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Il clima c’è

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In Italia infine si fa un gran parlare di ambiente. I giornali dedicano a questo tema prime pagine e approfondimenti, i politici fanno a gara ad intestarsi la lotta contro il cambiamento climatico per rifarsi una verginità. Peccato che spesso questi siano gli stessi che per anni hanno contribuito ad inquinare il paese nel nome dello sviluppo e della crescita. 

Questa gara spudorata è spia di una consapevolezza che, con un certo ritardo tocca ammettere, sta arrivando anche in Italia: i cambiamenti climatici porteranno a una catastrofe prima ambientale, poi economica e infine sociale e di civiltà. 
Una consapevolezza che coinvolge soprattutto i giovanissimi, cioè coloro che pagheranno direttamente le scelte sconsiderate del passato. Proprio per questo fa paura alla politica e produce opportunismo.

Di lotte ambientali in Italia ve ne sono state fin dagli anni ’60, ’70 e sarebbe utile riannodare i fili con questa storia: prima contro le nocività sui posti di lavoro e nei quartieri popolari, poi sul tema del nucleare e della tutela del territorio e infine contro le grandi opere inutili. Quest’ultime in particolare, e soprattutto il TAV in Val di Susa, sono scottanti tematiche di attualità. Il balletto dell’informazione mainstream e dei partiti su questa questione la rende indigesta persino a chi ha lo stomaco forte e l’abitudine a questi trattamenti. Ma perché la questione del TAV e delle grandi opere inutili è stata ed è così centrale? 

Perché materializza su dei territori generalmente più poveri della media e già martoriati la violenza del modello di sviluppo esistente nel nostro paese. Un modello di sviluppo in cui un’imprenditoria parassitaria viene mantenuta in vita artificialmente attraverso iniezioni di denaro e finanziamenti statali che ricambia volentieri elargendo donazioni ai partiti. Questi predatori fanno un gran parlare di crescita e sviluppo, ma la crescita che agognano è solo quella dei loro portafogli. È palese che ormai la crescita, intesa come aumento del PIL, è completamente sganciata dai salari e dai posti di lavoro. Gran parte degli investimenti finiscono dalle parti della finanza e non c’è nessun ritorno per i settori popolari del nostro paese di un’ulteriore sfruttamento dei territori. Lo dimostrano i salari sempre più compressi e il potere d’acquisto delle famiglie sempre più basso, ben prima della crisi. 

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La questione ecologica irrompe con prepotenza portando inevitabilmente con sé proprio questo tema: la domanda vera è cosa si intende per sviluppo? Si intende anche qui la crescita esponenziale dei profitti o lo sviluppo come società umana verso un futuro migliore?

Molti di quelli interessati a mantenere lo Status quo obbietteranno, ma cosa centrano le grandi opere con il cambiamento climatico? Altri più subdolamente sosterranno che opporsi all’alta velocità vuol dire essere a favore del trasporto su gomma, come se già non esistesse un treno che attraversa la Val Susa e che è decisamente sotto utilizzato.

Per rispondere a questi tocca introdurre un concetto urgente di cui si parla pochissimo e cioè quello del debito ecologico. Con debito ecologico si intende lo spreco di risorse, di carburanti fossili, di energia e si dovrebbe aggiungere di lavoro umano che la costruzione di un dato oggetto, di un’opera o l’elargizione di un servizio comporta. Quasi ogni attività umana oggi produce questo debito, che è immenso, ma alcune attività sono in grado di ripagarlo, mentre altre no. Dunque per tentare di evitare la catastrofe del cambiamento climatico sarà necessario rivedere l’intera sfera della produzione e in alcuni casi per produzioni particolarmente insostenibili dismetterla. 
Un debito ecologico che parlando delle opere inutili si affianca a un debito economico e sociale salatissimo. Miliardi di euro sprecati che potrebbero essere investiti in altro, compresa la transizione ecologica e un maggiore welfare. Migliaia di persone subiranno le nocività della costruzione di queste opere senza spesso poterne nemmeno usufruire. Il climatologi parlano chiaro. Abbiamo solo pochi anni, è tempo di ridurre non certo di aumentare. 

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Il fatto profondo che è necessario cogliere è che oggi non ci si può dire ambientalisti, non si può lottare contro i cambiamenti climatici senza essere contro la mercificazione imperante dei territori, degli oggetti e dei corpi delle persone. O si mette una fine all’accumulazione spietata dei profitti di pochi capitalisti e si redistribuisce la ricchezza, l’accesso alle risorse e il potere di decidere a chi vive i territori oppure si marcia intruppati verso la catastrofe. A niente serve la green economy se questo vuol dire solo altra privatizzazione e sfruttamento delle risorse, altri magazzini pieni di merce stoccata, altro aumento dei flussi, altro accesso differenziale all’energia, altro consumo del territorio.

Questo è quello che non ammetteranno mai i media, i politici, le madamine SI TAV e gli imprenditori. Essi utilizzano la questione del TAV come leva per non interrompere il flusso dei profitti. Lotta di classe dall’alto, miope e idiota, come quella di chi non si rende conto che la tempesta sta arrivando. 

Due date importanti nei prossimi giorni potranno essere un primo momento per mettersi in gioco: il 15 marzo con lo sciopero globale per il clima a fianco dei molti studenti e studentesse che in tutto il mondo daranno vita a iniziative contro il cambiamento climatico e il 23 marzo con la marcia nazionale per il clima e contro le grandi opere inutili e la devastazione ambientale a Roma. 

Tocca a chi ha a cuore il futuro ribaltare questa leva, riprendere in mano da protagonista il proprio destino e il potere di decidere. Il clima c’è.

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