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Twitter nel mirino di Erdogan, ma la pistola è scarica

E dallo scorso mese arriva ad un punto decisivo, con la promulgazione di una nuova direttiva sul web – firmata anche dal presidente Gul – che inasprisce la precendente legge 5651, stabilendo la possibilità per la TIB (l”authority turca delle telecomunicazioni di nomina governativa) di bloccare l’accesso a qualsiasi sito web.

Un’evoluzione che ora appare rivolta a combattere la diffusione in rete di registrazioni compromettenti per il primo ministro – che a gennaio avevano portato al blocco del sito SoundCloud, su cui erano ospitate; ma anche per porre i presupposti per lo Stato di allestire una sorta di NSA locale, ed accedere alle informazioni riservate delle aziende operanti in territorio turco.

E’ in questo contesto che matura l’odierno attacco a Twitter: a seguito di un violento discorso del premier tenuto ieri durante un comizio elettorale a Bursa (“Abbiamo ora un’ordine giudiziario. Sradicheremo Twitter. Non mi importa di ciò che dice la comunità internazionale. Ognuno sarà testimone della potenza della Repubblica Turca”), dalla mezzanotte scatta il blocco del sito da parte dei vari provider locali, così come le minacce di estenderlo ad altri servizi come Facebook e YouTube.

Un tentativo che ora dopo ora si sta rivelando essere stato progettato male, implementato peggio e diretto verso esiti catastrofici per il primo ministro ed il suo entourage.

La reazione degli internauti turchi, già avvezzi alle tattiche censorie utilizzate in passato dall’AKP, e pronti ad accogliere a dovere le nuove misure, è stata immediata. Dalla semplice diffusione di DNS alternativi (veicolata in rete tra chat e social network, e persino tramite scritte murarie) alla segnalazione di VPN, proxy e reti di anonimato come TOR, il volume di tweet si è sì ridotto ad un terzo della media giornaliera, ma un terzo dell’ammontare di mezzo milione di tweet: decisamente troppo per far parlare di successo del blocco. E con gli hashtag #TwitterisblockedinTurkey e #TurkeyBlockedTwitter balzati rapidamente in testa ai trending topic mondiali. Infine, il blocco non ha funzionato nemmeno per il servizio di tweet tramite SMS, risultato  perfettamente agibile.

Anche l’AKP stesso si è mosso in maniera scomposta: non solo il presidente Gul (pur firmatario della sopracitata direttiva censoria) ha preso le distanze dal blocco auspicandone la breve durata, ma lo anche fatto tramite un tweet. Ad altri dirigenti dell’AKP che continuavano a twittare, come il sindaco di Ankara, sono stati sarcasticamente chiesti i DNS dagli internauti inferociti; mentre c’è stato chi ha ricordato l’utilizzo del social network da parte del governatore di Istanbul Hüseyin Avni Mutlu per congratularsi con le forze di polizia dopo le cariche contro i partecipanti ai funerali di Berkin Elvan.

Altro lampante segnale di debolezza della compagine istituzionale è sul fronte dell’assunzione di responsabilità: nonostante la discrezionalità conferitale dalla legge, la TIB ha annunciato di aver implementato il blocco per ottemperare all’ordine della Procura di Istanbul citato dal premier nel suo discorso. Per poi essere smentita da Metin Feyzioglu, capo dell’Unione delle Associazioni Forensi Turche, secondo il quale – a fronte di recenti cambiamenti normativi – la Procura stessa non avrebbe posseduto più titolo ad emettere quell’ordine.

Mentre si aggiunge al coro la condanna pelosa dell’Unione Europea, e in vista delle elezioni locali – che vedono il potere di Erdogan in bilico, soprattutto ad Istanbul, e l’ombra del predicatore Gulen stagliarsi sempre più vicino al presidente Gul dal suo ritiro statunitense – la piazza e la rete del paese euroasiatico continuano ad attrezzarsi telematicamente e materialmente contro un sultano ormai alle corde…

 

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