L’addio al nucleare del Giappone
Evidentemente il disastro nucleare di Fukushima ha contato molto nell’innesco di questo processo creando ampi dibattiti e portando una parte consistente della popolazione a schierarsi contro il nucleare. Da parte sua il governo rende pubblici i dati che evidenziano un aumento dell’importazione di combustibili fossili, che significa diminuzione dell’autonomia energetica del paese, e sull’aumento della produzione di elettricità dalle centrali termoelettriche. Intanto da parte governativa e dalle società produttrici di energia nucleare viene utilizzato lo spettro dei mercati finanziari e del PIL, creato dall’ideologia neoliberista per riportare la popolazione e le amministrazioni locali a più miti consigli: si agita lo spauracchio di una diminuzione della crescita economica se il Giappone non dovesse tornare all’utilizzo delle centrali nucleari. Il momento di verifica per la resistenza anti-nucleare viene visto nell’estate, quando la richiesta di diminuzione dei consumi energetici dei cittadini comporterà l’impossibilità di utilizzare i condizionatori.
Nonostante l’altro shock atomico nella coscienza popolare, quello delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, il Giappone era un convinto sostenitore dell’energia nucleare (tanto da avere 54 reattori all’interno dei propri confini) nel tentativo di inseguire un illusorio mito del progresso, un intreccio di economia, scienza e tecnologia, che in questo caso passa anche per il raggiungimento dell’autonomia energetica. L’infallibilità della tecnologia intesa come buona a prescindere, la desiderabilità dello sfruttamento senza criterio del territorio e delle persone che vi abitano, la ricerca ostinata del profitto (ma per chi?) sono tutti elementi presenti nel sogno nucleare che si sono concretizzati, come una sorta di contrappasso, nel disastro del marzo 2011, nell’evacuazione di un’ampia porzione di territorio, nella contaminazione radioattiva di aria, acqua e suolo, mettendo in crisi questo mito di progresso.
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