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Messina: l’inganno del ponte

Mark Twain ha detto un giorno che «è molto più facile ingannare la gente, che convincerla che è stata ingannata».

di Domenico Gattuso, da Volere la Luna

Forse è arduo, dunque, da parte mia riuscire a smentire questo assunto. E provarci per giunta con riferimento a una struttura che taluni non esitano a definire come la più grande opera d’ingegneria mai costruita. Il Ponte sullo Stretto di Messina dovrebbe essere il più lungo al mondo (3,3 km fra due pilastri di estremità), dovrebbe consentire il transito di mezzi gommati e treni ad alta velocità, resistere a terremoti in grado di radere al suolo le città sulle due sponde, determinare il decollo economico della Sicilia e della Calabria, dare concretezza a una città metropolitana dello Stretto accostando Sicilia e Calabria, dare lustro universale all’Italia e attirare milioni di turisti.

In questi mesi questa narrazione circola prepotentemente sui media nazionali, sostenuta da lobby agguerrite e affamate di profitti, da giornali e giornalisti che martellano l’opinione pubblica con articoli scadenti e di parte, con il fine di far passare un desiderio di pochi come un pensiero dominante e condiviso da tutti.

In realtà il progetto del ponte sullo Stretto rappresenta un grande inganno a danno dell’intera comunità nazionale e una forma di inganno becero perché le conseguenze di un progetto del genere potrebbero essere devastanti da molti punti di vista, in particolar modo per Calabria e Sicilia.

Nel corso del tempo molti calabresi e siciliani stanno acquisendo nuova consapevolezza della partita in gioco; e chi si batte per scongiurare l’ipotesi progettuale del ponte lo fa con nuovi strumenti di comunicazione, non ci si limita più a un contrasto di natura ideologica, si delinea invece la rivendicazione di una forma di sviluppo alternativa ed efficace per il territorio, peraltro anche abbordabile/fattibile in termini di costi e di tempo di realizzazione. In sintesi si afferma l’opportunità di un’alternativa di progetto fatta di opere utili e sostenibili, diffuse su un ampio territorio, capaci di imprimere una svolta decisiva alla crescita equilibrata e traducibile in servizi di trasporto in ottica di bene comune. Anziché una sola grande opera strutturale che potrebbe crollare prima di essere completata e che quali impatti rilevanti avrebbe un profitto considerevole per pochi, un danno ambientale per una delle regioni più belle del pianeta, una ricaduta economica rovinosa per la comunità.

In termini più specifici (e un po’ tecnici) si propongono alcune considerazioni che ho già avuto modo di esplicitare in diverse occasioni di studio e dibattito pubblico:

– atteso che non bisogna fare confusione tra viadotti e ponti (i viadotti hanno piloni che poggiano su fondali poco profondi e sono poco distanti), il ponte sullo Stretto di Messina avrebbe una luce di 3,3 km, assai più ampia di qualunque altro mai realizzato al mondo; la distanza massima fra due pilastri di estremità è stata ottenuta con il ponte Çanakkale Bridge, aperto sullo Stretto dei Dardanelli (Turchia) nel 2023, con una campata unica di 2 km;

– ad oggi sono davvero pochi i ponti strallati di grandi luci in grado di consentire il transito di mezzi sia gommati che ferroviari; il record attuale è di appena 1,38 km (Ponte Tsing Ma, ad Hong Kong). Il transito di un convoglio ferroviario pone problemi di stabilità delicati e i rischi di svio sono elevati in relazione anche alla snellezza dell’impalcato (rapporto tra sezione di struttura e lunghezza di luce); inoltre i raccordi ferroviari in pendenza e con curvature accentuate imporrebbero una velocità di circolazione ridotta; in pratica la compresenza di treni e autoveicoli è un azzardo;

– la capacità del ponte di resistere a terremoti di straordinaria intensità in grado di radere al suolo le città sulle due sponde è rappresentata come un motivo per rassicurare la gente sulla tenuta della struttura. Anche se fosse, e così non è, sarebbe tuttavia assai grave ed irresponsabile non aver agito per prevenire un simile fenomeno sul territorio dello Stretto o limitare i danni di una catastrofe con decine di migliaia di vittime solo per battere un vacuo record;

– dovrebbe invece esservi maggiore consapevolezza circa i termini di sicurezza nella duplice accezione anglosassone: safety e security. Nel primo caso ci sarebbe da stare molto cauti atteso che azioni combinate di forze agenti sul manufatto, in particolare le azioni imprevedibili del vento, potrebbero fare oscillare pericolosamente l’impalcato, al punto che si prefigura uno stop al transito dei veicoli in tali circostanze (purtroppo il vento non avvisa con largo anticipo i casellanti); e una incauta gestione della manutenzione asservita all’abbaglio del profitto (vedi ponte Morandi a Genova) potrebbe produrre un dramma di immani proporzioni. Nel secondo caso (security), sarebbe opportuno rimarcare che in caso di conflitti politici e armati, il ponte sarebbe un ovvio e facile bersaglio da colpire per una banda di kamikaze, terroristi o mafiosi, facendo scempio in un attimo dell’infrastruttura e dei disgraziati civili in transito, bruciando un fantastico simbolo della cultura neoliberista come cartapesta;

– i promotori del ponte affermano che la sua realizzazione potrebbe determinare il decollo economico della Sicilia e della Calabria, dare concretezza a una città metropolitana dello Stretto accostando le due regioni come non ci fosse più il mare. Il primo assunto è tutto da dimostrare, molti studi autorevoli evidenziano l’assenza di correlazione diretta tra ponte e sviluppo economico. Di recente il ministro delle infrastrutture, per banale propaganda pro-padana, ha sbandierato uno studio (OpenEconomics) che dimostrerebbe addirittura come i maggiori impatti economici positivi ricadrebbero sulla Lombardia (PIL generato dal ponte tre volte superiore alla Sicilia). La gente di Messina, di Reggio Calabria e di Villa S. Giovanni comincia a comprendere che il ponte, con i suoi raccordi lunghi, costituirebbe un vero e proprio by-pass che contribuirebbe a marginalizzare l’agglomerazione metropolitana dello Stretto, senza alcun effetto cucitura. Ciò è suffragato da numerose esperienze concrete; ed è facile intuire che i costi di viaggio (temporali e monetari) fra Reggio e Messina sarebbero assai maggiori di quelli odierni, essendo il pedaggio previsto per i veicoli pari a quello pagato per il transito via nave (40-60 euro per un’auto, oltre 100 per i TIR);

– qualcuno si spinge a dire che l’ardita opera di attraversamento potrebbe dare lustro universale all’Italia e all’ingegneria nazionale e attirare milioni di turisti affascinati come nel caso della Torre Eiffel o della Statua della Libertà. Di certo i turisti starebbero ad osservare il manufatto da terra o viaggiando in barca, non certo correndo sull’impalcato chiusi in macchina. L’attrattiva turistica andrebbe rapportata al contesto metropolitano ed è assai difficile paragonare Parigi o New York all’area dello Stretto, dato che quest’ultima è stata lasciata allo sbando da un secolo di politiche urbanistiche, sociali ed economiche deleterie;

– un altro mito da sfatare è quello dei rilevanti flussi di traffico che potrebbero circolare attraverso il ponte. A parte l’effetto negativo in termini di inquinamento determinato da una crescita sostanziale dei mezzi gommati, la verità è che, nonostante stime gonfiate artificiosamente dai progettisti venti anni fa, il grado di saturazione della carreggiata nelle ore di punta di un giorno medio non andrebbe oltre il 20%, ovvero la capacità dell’infrastruttura sarebbe ampiamente sovradimensionata e al di fuori di ogni logica tecnico-economica. É da aggiungere che i trend di traffico si sono rivelati decrescenti nel corso degli anni (basta andare a leggere le statistiche relative agli ultimi 30 anni: le merci, dalla e verso la Sicilia, viaggiano sempre più via mare e le persone preferiscono di gran lunga l’aereo); lo sanno bene i grandi gruppi della finanza mondiale, che non si fidano e infatti non osano avanzare alcuna proposta di cofinanziamento (l’esperienza bruciante del tunnel in project financing sotto la Manica ha insegnato qualcosa);

– falsi sono anche i potenziali di occupazione prefigurati dai promotori del ponte. I livelli occupazionali sarebbero minimi, trattandosi solo di manodopera specializzata ed essendo molte attività affidate alle macchine; la principale fonte di lavoro per le maestranze locali sarebbe rappresentata dai movimenti terra, con centinaia di camion, che dovrebbero dare seguito a un’operazione di sventramento del territorio dello Stretto senza precedenti al mondo;

– i costi di realizzazione dell’opera sono alquanto ballerini, variano da un mese all’altro, ma in crescendo. In fase esecutiva in Italia i costi delle infrastrutture crescono significativamente, come insegna l’esperienza della ferrovia ad alta velocità e di alcune autostrade, raggiungendo valori esagerati e che non hanno uguali nel mondo occidentale; ma quel che è peggio è che, a dispetto della corsa forzata e della propaganda, con tutti i rischi del caso, non esiste una reale copertura finanziaria dell’opera, né da parte del Governo italiano né da parte della Commissione europea;

– si ha ragione di pensare che una volta ancora abbiamo a che fare con una chimera per allocchi; e non conforta certo la credibilità del ministro delle infrastrutture, piuttosto facilone nel cambiare opinioni nel tempo (No ponte/Si ponte; Contro il Sud/A favore del Sud; Si Putin/No Putin; No Ucraina/Si Ucraina; Si zone 30/No Zone 30…).

Il progetto del ponte sullo Stretto di Messina è un progetto calato dall’alto, che nasce vecchio (lo stesso del 2011), concepito come un’opera fortemente onerosa e speculativa. Un progetto avulso da logiche di pianificazione territoriale e dei trasporti, da un sano processo di dibattito pubblico, non rispondente ai dettami della normativa europea in termini di valutazioni di impatto economico, finanziario ed ambientale. In particolare è tutta da dimostrare la sostenibilità dell’opera secondo le procedure aggiornate dettate dalla UE. Il tema non può essere trattato da tifosi, richiede competenze e lungimiranza.

La domanda che cittadini, autorità di governo e tecnici dovrebbero porsi è: «cosa serve realmente per migliorare le condizioni di vita della comunità meridionale e le relazioni tra le regioni del Mezzogiorno, in un’ottica di sostenibilità ed equità sociale?».

Sono stati proposti da me e da altri studiosi degli scenari alternativi che potrebbero dare risposte più abbordabili, a costi più contenuti e con impatti distribuiti su un ampio territorio. Ciò che appare strano è che i promotori del ponte non abbiano neppure considerato simili opzioni, e tanto meno operato simulazioni modellistiche e analisi comparative di impatto, come sarebbe d’obbligo in una lungimirante pianificazione territoriale e dei trasporti. Non mi pare vano riaffermare che le risorse della comunità vanno spese per apportare vantaggi concreti alla popolazione, in primo luogo per l’area metropolitana dello Stretto, e non alle lobby del cemento o della finanza, rispettando l’ambiente in tutti i sensi e i princìpi del bene comune.

Una domanda provocatoria, infine, su cui nessuno pare voglia porre attenzione: invece di costruire un’opera megagalattica, costosa e rischiosa, perché non impegnare un po’ di fondi per potenziare il trasporto marittimo con una flotta di navi di proprietà pubblica, eliminando il costoso pedaggio per i veicoli ed allineando la tariffa al costo di transito in autostrada (25 centesimi a km)?

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