
Torturato Marwan Barghouti
Il noto prigioniero politico palestinese Marwan Barghouti è stato aggredito brutalmente dalle guardie carcerarie israeliane, secondo le informazioni trasmesse alla sua famiglia. La famiglia: «Vogliono intimorirci». Il figlio Sharaf: «Gli avvocati hanno chiesto di vederlo. Potrebbero volerci due giorni o dei mesi». L’intimidazione dopo il lancio della campagna globale per il leader palestinese
di Chiara Cruciati, da Osservatorio Repressione
La prigionia assume forme differenti in Palestina: ci sono le botte e ci sono le intimidazioni. Difficile saperne di più quando la vittima è in isolamento totale da oltre due anni. Ieri la famiglia di Marwan Barghouti, il più noto e amato leader palestinese, vertice di Fatah, prigioniero politico dal 2002, condannato a cinque ergastoli, ha lanciato l’ultima di tante denunce dopo aver ricevuto la telefonata – arrivata da un numero israeliano – di un presunto ex detenuto appena rilasciato: Marwan è stato picchiato di nuovo. Il pestaggio più duro che gli avrebbe fatto saltare i denti, rotto le costole e tagliato un orecchio.
LA FAMIGLIA ha subito reso nota la telefonata e avvertito gli alleati politici, a partire da Ofer Cassif, deputato israeliano comunista alla Knesset: «La famiglia spera si tratti solo di un intimidazione – ha detto Cassif – Spero lo sia, un’intimidazione diabolica». Hanno provato a richiamare quel numero, più volte. Nessuna risposta. «La notizia non è verificata – ci dice uno dei figli del leader palestinese, Sharaf Barghouti – Potrebbe trattarsi di una notizia falsa, un modo per intimidirci. Uno “scherzo” da parte israeliana per farci preoccupare».
La famiglia ha subito dato mandato agli avvocati di verificare. I legali – come fanno da anni – hanno chiesto a Tel Aviv conferme e di poterlo vedere: «È molto difficile fargli visita, gli avvocati stanno aspettando il via libera – continua Sharaf – Potrebbero volerci due giorni come dei mesi. Possiamo solo sperare». Di Marwan Barghouti, dei suoi due ultimi anni di galera e isolamento, si sa pochissimo.
Almeno cinque pestaggi subiti dal 7 ottobre e innumerevoli intimidazioni, dall’ultima guardia carceraria al più alto in grado, il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. Lo scorso agosto, in uno dei suoi vergognosi tour nelle carceri palestinesi, si è fatto riprendere in video mentre minacciava Barghouti, in piedi di fronte a lui con le mani legate.
Visibilmente dimagrito, spossato, è apparso un gigante davanti a un ministro che lo minacciava di morte. È stata la sua prima immagine pubblica da anni. E, a oggi, l’ultima.
Che la telefonata di ieri sia stata una denuncia reale o una falsità che riaccende un dolore mai sopito, resta intatto l’obiettivo: intimorire i Barghouti e chi, insieme a loro, ha rilanciato a livello globale la campagna per la sua liberazione. In Italia, con decine di migliaia di firme e l’impegno di associazioni storiche, dall’Arci all’Anpi, da Assopace a Pax Christi fino al Global Movement for Gaza e a Gaza Freestyle.
E fuori, con l’appello di centinaia di artisti e intellettuali: Annie Ernaux, Margaret Atwood, Brian Eno, Arundhati Roy, Massive Attack, Pedro Almodóvar, Sally Rooney, tra gli altri, lo hanno fatto inviando una lettera all’Onu e chiedendo di fare quanto fu fatto per il Sudafrica dell’apartheid. Una rinnovata campagna globale che segue a settimane di speranze tradite, quelle dell’ultima fase del negoziato tra Israele e Hamas, che aveva inserito Barghouti nella lista dei detenuti da liberare. Tutto annegato nel piano trumpiano, frutto di nessun negoziato ma di un’imposizione unilaterale di Israele e Stati uniti.
IL DESTINO DI BARGHOUTI è condiviso, collettivo. Le sue condizioni di prigionia assomigliano a quelle di 21mila palestinesi della Cisgiordania e migliaia di gazawi arrestati e detenuti dopo il 7 ottobre. Fame, umiliazioni, pestaggi e abusi sessuali, corpi contenuti in tre metri quadri senza materassi né coperte, una quotidianità denunciata dallo stesso ufficio della difesa pubblica di Israele, appena due giorni fa, in un rapporto che definisce le torture strutturali e sistematiche. Sono almeno cento i palestinesi morti in custodia in 26 mesi, ma il numero è dato da molti osservatori come gravemente sottostimato.
Le carceri sono luoghi di morte e tortura, buchi neri che ingoiano decine di migliaia di vite, specchio della disumanizzazione dei palestinesi come politica di Stato. E gli arresti di massa non si fermano, 570 in Cisgiordania solo nel mese di novembre, una media di venti al giorno, che si accompagna a operazioni militari (ieri un altro palestinese, il 38enne Bahaa Rashid, ucciso vicino Nablus mentre usciva da una moschea) e violenze dei coloni. Senza contare Gaza che anche ieri piangeva altri ammazzati dai droni oltre la linea gialla.
In un video della campagna FreeMarwan, la voce di uno dei figli accompagna il volo di un drone sopra la gigantografia realizzata nel villaggio di origine di Barghouti, Kobar: «Per tanti è un leader. Per me è semplicemente mio padre. Non lo abbraccio da 24 anni…È in isolamento da due anni, picchiato, ferito, minacciato pubblicamente non perché sia pericoloso ma perché rappresenta unità e speranza. E la speranza è sempre stata la peggiore minaccia per l’oppressore».
Liberate subito Barghouti, liberate tutti i e le prigionieri/e palestinesi!
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