Sul riconoscimento dello Stato Palestinese
Sembra che il clima geopolitico sia a favore dell’iniziativa palestinese, ma seri dubbi ad oggi permangono sulla sua fattibilità. In molti tra i palestinesi non ripongono fiducia in una proposta portata avanti da una leadership corrotta che non li rappresenta e che va a ledere i principi stessi del diritto alla resistenza. Ad ogni modo l’iniziativa potrebbe, con tutte le incertezze del caso, essere strumentale alla lotta nazionale e costituire il passaggio intermedio per la liberazione della Palestina; ma solo se letta come iniziativa volta alla realizzazione delle legittime rivendicazioni nazionali palestinesi, cosa questa tutt’altro che scontata.
Il contesto Mediorientale
I movimenti avvenuti nel mondo arabo ed etichettati come “primavera araba”, sono stati recepiti dall’opinione pubblica e dalla comunità internazionale come la possibile spallata finale all’occupazione sionista della Palestina e dunque come la possibilità della creazione di uno “stato” palestinese.
L’appoggio della comunità internazionale a queste rivolte risulta quantomeno strumentale e dunque, profondamente distante dalle aspirazioni popolari. Esempio lampante di questa distanza è quello del popolo egiziano che – prima in piazza Tahrir e poi davanti all’ambasciata israeliana – ha espresso tutta la sua rabbia contro il giogo sionista nell’area mediorientale; il governo egiziano ha risposto con una fortissima repressione a queste manifestazioni.
Lo stato sionista si trova attualmente isolato da parte dei suoi ex-alleati: l’Egitto e la Turchia stanno mettendo in discussione le loro relazioni strategiche, c’è comunque da tener conto del fatto che le manovre politiche di questi stati andranno valutate sul lungo periodo e che, ad oggi, non appaiono improntate al vero supporto alla lotta del popolo palestinese per la sua liberazione.
Anche le leadership ultramoderate dell’area, come la monarchia giordana, sembrano schierarsi contro lo Stato ebraico e in appoggio alla cosiddetta “dichiarazione di indipendenza dello stato di Palestina”.
La continua militarizzazione della Palestina
La cortina fumogena alzata per l’iniziativa di Abu Mazen non ha minimamente diminuito la violenza dell’esercito israeliano: in questi giorni il numero di militari stanziati è aumentato, si registrano sempre maggiori violenze da parte dei coloni contro la popolazione palestinese; l’esercito è stato impegnato nell’addestramento dei coloni.
Nella West Bank sono aumentati i check point e gli avamposti militari, mentre Gaza continua ugualmente a soffrire per la situazione di assedio, il valico di Rafah continua ad essere chiuso nonostante i mille proclami della cosiddetta giunta rivoluzionaria egiziana.
Una lampante dimostrazione dell’applicazione pratica della teoria sionista dei “facts on the ground” è la sottrazione continua di terra palestinese che vanifica praticamente qualsiasi velleità di Stato palestinese impedendone la continuità territoriale.
Il ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese
L’Autorità Nazionale Palestinese cerca un’affermazione politica internazionale, ma è ormai chiaro che non può rappresentare il popolo palestinese: non i Palestinesi di Gaza, non i milioni di profughi della diaspora.
La creazione dell’ANP risale ai fallimentari accordi di Oslo; ha poi finito per rappresentare la diretta filiazione delle volontà israeliane. Infatti, come svelato dai noti “Palestinian Papers”, da anni c’è una sempre più sciagurata politica di cooperazione tra l’ANP e le autorità militari israeliane, che si è concretizzata in una cooperazione di polizia per cui anche le stesse forze dell’ordine palestinesi si sono rivelate sempre più servili ai dettami sionisti. Quest’atteggiamento di servilismo si è ancor più manifestato con le ultime dichiarazioni di Abu Mazen: “Vogliamo delegittimare l’occupazione, non lo Stato di Israele, negozieremo da Stato a Stato” (come se ci fosse differenza tra “Israele” e occupazione).
Qui si ritorna ancora una volta alla legittimità e al riconoscimento dello stato israeliano nei confini del 1967, riconoscimento che né Hamas, né la sinistra rivoluzionaria palestinese sembrano intenzionati a concedere.
Nell’improbabile caso in cui le due entità (israeliana e palestinese) si trovassero a convivere nella Palestina storica, ciò implicherebbe, oltre l’improbabile riconoscimento dello stato ebraico da parte di tutte le fazioni palestinesi, anche una “rinuncia al terrorismo” (leggi: resistenza). Questi passaggi, anche se successivi all’improbabile riconoscimento, creerebbero non pochi disguidi all’interno delle fazioni palestinesi, tra chi ha già da tempo rinunciato ad ogni forma di lotta per affidarsi al fallimentare processo dei negoziati, e chi porta avanti quotidianamente la sua resistenza. Del resto queste differenze erano già emerse ampliamente nel processo di “riconciliazione nazionale” di pochi mesi fa, ad oggi bloccato sine die.
Le incertezze del riconoscimento e i diritti negati
Anche nell’improbabile ipotesi che la richiesta dell’Autorità Nazionale Palestinese alle Nazioni Unite venga accolta e porti alla creazione di uno “stato indipendente” sui confini del 1967, rimarrebbero irrisolte diverse questioni centrali, in primis la mancanza di continuità territoriale di questa entità. Nella West Bank sono presenti cinquecentomila coloni israeliani che oltre ad occupare illegalmente la terra di Palestina si sono appropriati delle risorse idriche e naturali, secondo la migliore tradizione colonialista.
Si vorrebbero, inoltre, sottacere le altre questioni fondamentali della lotta palestinese, quali lo status di Gerusalemme e il diritto al ritorno. Infatti, è quantomeno inverosimile che le autorità israeliane cedano anche soltanto a chi, come la leadership moderata palestinese, rivendica la sovranità solo sulla parte Est di Gerusalemme. La città è, infatti – tramite il Muro dell’Apartheid – inglobata allo stato ebraico che ha tutt’altro che intenzione di lasciarla ai palestinesi.
Riguardo invece il diritto al ritorno dei profughi del 1948, questo verrebbe negato in uno stato sulle linee del ’67, ma nessun rifugiato palestinese potrà mai accettare di vedersi negato un diritto inalienabile.
Le dichiarazioni in seno alle Nazioni Unite svelano un sempre più improbabile esito positivo del processo di riconoscimento: proprio in queste ore il governo statunitense cerca di prender tempo per bloccare l’iniziativa palestinese al Consiglio di Sicurezza e per convincere sempre più stati ad opporvisi. L’amministrazione Obama, che avvicinandosi alle presidenziali non può permettersi la perdita di appoggio dell’influente comunità ebraica statunitense, paventa sempre più la possibilità di ritirare il cospicuo sostegno finanziario all’Autorità Nazionale Palestinese; ritiro degli oltre 500 milioni di dollari che creerebbe non pochi problemi all’apparato di governo di Abu Mazen.
In questa ottica risultano grottescamente verosimili le dichiarazioni del Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton quando afferma (parlando dei negoziati come unica soluzione), che l’eventuale riconoscimento in seno alle Nazioni Unite non produrrà alcun tipo di cambiamento rispetto allo status quo. Difatti il riconoscimento probabilmente non rappresenterà nessun avanzamento significativo dei diritti dei palestinesi, ma ciò non sarà connesso al mancato utilizzo dei negoziati diretti. Questi ultimi sono sempre stati – e lo sono tuttora – l’arma dei sionisti e degli statunitensi per bloccare ogni tipo di autonomia della controparte palestinese.
Vantaggi e svantaggi. Riconoscimento come funzionale alle legittime aspirazioni del popolo palestinese?
Tra i palestinesi c’è chi, ormai stanco degli oltre 60 anni di lotta, soprusi e violenze, accetterebbe uno stato come quello che Abu Mazen vorrebbe riconosciuto dalle Nazioni Unite. Ma c’è anche chi, soprattutto tra i giovani, vede nella richiesta di riconoscimento dello stato palestinese nei confini del 1967 una normalizzazione ed un tentativo di fermare la lotta palestinese per uno stato unico in tutta la Palestina storica.
A tal proposito, si possono leggere le dichiarazioni del Palestinian Youth Movement.
Il “riconoscimento” avrebbe, anche se fosse votato solo dalla maggioranza dell’Assemblea Generale e non dal Consiglio di Sicurezza in cui gli Stati Uniti hanno già garantito il veto, indubbi vantaggi giuridici come l’accesso alle istituzioni garanti del diritto internazionale, come la corte dell’Aia o la richiesta di attuazione delle innumerevoli risoluzioni di condanna dello stato ebraico.
Ma questi “vantaggi” diventerebbero risibili se fossero utilizzati, come è stato fino ad oggi dalla corrotta leadership palestinese, per mantenere lo status quo e non mettere in discussione l’occupazione e i confini del 1948. Devono invece andare a rafforzare le istanze della resistenza palestinese. Solo in questo modo possono essere portate avanti le legittime aspirazioni del popolo palestinese di diritto al ritorno e all’autodeterminazione.
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