A Carlo Picchiura
Salvatore Ricciardi, che lo conobbe solo in carcere, e del quale parla lungamente nel proprio libro Maelstrom editato nel 2009 da Deriveapprodi pur chiamandolo sempre C., ricorda “i tanti anni condividendo la stessa cella e la sua passione per la montagna, gli uccelli e per la natura tutta” e Barbara Balzerani ha riferito su FB di una recente e bella giornata trascorsa insieme a sorseggiare quel vino che amava e collezionava, altri hanno scritto “per noi Picchi era come Prospero (riferendosi alla morte avvenuta nel gennaio di quest’anno di Gallinari)”, Mariella Altomare, sempre su Fb, oggi scrive “Conserverò sempre il ricordo della sua intelligenza illuminante e mai esibita. Ciao Carlo Picchiura rivoluzionario (Gigi)”, e così via…
Ma Carlo Picchiura, nato a Brescia, è stato per la storia di quegli anni, i “suoi” anni, un combattente comunista tra i più tosti, anche se la narrativa di maniera, che da sempre si ferma ai soliti noti, ben poco di lui ci ha tramandato.
Già nei primi anni settanta è tra i principali militanti della “sezione” veneta di Potere Operaio dalle cui ceneri, come noto, nasceranno, dopo lo scioglimento del 1973, molti dei più significativi movimenti autonomi di una delle regioni più attive in quella successiva e generale insurrezione che avrebbe attraversato l’Italia nel finale del secolo scorso, ma lui decide, a differenza di altri, di entrare quasi subito nella più importante organizzazione armata, che aveva già posto in essere alcune eclatanti azioni di guerriglia urbana.
Alessandro Naccarato, deputato PD ed autore del libro “Violenze, eversione e terrorismo del partito armato a padova” (ed. il Mulino, 2008), nel corso di una intervista rilasciata al Mattino di Padova del 30 novembre 2008 afferma che “Il primo v di qualità nella strategia eversiva è il patto tra i Gap di Feltrinelli, le Br e Pot Op, con la nascita del Gruppo Ferretto a Mestre. Là, secondo la testimonianza di un dirigente della colonna veneta delle Br, Michele Galati, militarono Carlo Picchiura, Susanna Ronconi, Pietro Despali, Ivo De Rossi, Giuseppe Zambon, Massimo Pavan, Roberto Ferrari e un tale di Verona soprannominato Sherif, poi identificato per Martino Serafini. Esaurita la prima fase, il gruppo entra nelle Br e rafforza la colonna veneta costituita nel 1974, la cui direzione comprendeva Giorgio Semeria, Prospero Gallinari, Roberto Ognibene e Fabrizio Pelli. Il Gruppo Ferretto fu quindi la prima esperienza di cooperazione tra militanti di Pot Op e militanti Br sul terreno della lotta armata”.
Secondo il pentito Fioroni invece avrebbe anche fatto parte del commando di brigatisti che il 17 giugno 1974 uccise i missini Mazzola e Giralucci nella sede padovana di Via Zabarella, ma sarà una delle tante “inesattezze” del “professorino”, giacchè in sede giudiziaria verrà appurato che il padovano presente (oltre a Ognibene, Pelli, Ronconi e Semeria) era Martino Serafini, e non lui.
Arrestato a Ponte di Brenta (insieme allo studente Pietro Despali) il 4 settembre del 1975, nel corso di un conflitto a fuoco seguito ad un posto di blocco, dove muore l’agente Antonio Niedda, in tasca gli vengono trovate due banconote relative ad una precedente rapina commessa alla banca di Lonigo insieme ad uno dei principali dirigenti delle BR Rocco Micaletto, ai tempi già ricercato e latitante. Condannato a 26 anni di reclusione dalla Corte di Assise di Padova il 1 giugno 1977, affronta quella lunghissima trafila degli speciali di quegli anni, da dove tuttavia continua imperterrito, unitamente ai detenuti del nucleo storico delle BR, la sua battaglia rivoluzionaria, che in quegli anni, come noto, si faceva anche dentro le carceri e non solo fuori.
Nel dicembre del 1980 infatti è tra i principali organizzatori della celebre rivolta di Trani scaturita dal sequestro D’Urso, che fu l’ultimo episodio significativo delle Brigate Rosse ancora unite prima delle definitive spaccature interne degli anni successivi, ma ancora nel 1985, e quindi dopo oltre 10 anni di dura prigionia, è tra i più convinti sostenitori della perdurante necessità della lotta armata contro lo Stato, rivendicando, dalle gabbie del processo alla colonna veneta arrestata parecchi anni dopo di lui, l’omicidio Tarantelli.
Su un sito dedicato ai “caduti della Polizia di Stato” viene definito da Gianmarco Calore “una gran brutta bestia, uno che fin dagli esordi ha aderito all’ala “dura” delle brigate rosse mettendosi in evidenza per la sua violenza e per la sua spietatezza.” ma oggi, sul sito Contropiano, si legge che: “Una malattia cattiva, la sla, se l’è portato via in pochi mesi. Schivo, quasi timido nei modi, tanto che non sembra possibile trovare una sua foto in Rete, ma dotato di grande determinazione, appassionato naturalista ed etologo, aveva dato un grande contributo al libro Politica e rivoluzione, uscito nel 1983 dal processo di Torino, firmato – come si usava allora – dai militanti presenti nel processo (Prospero Gallinari, Bruno Seghetti, Francesco Piccioni, Andrea Coi), ma opera collettiva con cui le Br prendevano le distanze teoriche dalle teorie del “Partito Guerriglia”.
Una vita in carcere, anche per lui, che lo aveva visto tornare in libertà solo negli anni ’90, quando una classe politica incapace di chiudere quella stagione con l’unico strumento giuridico all’altezza dello scontro – l’amnistia – scelse di aprire le porte ai prigionieri politici con la “legge Gozzini”; ovvero uno alla volta, in tempi quasi individualizzati, senza alcuna riflessione pubblica
Ciao Carlo, che la terra ti sia lieve.
da Baruda
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