2 giugno. Puzza di colonia
Celebrazioni eccezionali quest’anno per il 2 giugno in occasione del 150 anniversario dell’unità d’Italia. Ha sfilato la storia, con soldati in carne ed ossa retrodatati, protagonisti delle guerre d’indipendenza, della prima guerra mondiale, della seconda.
C’erano pure rappresentanze della lotta di Liberazione. Ma il clou, il tono vero alla festa lo hanno dato due avvenimenti sostanziali. Hanno sfilato le truppe coloniali.
E poi, quasi a tacitare l’affermazione del presidente Napolitano che ha detto: «Siamo un presidio di pace», hanno tracciato il cielo di bianco-rosso e verde le Frecce tricolori, gli stessi cacciabombardieri che solo un anno fa volavano nel cielo di Bengasi in onore di Gheddafi, «esempio per tutta l’Africa» diceva il ministro degli esteri Franco Frattini.
Come se non bastasse, il tutto alla presenza quest’anno di tanti capi di stato. Primo fra tutti di quell’Hamid Karzai che, vedendo sfrecciare i bombardieri nell’aria, dev’essersi sentito un po’ a «casa». Dopo la sua conferenza stampa di due giorni fa a Kabul, quando ha minacciato di dichiarare le truppe della Nato «occupanti» dell’Afghanistan se non fossero cessati subito i raid aerei della Nato. Quelli che non fanno altro che seminare di cimiteri di civili il suolo afghano, deleggittimando ancora di più la sua immagine e insieme il senso di quella guerra che la coalizione occidentale conduce dall’ottobre del 2001.
Che bello vedere sfilare le truppe coloniali, a cento anni esatti dall’occupazione italiana della Libia. Proprio nei giorni in cui l’Alleanza atlantica invece che lasciare una guerra della quale non si capisce più lo scopo e la fine, raddoppia fino a settembre la missione di bombardamenti aerei. La stessa Alleanza che conduce il blocco navale libico e che invece di «proteggere» abbandona a mare i profughi disperati. Siamo in guerra, alla faccia della Costituzione. Per i raid in Afghanistan i comandi italiani partecipano, con il coraggio della distanza, all’indicazione dei target nel super-comando unificato di Tampa, in Florida. E le missioni di bombardamento sulla Libia – con l’intento non dichiarato di uccidere Gheddafi, colpendo invece qui e là civili ed insorti – sono diventate 3.500. Con l’Italia che, a sorpresa, arriva prima di Francia e Gran Bretagna ai rapporti economici con Bengasi, e il gommoso Frattini porta Unicredit e Eni a offrire fondi in attesa delle nuove concessioni. Siamo, disattenti, in guerra. Vale a dire nel sistema che trasforma il senso della realtà: un solo F-35, il cacciabombardiere di ultima generazione che l’Italia co-produce – ne acquisterà 130 – costa 78milioni di euro, cioè l’equivalente di tremila salari lordi di dipendenti del ministero della sanità o dell’istruzione.
Che bello il colore coloniale. Come nel romanzo Casse-pipe di Louis-Ferdinand Céline, che bello quello sferragliare militare che sfila sudaticcio e trionfale, quel caos di carne, cannoni e cavalli. Ancora negli anni cinquanta e sessanta (ma perfino settanta) c’erano alcune insegne di negozi che proponevano «prodotti coloniali». Rivogliamo le oasi coi datteri Balilla, ridateci Giarabub, ridateci le sigarette Africa che puzzano di Cirenaica, ridateci il karkadè.
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