Una Marcia per la Terra: un grande grido di liberazione
Abbiamo intervistato le compagne e i compagni di Mondeggi Bene Comune, tra le realtà che hanno contribuito alla costruzione della Marcia della Terra che si terrà a Firenze domani in occasione del G20 sull’Agricoltura. Buona lettura!
Come è stata vissuta dal mondo contadino questa pandemia?
La percezione e l’impatto della pandemia nel (e sul) mondo contadino hanno attraversato diverse fasi nell’arco di tempo intercorso tra la prima “comparsa” del virus e la situazione attuale.
Bisogna innanzitutto premettere che quando parliamo di “mondo contadino” parliamo di una molteplicità d’esperienze, contesti e dimensioni, spesso molto differenti tra loro. Risulta difficile riassumere il vissuto e le difficoltà incontrate nei diversi territori in una situazione così impattante e inedita come quella che da più di un anno ha stravolto le nostre esistenze. È, ad ogni modo, possibile riscontrare dei punti di vista e delle difficoltà comuni incontrate da tutte le reti contadine e tutti i piccoli produttori e produttrici che operano al di fuori della GDO. Proveremo a rispondere, sulla base della nostra esperienza all’interno del nodo di Genuino Clandestino Firenze, soffermandoci su due piani diversi: il primo riguarda come è stata vissuta la pandemia da un punto di vista materiale, ovvero, cosa ha significato per il mondo contadino a livello pratico; il secondo riguarda come è stata vissuta dal mondo contadino la pandemia da un punto di vista sistemico. Partiamo dal primo aspetto. Inizialmente, gli effetti delle misure d’emergenza adottate dall’alto per contenere i contagi, sono stati devastanti per le piccole e medie realtà contadine. Mentre la GDO continuava a lavorare a pieno ritmo (registrando un aumento medio delle vendite di più dell’11% solo tra secondo e quarto trimestre del 2020) i mercati contadini e rionali venivano sospesi, senza prevedere alternative di alcun tipo per chi da questi mercati dipendeva per vendere i propri prodotti. La chiusura dei mercati contadini e l’impedimento di qualsiasi forma di approvvigionamento del cibo alternativa a quella della grande distribuzione hanno evidenziato ulteriormente (la già acclarata) cecità dei governi di fronte a tematiche quali l’accesso a cibo locale e sano, nonché di fronte alle piccole realtà che coltivano la terra e producono alimenti prendendosi cura del territorio, dei terreni, dell’ambiente in cui lavorano e vivono. Come se non bastasse, con un decreto uscito l’11 Marzo, veniva impedito anche di recarsi in terreni al di fuori del proprio domicilio, considerando l’autoproduzione alimentare e la cura dei terreni come un hobby a cui poter rinunciare. Risultava piuttosto difficile in questa prima fase pensare che fosse per il bene e la cura della collettività ostacolare i mercati, impedire di recarsi nella natura e passare tempo all’aria aperta, interrompere tutto ciò che non veniva considerato (abbastanza) produttivo. A Firenze, la nostra risposta alle difficoltà che stavamo incontrando come piccoli produttori e produttrici è stata dar vita ad un percorso, quello del Coordinamento delle Comunità Contadine Toscane(CCCT) per unire le voci e i bisogni, di chi come noi, si trovava impossibilitato a proseguire le proprie attività.Ci siamo mobilitate, come è avvenuto anche a Bologna e in altre città, per la riapertura dei mercati, rivendicando il ruolo sociale e collettivo dei mercati contadini nel contesto urbano. Questo percorso (oltre a farci ottenere la riapertura dei nostri mercati a Firenze) ci ha fatto incontrare tantissime altre contadine e contadini del nostro territorio, che si sono avvicinate/i per condividere le proprie difficoltà ed aprire nuovi mercati.
Tornando invece al secondo aspetto, quello della percezione sistemica della pandemia nel mondo contadino, è importante evidenziare come l’emergenza Covid abbia reso ancora più evidenti i limiti e la tossicità della vita in contesti urbani sempre più inquinati, più affollati, più dipendenti da input esterni per il proprio sostentamento. Chi, per scelta di vita o per lavoro, si è trovato a vivere in campagna e ad avere una seppur minima autonomia alimentare, ha vissuto indubbiamente in forma meno drammatica le misure di contenimento del virus. Questo ci ha spinto a riflettere ulteriormente sui nostri luoghi di vita, sul perché il maggior numero di casi si registrasse proprio nelle aree più urbanizzate ed inquinate, sulla capacità dei nostri corpi e degli ambienti in cui viviamo di rispondere ai rischi, sul nostro stato di salute, su come possiamo ripensare la vita delle nostre comunità perché l’accesso alla terra e ad un cibo sano, alla natura, ad ambienti privi di nocività, all’autodeterminazione alimentare possano diventare alla portate di tutte/i.
E’ acclarato il nesso tra i salti di specie dei virus, l’agroindustria e la deforestazione. Eppure la tendenza è quella ad un ulteriore approfondimento di queste pratiche. Cosa potete dirci di questi processi? Cosa significano per il mondo contadino?
È sempre più evidente e innegabile che i nostri ecosistemi siano scompensati, contaminati, in bilico verso un punto di non ritorno.
Cos’è un ecosistema? Nel libro Biosfera, l’ambiente che abitiamo, Enzo Scadurra definisce l’ecosistema come una porzione delimitata di biosfera, definita come massimo ecosistema, luogo singolare dove si è sviluppata la vita. L’ecologia è la scienza che studia la biosfera, i suoi cicli, le sue componenti, le sue relazioni, le sue fragilità e le sue forze.
I nostri rapporti dominanti con la biosfera, hanno da tempo abbandonato un approccio ecologico – nel suo significato più profondo di studio delle interconnessioni– nei confronti del mondo che ci circonda e delle nostre interazioni con esso, a partire dal soddisfacimento dei nostri bisogni di base, primo tra tutti l’alimentazione. L’agroindustria e gli allevamenti intensivi, che a partire dalla seconda metà del secolo scorso hanno sostituito le pratiche e i saperi dell’agricoltura tradizionale, sono infatti tra i principali responsabili del consumo di suolo, di deforestazione, di contaminazione delle acque e impoverimento dei terreni, di perdita di biodiversità (vegetale e animale), di emissioni inquinanti e climalteranti. Non bisogna andare molto lontano dai nostri luoghi di vita per osservare questi processi, ci siamo immersi ogni giorno.
L’agricoltura chimica industriale e la grande distribuzione sono solo uno dei settori che, tra i tanti, contribuiscono alla crisi ecologica, ma assumono un’importanza fondamentale perché determinano la qualità, la natura e i processi produttivi del cibo che compriamo e consumiamo ogni giorno.
La biosfera è come un grande organismo, di cui ogni essere vivente e ogni elemento naturale costituiscono una cellula, e come un grande organismo è estremamente sensibile allo stato di salute delle sue componenti e al funzionamento dei propri cicli biologici. Le attività antropiche, incluse l’agricoltura e la produzione agroalimentare, alterando gli habitat, immettendo sostanze nocive nell’ambiente, cercando di ottenere sempre maggiore produttività, mettono a repentaglio il corretto funzionamento di questi cicli, fondamentali per l’auto-regolazione degli ecosistemi. Ad una fragilità degli ecosistemi, non può che accompagnarsi una fragilità della salute umana e una crescente incapacità di trovare ostacoli efficaci alla diffusione di malattie e virus. Habitat scompensati sono più soggetti e vulnerabili ad elementi di disturbo (epidemie, organismi infestanti, eventi atmosferici estremi), così come un corpo umano inserito costantemente in un ambiente malsano. È di queste profonde interconnessioni che dobbiamo riappropriarci.
I processi di degradazione ecologica che stanno interessando tutti gli ecosistemi del mondo, li viviamo sulla nostra pelle nel lavoro quotidiano della terra, con un clima sempre più imprevedibile ed estremo, con la preoccupante scomparsa degli impollinatori, con i residui di sostanze nocive nelle acque. Ma quello che proviamo a dimostrare con le nostre pratiche, ispirate ai principi dell’agroecologia (che integra appunto l’approccio dell’ecologia all’agricoltura), è che è possibile produrre cibo rispettando la terra e i suoi organismi, e che la nostra salute è indissolubilmente legata anche alla salute degli ambienti in cui il nostro cibo è prodotto.
Purtroppo, nonostante le promesse e il sempre più diffuso utilizzo di termini come sostenibilità, crisi climatica e resilienza, i governi e le organizzazioni governative internazionali continuano a non prendere posizioni o misure nette per porre fine in maniera univoca alle nocività e alle tossicità dell’agroindustria, né per avviare radicali transizioni dei sistemi agroalimentari verso nuove forme di produzione.
Sempre più spesso si pone il tema dell’etica di ciò che mangiamo e di come questo influisce sulla nostra salute e sulle condizioni in cui versa il pianeta. Eppure spesso questo dibattito diventa uno strumento con cui il capitale apre nuovi mercati di nicchia portando sugli scaffali dei supermercati cibi salutari a cui possono avere accesso solo le fasce della popolazione più agiata. Come affrontare questo dilemma?
Il punto di questo dilemma, assolutamente realistico e problematico, parte ancora prima dello scaffale del supermercato. È il fatto stesso che la normalità di ciò che troviamo nei supermercati sia cibo di bassa qualità, pieno di sostanze nocive per la salute nel lungo periodo, prodotto con lo sfruttamento di chi lavora nella GDO e delle risorse naturali, e che il cibo buono, naturale e locale debba essere considerato quasi un lusso, una specialità piuttosto che la norma. Insomma, non dovrebbe nemmeno esistere una contrapposizione tra un cibo economico ma nocivo ed uno più costoso ma sano. Sta proprio qui il ricatto tra accessibilità (costo) del cibo e salute. Qui entrano in gioco molteplici fattori, primo tra tutti la determinazione del prezzo e i modi di produzione. Il cibo spazzatura, costa così poco perché prodotto su scale talmente grandi da abbattere i costi di produzione, logistica e gestione. Sono prezzi falsati dall’enormità della produzione e dalla competitività del mercato globale. I marchi e i brand che riforniscono la grande distribuzione sono dei giganti tali da abbattere qualsiasi possibile competizione e controllare il mercato agroalimentare. Ma dietro i bassi prezzi della maggior parte dei prodotti che troviamo al supermercato si nascondono tutti i costi della davastazione che portano con sé a livello ambientale, di costi sanitari per le malattie legate all’alimentazione, dello sfruttamento dei lavoratori e dei braccianti nei campi.
Le piccole produzioni non possono competere con le regole di questo mercato. Partono da una situazione di svantaggio totale di fronte alla produzione globalizzata su larga scala, che non viene minimamente colmata dalle istituzioni che dovrebbero correggere le storture e gli orrori del “libero mercato”. Le soluzioni a questo dilemma potrebbero essere molteplici, ma tutte dovebbero partire da un assunto di base: non deve essere chi acquista il cibo a pagare le spese (sia economiche sia fisiche) di un sistema malato.
In un’ottica di lungo periodo, bisognerebbe fare in modo che l’agricoltura naturale e agroecologica diventassero la norma e non un settore di nicchia in cui la scarsa offerta e l’elevata domanda portano a prezzi così elevati. Bisogna stravolgere il paradigma agroalimentare secondo cui l’unico modo di sfamare il pianeta è quello dell’agricoltura chimica e intensiva. Ma non solo, è necessario intervenire a sostegno delle contadine e i contadini, per incentivare le produzioni benefiche per i territori e per le comunità umane, e per permettere alle piccole attività di sopravvivere senza dover imporre prezzi proibitivi. Spesso, oltretutto, i prodotti biologici che troviamo ai supermercati nei loro bei packaging di plastica, sono certificati con procedimenti talmente superficiali e aggirabili, che l’attendibilità della certificazione lascia troppo spesso a desiderare. È l’intero modello di produzione e distribuzione agroalimentare che va scardinato, dalle fondamenta, per non essere più costretti a scegliere se risparmiare e ammalarci o comprare un cibo “sano” (laddove il biologico del supermercato lo sia realmente) che non possiamo permetterci. Perché i prezzi del cibo contadino possano anche solo avvicinarsi a quelli della GDO sono necessarie misure di intervento per colmare l’immenso divario e la concorrenza sleale di questi due mondi, con l’obiettivo di far scomparire la base stessa del problema nel lungo periodo.
Quali sono gli indirizzi politici che si discuteranno al G20 agricoltura a Firenze?
Al G2O di Firenze, che si terrà nelle giornate 17-18 Settembre, i temi di discussione delineati dalla Presidenza italiana del G20 saranno principalmente i seguenti: la sostenibilità nei sistemi alimentari, l’agricoltura sostenibile in tempo di emergenza sanitaria globale, la ricerca come motore della sostenibilità, l’obiettivo fame zero e infine il contributo del G20 al Vertice delle Nazioni Unite sul sistema Alimentare.
Il consiglio del G20 è coadiuvato da scienziati ed esperti d’agricoltura che, in via preparatoria, individuano obiettivi strategici e criticità da sottoporre ai ministri internazionali. Nelle riunioni preparatorie per il G20 del 17-18 Settembre si è delineata la necessità di parlare della resilienza dei sistemi agroalimentari e della sostenibilità a fronte della crisi climatica. Come si legge dalla pagina ufficiale del G20 ITALIA, “i delegati G20 hanno posto al centro del dibattito il ruolo della ricerca e dell’innovazione e del trasferimento delle conoscenze tecnologiche come strumenti per assicurare sostenibilità e resilienza, discutendo di tracciabilità digitale e di nuove tecniche di miglioramento genetico”. Purtroppo dichiarazioni come questa non possono non rimandarci allo scenario che da anni tanto l’UE quanto le altre organizzazioni e summit internazionali ci stanno propinando: quella di un’agricoltura 4.0, digitalizzata, dell’ingegneria genetica, dell’agroindustria dipinta di verde, che non sembra fare alcun passo indietro rispetto al modello del produttivismo e della massima resa. Si tratta di portare avanti il business as usual, con qualche miglioria per usare meno sostanze tossiche (non eliminarle, sia chiaro) e stampare qualche bollino bio in più per migliorare i dati nazionali e internazionali. Ma non è di questo che abbiamo bisogno per fermare i danni irreparabili che l’agricoltura industriale globalizzata sta provocando sul nostro pianeta. È sempre più evidente l’inconsistenza e l’inefficienza dei summit governativi internazionali nel rispondere con l’urgenza necessaria alle crisi che stiamo attraversando. Si continuano a mettere piccole toppe verdi a squarci enormi e insanabili.
Nel frattempo la maggior parte degli stati membri del G20 continua a produrre, permettere l’applicazione e l’esportazione di pesticidi chimici con comprovati effetti dannosi per la salute e l’ambiente. Giusto per citarne alcuni, basti pensare che l’Italia è il secondo paese europeo per export di pesticidi il cui us è vietato in UE per la loro tossicità. La Germania, è responsabile per oltre il 10% dell’esportazione globale di pesticidi vietati in UE al di fuori dei confini comunitari. Gli Stati Uniti, dal canto loro, sono solo la sede delle principali aziende produttrici di pesticidi ed erbicidi chimici esportati in tutto il mondo.
E gli obiettivi invece della Marcia per la Terra? Ci spiegate brevemente come è nata l’iniziativa e qual è il programma?
L’idea della Marcia per la Terra nasce diversi mesi fa, dallo stimolo dell’arrivo della Carovana zapatista in Europa. Nasce per iniziativa del movimento di resistenza contadina Genuino Clandestino, con il coinvolgimento di decine di comitati e lotte territoriali, con la volontà di accogliere la Gira Zapatista marciando insieme per la Terra e per la vita di tutti i suoi abitanti, di portare i nostri corpi e le nostre voci dalla città alle campagne, in un grande grido di liberazione contro la devastazione delle terre di tutto il mondo e lo sfruttamento e l’oppressione che la grande macchina produttivista del capitalismo impone a tutte le latitudini, in ogni settore e contesto. Anche se non sarà possibile camminare fianco a fianco con le compagne zapatiste, scenderemo comunque in piazza per contestare il G20, per portare nelle strade la Nostra Agricoltura, contro quella che i ministri dei venti stati più influenti al mondo vogliono imporre sulle nostre teste.
Il nostro è un appello “ai popoli della terra, alle organizzazioni contadine nazionali ed internazionali, a tutte le persone che lottano sul posto di lavoro, nelle città, nelle province, al mare o in montagna, ai movimenti ecologisti ed a tutti i comitati di lotta contro le devastazioni ambientali, per l’acqua, i boschi, i campi e le montagne, per il fuoco dei loro cuori. A coloro che non voltano lo sguardo di fronte alle ingiustizie. All’EZLN e la carovana por la vida. A tutt* coloro che sognano altri mondi possibili”.
Sarà una marcia pacifica, movimentata e colorata, che ci vedrà dare le spalle alla città dove i potenti dell’agricoltura parleranno del futuro dei nostri ecosistemi nelle sale di Palazzo Vecchio, per dirigerci simbolicamente verso altri modi di pensare il concetto stesso di agricoltura, verso nuove relazioni tra comunità umane e ambiente. L’obiettivo è quello di portare alla luce del sole tutte le realtà, le soggettività e le pratiche che con i loro saperi e le loro attività costruiscono ogni giorno i presupposti per un’alternativa concreta all’agroindustria e all’agribusiness. Cammineremo insieme per prendere le distanze dalle false promesse dei G20 che parlano di agricoltura sostenibile senza i contadini. Partiremo da Firenze (Piazza Poggi) alle 14.00 per dirigerci verso le terre occupate della Fattoria senza Padroni di Mondeggi Bene Comune, dove da anni, attraverso la riappropriazione e la custodia popolare della terra, si sperimentano forme di autonomia alimentare, agroecologia, mutualismo e solidarietà. A seguire, nella giornata di Domenica, a partire dalle 10, sempre alla Fattoria di Mondeggi ci saranno tavoli di confronto e dibattito su agroecologia e pandemia, resistenze contadine e ambientali, creazione di autonomia nel nostro contesto economico e sociale.
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