tratta di decisioni temporanee.
Questi fatti hanno fatto seguito alle parole di Putin, il presidente russo, che ha parlato esplicitamente di “una pugnalata alle spalle ricevuta da un paese amico, complice del terrorismo” (accusa già mossa al G20 di Antalya). E che ha anche paventato “serie conseguenze” nei rapporti Russia-Turchia. Intanto Mosca ha schierato batterie di missili anti-aeree S-400 a Khmeimim, nei pressi di Latakia, e ha disposto che ogni bombardiere Sukhoi in missione venga scortato da un altro caccia.
Ankara ha invece fin da subito portato avanti la sua versione dei fatti: Davutoglu, il primo ministro, avrebbe dato personalmente l’ordine di abbattere il SU-24 a seguito dei ripetuti sconfinamenti. A poche ore dall’incidente poi Erdogan e Davutoglu hanno immediatamente convocato un consiglio straordinario dell’Alleanza Atlantica (NATO, di cui la Turchia è paese membro). Consiglio straordinario che ha ribadito il diritto turco a difendere il proprio spazio aereo e che ha anche cercato di gettare acqua sul fuoco della tensione tra i due paesi.
Nonostante i toni forti, la tensione sembra destinata a scemare nelle prossime settimane.
Viene da dire nell’interesse di entrambi i paesi, dato il forte interscambio economico-commerciale esistente (e il controllo turco del Bosforo, dove passano le navi russe dirette in Siria….) e a dispetto della diversità di vedute su Assad e su altre questioni (ad esempio sugli omicidi mirati dei servizi russi di esuli ceceni in Turchia…).
Certo è che la situazione siriana, e della tensione tra Turchia-Russia (al di là dell’incidente), va inserita all’interno della big picture della guerra civile in corso nel paese arabo da ormai più di 5 anni.
Big picture dove OGNI protagonista della guerra in Siria porta avanti i propri giochi sporchi (a questo link è possibile visionare una mappa del conflitto siriano in cui sono evidenti gli interessi contrapposti delle diverse coalizioni).
Tralasciando qui i facili entusiasmi dei molti che hanno letto l’intervento di Putin come il vero game-changer, è ora di ricredersi.
Nonostante dopo gli accadimenti di Parigi, Mosca sembri diventata partner NATO (vedi coordinamento con la Francia), la Russia è intervenuta in Siria per difendere i propri interessi. Putin punta a spostare la linea del fronte ribelle ora troppo vicino alle zone alawite del paese (dove poi Mosca possiede le sue facilities, Tartus-Latakia), per poi eventualmente sedersi al tavolo dei negoziati con delle carte “buone”, disposta anche a giocarsi Assad come agnello sacrificale. E nel fare ciò continua i bombardamenti delle zone a maggioranza ribelle e la copertura aerea delle avanzate lealiste. Ecco perché, nell’analizzare la mappa degli airstrikes dell’aviazione di Putin, si nota come le zone più battute siano quelle Hama/Idlib e quelle vicino al confine con la Turchia.
Zone al confine dove la Turchia persegue i propri fini. Qui fa da patron ai ribelli turcomanni anti-Assad, dove il flusso dei foreign-fighters è costante, e dove le perdite dei lealisti a danno dei missili TOW forniti da Turchia (e Arabia Saudita) è molto alto. E mantiene una zona grigia, dove punta a creare una safe-area per perseguire i propri interessi ed aumentare la sua proiezione di potenza: bilanciamento della minaccia YPG e sostegno attivo ai ribelli anti-Assad. Con annessi traffici di petrolio con Daesh/ISIS tramite intermediari della zona (petrolio comprato a buon mercato anche da forze lealiste, vedere inchiesta FT a questo link per credere). Per il Sultano Erdogan kurdi e Assad pongono la maggiore minaccia ai sogni di grandezza turchi, non ISIS.
In questo gioco a due, vanno inseriti gli altri protagonisti del conflitto.
Gli Stati Uniti.
Restii ad inviare soldati sul terreno, consci che un approccio soft alla questione siriana sia la cosa migliore. D’altronde ISIS/Daesh non è minaccia tangibile a interessi americani, e la deposizione di Assad rimane il vero risultato politico che gli States vogliono portare a casa.
Obama (nella conferenza stampa con Hollande dell’altro giorno), ha ribadito che la Turchia ha il diritto di difendere il proprio spazio aereo e che le azioni della Russia vanno meglio coordinate con quelle della coalizione. Essendone, almeno sulla carta, all’antitesi: i russi bombardano maggiormente i ribelli finanziati dagli States, mentre la coalizione batte più su Raqqa e Deir-Ezzor, con annesse installazioni petrolifere.
Gli stessi Stati Uniti, anche al G20 di Antalya, hanno ribadito la necessità di fermare il flusso di jihadisti dal confine con la Turchia. Ma per Obama la base di Incirlik, nel sud del paese, rimane fondamentale per le operazioni in Siria ed Iraq. E pare dunque disposto a chiudere un occhio con i “giochi sporchi” della Turchia.
Poi ci sono i paesi del Golfo e l’Iran.
Nel latente scontro sunniti contro sciiti entrambi usano i propri procuratori per combattersi, e utilizzano la Siria (come lo Yemen e l’Iraq, e il Libano di una volta) come cassa di risonanza per i loro interessi geopolitici.
Le monarchie del Golfo si sentono abbandonate dagli Stati Uniti, e sfruttano (e finanziano, con donors privati e ulema integralisti) Daesh come carta del malcontento sunnita per contrastare l’ascesa dell’arco sciita (Hezbollah, Iran, Siria). Ascesa, agli occhi sauditi, legittimata dall’accordo sul nucleare iraniano, che avrebbe dato un riconoscimento politico al regime degli Ayatollah.
Malcontento sunnita che ha raggiunto l’apice dopo l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, quando, alla dittatura di Saddam (sunnita), è seguito il passaggio di potere agli sciiti, esclusi fino ad allora. L’Iran ha avuto così gioco facile nello sfruttare a suo favore i presidenti iracheni (su tutti Nuri al Maliki), allargando la sua profondità strategica nella culla della civiltà babilonese.
La cosa ha alquanto esacerbato le tensioni settarie, abilmente sfruttate, in chiave anti-Iran, da sauditi e co. Nonostante tentativi di ricomposizione nazionale (il famoso surge di David Petraeus) l’Iraq è oggi un failed-state: i sunniti si rivolgono sempre più a Daesh come referente politico, mentre l’Iran puntella il paese di milizie sciite ai suoi ordini.
In Siria lo scontro è sullo stesso livello.
L’Iran sostiene Assad, testa di ponte verso i rifornimenti ad Hezbollah, che poi rimane il vero bargaining chip di Tehran nei confronti dell’Occidente, vedi minaccia posta ad Israele (e guerra del 2006).
I paesi del Golfo sostengono apertamente i ribelli sunniti, e, velatamente, Daesh. In un tipico gioco-a-somma-zero.
Fintantochè non vi sarà un accordo-politico di spartizione di influenza tra le due maggiori potenze islamiche (Iran e sauditi), o, nel peggiore dei casi, uno scontro all’ultimo sangue in una guerra (parliamo di due paesi che posseggono missili balistici continentali) che determini un vincitore, non vi sarà soluzione al conflitto siriano e agli altri conflitti regionali.
In ciò si inserisce Assad. La sua figura ambigua è la posta in gioco tangibile dello scontro in atto in Siria. Tutti, o quasi, chiedono la testa di Bachar. Iran ed Hezbollah, con la Russia sullo sfondo, ne decretano l’inviolabilità.
Se inizialmente la rivolta sembrava confinata in determinate zone, la brutalità della repressione del regime ha favorito la sua propagazione.
L’uso indiscriminato dell’aviazione e l’abuso di armi non convenzionali come i barili bomba (TNT assemblata con barili carichi di benzina, lanciati da elicotteri e fatti esplodere a mezz’aria) su aree ad alta densità civile (qui le immagini di Ghouta, est di Damasco) ha prosciugato buona parte dell’appoggio che Assad godeva da parte della comunità sunnita. D’altronde, nella “monarchia presidenziale” assadiana (Jumlukia in arabo, misto di Jumurya, repubblica, e Malakia, monarchia…), guidata da una minoranza alawita (un ramo della Shia’a), la cooptazione dei sunniti avveniva sulla base di un do ut des (allocazione di prebende e risorse, favori politici, rappresentanza, etc etc).
Almeno fino alla risposta violenta del regime alla rivolta, che ha spinto molti sunniti a prendere le distanze da Assad: l’intervento iraniano, ed Hezbollah poi, ha solamente acutizzato le tensioni settarie, riproponendo, nella percezioni di molti, uno scenario di aggressione sciita ai danni di una popolazione sunnita.
Assad è quello che ora ripropone la narrativa del suo regime come testa di ponte contro il propagarsi del terrorismo.
Ma, se torniamo indietro al 2003, anno invasione Iraq da parte americana, Assad liberava molti jihadisti dalla prigione di Sednaya per permettergli di fare la jihad contro l’invasore americano in Iraq. Così come, dal 2011 in avanti, amnistiava una serie di attuali comandanti delle maggiori formazioni jihadiste di stanza in Siria (Zahran Alloush, capo di Jaish al Islam, e Mohammed Haydar Zammar, comandante ISIS ma prima recruiter per gli attentatori del 9/11…).
Il tutto in un’ottica machiavellica di eclissamento delle proteste secolari e democratiche, così da presentarsi come unica alternativa all’islamismo radicale della fu democratica rivolta. Continuando, nel frattempo, ad uccidere 9 volte più di ISIS.
I kurdi sono la vera speranza. Ma lo sono per parte della Siria, quella del Rojava liberato.
E pongono due ordine di problemi: uno etnico ed uno militare. Arabi e kurdi infatti difficilmente trovano accordi di cooperazione sul campo, anzi, molti arabi accusano i kurdi di politiche anti-arabe, e molti kurdi vedono negli arabi potenziali collaboratori di Daesh.
Inoltre vi è la complicazione militare. I kurdi sono divisi al loro interno, tra formazioni filo-PKK, come l’YPG siriana del Rojava, e i kurdi iracheni, i cosiddetti peshmerga, più vicini all’agenda americana e lontani dal socialismo dell’YPG.
Ciò che complica ulteriormente le cose è lo scontro in atto in Turchia tra PKK e governo di Davutoglu. Detto ciò, grazie anche ai raid della coalizione a guida USA, YPG si trova oggi a 25km da Raqqa, quella che è considerata la capitale del califfato….
Un’ultima riflessione, a mo’ di conclusione.
Bisognerebbe iniziare a considerare le cose come stanno, quindi con una buona dose di realismo. Ciò significa interpretare i fatti per quello sono, non per come dovrebbero essere.
Una cooperazione reale, in Siria, così come nella guerra globale/al terrore (chiamatela come vi pare), tra gli stati, è impossibile.
Perché ognuno punta a perseguire la propria ragion di stato, che difficilmente collima con l’interesse generale. E, nel perseguire il proprio interesse, ogni stato presta grande attenzione all’equilibrio di potenza, ergo ai rapporti di forza e al sistema in cui sono inseriti. Dato questo assunto, cosa ne consegue?
Che la Turchia continua nella sua realpolitik di sostegno velato a ribelli+ISIS al confine in funzione anti-kurda e anti-Assad, conscia dell’importanza che riveste in questo frangente per States ed Europa (vedi anche gestione flussi rifugiati).
Che Putin va avanti nella difesa degli interessi russi in Siria, dipingendola come una crociata al terrorismo. Almeno finché non si troverà imbarcato nel pantano di una guerra stile-Iraq-2003.Che Gli States continuano a tenersi fuori, con la politica dei bombardamenti e dei drone strikes. E lasciando l’Europa e la NATO a gestire la situazione.
Che Iran e potenze del Golfo si scontrano sempre più aspramente in Siria ed in altri contesti regionali, ognuno portando avanti i suoi procuratori.
Che Assad persegue con la sua retorica di alfiere contro il terrorismo, bombardando i ribelli ma tenendosi al caldo la carta ISIS.
Che Israele guarda come spettatore interessato, mentre ISIS si rafforza sfruttando le divisioni e le contraddizioni del fronte contro di esso. E intanto insegue una strategia di guerra asimmetrica globale, con il suo brand in espansione tra i cinque continenti.
Questa situazione di equilibrio non sembra destinata a sbloccarsi nel futuro prossimo, dato l’onere relativamente basso nel mantenerla da parte degli attori. E costi limitati, come l’abbattimento di un jet, sono parzialmente accettabili in confronto ad un conflitto su più larga scala
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