Torino: uno sciopero ed una piazza per fermare la guerra e costruire la pace
Il dato dal quale partire nel contesto di una mobilitazione contro la guerra, contro il carovita e contro le devastazioni pensiamo sia la questione della propaganda mediatica. Dimensione che oggi crea lo spazio di legittimità per le istituzioni di poter perpetrare un’operazione di peace washing sistematicamente atta a silenziare il dissenso e a creare consenso su una narrazione falsa.
Da un lato, la necessità di costruire una forza che possa squarciare il velo di ipocrisia, dall’altro la convinzione che questa guerra, come tutte le guerre, sia un crimine da fermare, hanno portato alla scelta di scendere in piazza collettivamente perché ognun* di noi può fare qualcosa. Il Consiglio d’Europa riunitosi ieri alla Venaria Reale è chiaramente l’espressione di un’Europa capace di collaborare soltanto per aumentare la spesa degli stati in materia di armamenti, il fatto che la presenza dei ministri degli Esteri a Torino abbia fatto sì che il centro rimanesse inagibile per una giornata intera non ha avuto consensi da parte di nessuno. Nelle strade, nei bar, la gente si chiedeva “ma perché?”. Perché devono stare qui, perché dobbiamo utilizzare i soldi delle nostre tasse per pagare forze dell’ordine che presidiano un centro fantasma. Perché per una settimana abbiamo dovuto sentire sulle nostre teste il volo di un elicottero che si esercitava per sorvolare il vertice spendendo 600€ al minuto. Per una settimana.
Il 20 maggio è stata anche una giornata di sciopero. Uno sciopero contro la guerra ancora troppo circoscritto per poter essere incisivo ma che ha colto un giusto nodo. Quando la parte produttiva del nostro paese rifiuterà di lavorare in condizioni di sfruttamento si darà un’occasione reale di fermare scelte indiscriminate che ci conducono verso una traiettoria devastante. È chiaro che la pratica dello sciopero debba essere sostanziata dalla possibilità di farlo. La nostra parte oggi si scontra con una dura vita. L’unica certezza è che bisogna pagare, pagare e ringraziare.
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Torino si presenta come una città pioniera di un nuovo paradigma, il sindaco Lorusso si mostra come un ottimo esecutore delle volontà del governo. Un paradigma basato sulla mangiatoia PD che dei soldi del patto di Draghi e dei soldi del PNRR per colmare il debito cittadino, creato dal suo stesso partito, ne sta facendo un piatto ricco per i privati e per chi ancora lo vota a suon di baracconate e grandi eventi. Tutto questo ieri è stato portato in piazza secondo le parole chiave “Fermiamo la guerra, costruiamo la pace”. Sin dalla mattina in occasione dello sciopero convocato dai sindacati di base sono state organizzate diverse iniziative. Davanti alla microtecnica di piazza Graf si è tenuto un presidio e un volantinaggio per denunciare e opporsi alla produzione di armi, agli investimenti del PIL in questo ambito, scelta che sottrae fondi ben più prioritari e da pretendere come garanzia per la sostenibilità e la vivibilità.
In via Puglia davanti ai cancelli dell’Iveco si è tenuto un picchetto da parte delle lavoratrici e dei lavoratori in vertenza contro la ditta Meridiana che non ha intenzione di reintegrarli a seguito dello spostamento di sede della produzione e contro un colosso come Iveco che lascia fare senza garantire il posto di lavoro a persone che da più di dieci anni vi lavorano.
Al pomeriggio piazza Castello si è riempita di interventi contro la guerra con la chiara intenzione di continuare un percorso comune, iniziato con la piazza del primo maggio, per costruire un fronte collettivo che pretende di essere preso in considerazione contro la guerra e per un futuro giusto. Moltissimi i giovani e le giovani in particolare attenti ai temi dell’ecologia, del femminismo, dei bisogni e delle istanze inattese. Questioni all’ordine del giorno soprattutto in un momento in cui a Torino studenti e studentesse stanno vivendo un forte attacco portato avanti da questura, procura e amministrazione a seguito delle mobilitazioni degli scorsi mesi. Studenti in carcere, studenti inascoltati, picchiati e sbattuti via.
Un clima di un paese che si sta muovendo su un crinale al limite, assumendosi la responsabilità di contribuire a un’escalation di una guerra devastante che sta trasformando i disequilibri mondiali esasperandone la violenza e la condanna a chi dalle scelte dei governi non ci guadagnerà mai niente. La piazza di ieri ha dimostrato chiarezza e condivisione nell’analisi di questa fase ma anche la necessità, ancora inespressa, di allargare e ad essere espressione di un’ampia fetta sociale che, seppur sommessamente, mostra rifiuto per la guerra e le sue conseguenze umane, ecologiche ed economiche. Questo non significa che la scommessa sia sbagliata, anzi, significa che la sfida è ancora più alta. I loro mezzi sono pesanti ma la ragione è dalla nostra. L’altezza si situa nella diffusione della consapevolezza che si possa prendere in mano il proprio presente e il proprio futuro, oltre che nel fatto che le condizioni di vita siano sempre più strette e insopportabili.
Nota di colore. In una città che fa della militarizzazione e del silenziamento delle lotte il suo cavallo di battaglia allo stesso tempo la ridicolaggine di cui si ricoprono è sconfinata. Come quando hanno chiamato i pompieri per togliere lo striscione “Fermiamo la guerra costruiamo la pace” affisso su Palazzo Reale durante il presidio.
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