Molinari, “Repubblica” e le armi di distrazione di massa
Le affermazioni di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, che il 10 ottobre durante la trasmissione televisiva “Mezz’ora in più” di Lucia Annunziata, ha sostenuto che «i no Tav sono un’organizzazione violenta, quanto resta del terrorismo italiano degli anni 70» (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/10/15/e-allora-le-foibe-e-allora-i-no-tav/), sono balordaggini meritevoli di querela. E Molinari è stato giustamente querelato da alcune centinaia di cittadini No Tav, con un’azione collettiva e solare che rispecchia lo spirito del Movimento (https://volerelaluna.it/tav/2021/11/18/direttore-di-repubblica-noi-intanto-ti-quereliamo/). Anche chi scrive ha sottoscritto la querela pur senza particolari aspettative da parte di una magistratura che in questi anni si è distinta per parzialità con conseguente archiviazione di molte denunce e querele presentate da cittadini del Movimento no Tav.
Di Giovanni Vighetti per Volere la Luna
Era necessario rispondere prontamente alla provocazione. Ma, querela a parte, è necessario cercare di capire le motivazioni di questa ingiuria perché Maurizio Molinari non è uno sprovveduto, e il suo intervento a gamba tesa e sensibilmente fuori contesto dall’argomento della trasmissione, potrebbe rientrare in una strategia più complessa dove il trentennale progetto della tratta ad Alta Velocità Torino Lione, ancora in fasce malgrado la sua obsoleta età, viene utilizzato come “arma di distrazione di massa” rispetto ai reali problemi che stanno alla base del declino della Città metropolitana di Torino, che vanno individuati nella continua svendita del suo patrimonio industriale e che non saranno certo risolti con una ferrovia che, nella migliore delle ipotesi, trasporterà merci prodotte altrove che andranno altrove.
Molinari non è stato nominato soltanto direttore di Repubblica; è anche direttore editoriale del Gruppo Gedi, scalato e rilevato da Exor, la holding finanziaria con sede in Olanda della famiglia Agnelli-Elkann, che controlla e condiziona un ampio settore dell’informazione: Repubblica, La Stampa, L’Espresso, Huffington Post, oltre una serie notevole di giornali e radio locali. E il controllo dell’informazione, resa omogenea ed omologata, è un passaggio essenziale per formare e condizionare l’opinione pubblica e per stroncare qualunque forma di opposizione sociale (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2021/11/19/no-tav-una-querela-contro-larroganza-del-potere/).
Restando a Repubblica, la fotografia della sua involuzione sta in due istantanee: l’empatia tra il giornalista Carlo Rivolta e i movimenti sociali degli anni ’70 e l’antipatia di Paolo Griseri che al contrario, fino a un anno fa (data della sua promozione a vicedirettore de La Stampa) ha martellato, spesso in maniera pregiudiziale, le ragioni del movimento no Tav. Il futuro del quotidiano, con John Elkann presidente di Gedi e il fidato Molinari direttore, sarà l’uscita dall’area progressista con un progressivo scivolamento nell’area centrista.
Vale la pena ricordare due episodi che spiegano bene il nuovo corso editoriale made in Exor che si sta affermando nel giornale che, storicamente e pur con limiti e contraddizioni, rappresentò un’interessante informazione liberal socialista attenta ai diritti e, in alcuni anni, un buon giornalismo d’inchiesta. Primo episodio. La nomina di Molinari alla guida di Repubblica è scattata il 23 aprile 2020, giorno in cui avrebbero dovuto concretizzarsi le minacce neofasciste di morte nei confronti del direttore Carlo Verdelli, oggetto di una violenta e macabra campagna d’intimidazione, il cui licenziamento ha rappresentato anche una forma di mancata solidarietà che fa rabbrividire. A seguire ci sono stati il prepensionamento via e-mail del vice direttore Sergio Rizzo e di altre firme storiche come Federico Rampini; altri giornalisti se ne sono andati in polemica o per il disagio conseguente al nuovo corso: Roberto Saviano, Gad Lerner, Enrico Deaglio, Bernardo Valli, Pino Corrias, Luca Bottura, Irene Bignardi, Curzio Maltese, Attilio Bolzoni. Senza contare gli addii di Lucia Annunziata all’Huffington Post e di Alessandro Gilioli a l’Espresso. Il secondo episodio riguarda lo stop deciso dal neodirettore alle critiche espresse dal Comitato di redazione all’informazione, acritica e favorevole, fornita dal quotidiano in occasione del generoso prestito a Fca di 6,3 miliardi erogato da Intesa San Paolo e garantito dallo Stato, nel senso che eventuali inadempienze nella restituzione del prestito saranno coperte con soldi pubblici. Non male per Fiat/Fca che, dopo essere stata più volte agevolata e salvata dallo Stato con una montagna di soldi pubblici, non ha esitato a spostare la sede legale in Olanda e quella fiscale in Inghilterra.
Ma su Repubblica e La Stampa, è impossibile leggere articoli di critica rispetto alla linea di John Elkann che ormai privilegia, rispetto al capitalismo industriale, quello finanziario, nel quale al primo posto ci sono le operazioni in borsa e i profitti degli azionisti a discapito di investimenti nella ricerca/progettazione necessari per la continuità produttiva e occupazionale nel settore dell’automotive. È proprio questo il punto: l’automotive made in Italy, fondamentale nell’economia piemontese e nazionale, sta smobilitando. Settori produttivi importanti vengono venduti per fare cassa. Nel 2018 la cessione della Magneti Marelli alla giapponese Calsonic Kansei per circa 5,8 miliardi di euro ha garantito, insieme, il pagamento di un dividendo straordinario di 2 miliardi di euro agli azionisti e incertezze occupazionali ai lavoratori. Infatti, al di là delle vuote rassicurazioni del duo FCA Manley-Elkann, oggi l’ex gioiello del made in Italy, diventato Magneti Corp, è minacciato da una forte riduzione del personale. Anche la storica palazzina Fiat del Lingotto è in vendita ed è un pezzo della storia industriale di Torino che, ingloriosamente, finirà sul mercato immobiliare. A Mirafiori come a Melfi prosegue l’emorragia dei posti di lavoro con accordi su prepensionamenti e licenziamenti con incentivi, che solo nella cintura torinese riguarderanno circa 800 lavoratori. Lo stabilimento della Maserati di Collegno viene chiuso con trasferimento della produzione a Mirafiori ma, denuncia la Fiom, «in assenza di un piano generale che Stellantis non ha fornito». E poi c’è tutto l’indotto auto che dovrà affrontare sfide di riorganizzazione importanti su un terreno scivoloso e “giocando in trasferta” perché la fusione Fca-Psa, che ha generato Stellantis, vede sul piano industriale più debole la prima (principalmente interessata all’aspetto finanziario), mentre la seconda (più forte per la presenza diretta tra gli azionisti dello Stato francese, molto più attento di quello italiano nella difesa della propria industria) privilegerà l’indotto e l’occupazione transalpina. Del resto molti commentatori di questo accordo sottolineano che, più che di una fusione, Stellantis è il risultato di un’acquisizione di Fca da parte di Psa.
Ecco, di tutto questo a Torino non si deve parlare. La città perde l’industria che ne ha determinato lo sviluppo e che oggi ne segna la crisi, ma una classe politica, inadeguata e subalterna agli interessi degli eredi dell’Impero Agnelli, sa solo parlare di sì Tav, di un treno che non potrà mai essere il motore di sviluppo in un’area deindustrializzata e politicamente debole.
In questo deserto di analisi sul declino industriale della Città metropolitana di Torino i media del gruppo Gedi svolgono diligentemente il loro compito: minimizzano la crisi industriale celebrando i magnifici dividendi di Exor e dintorni e usano la Torino-Lione come “arma di distrazione di massa” dalla crisi dell’automotive. La criminalizzazione chi si oppone all’inutile linea ad alta velocità tra Torino e Lione è anche una logica conseguenza di questa strategia.
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