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Abolire il turismo

Indipendentemente da dove arriveremo, non è possibile che sia più facile immaginare la fine del capitalismo che la fine del turismo.

Il presente testo è la traduzione di un articolo di Miguel Gómez Garrido, Javier Correa Román e María Llinare Galustian (Escuela de las Periferias, La Villana de Vallekas) su El Salto il 21/11/2024

Spain is different. Con questo slogan Manuel Fraga, ministro dell’Informazione e del Turismo di Franco, sigillava la strategia di “ripulitura” più potente mai eseguita dalla dittatura franchista: l’istituzione dell’industria del turismo in Spagna. Così, quello che alcuni storici insistono a chiamare “aperturismo degli anni 60” non è stato altro che una forte ripulita di un regime che voleva mandare il messaggio che tutte le torture, le donne rasate, le uccisioni sommarie e la fame erano poco altro che pittoreschi dettagli —come i vestiti a pois flamenchi di una zona stupenda dove passare qualche settimana di vacanza. In questo modo è stato deciso che la specializzazione del nostro Paese nell’economia del mercato-mondo passasse attraverso la deindustrializzazione e la turistificazione dei nostri spazi e delle nostre città, in un contesto di crescita del turismo globale e dell’industria aerea.

Quella deindustrializzazione è stata possibile soltanto grazie all’eterna promessa che il turismo e la sua industria sarebbero stati un’altra fonte di ricchezza (perfino migliore). Alcuni stati si erano specializzati in scienza o in tecnologia, e noi ci saremmo specializzati in turismo. Eppure —e visto che siamo nel 2024, non diciamo niente di nuovo—, risulta evidente che la ricchezza prodotta dal turismo è ricchezza soltanto per poche. Infatti, la struttura economica che genera intorno a sé è altamente precarizzante: lavori stagionali, pagati poco, basati sulla servitù alberghiera verso coloro che per molto tempo hanno chiamato “PIGS” noi l’Italia, la Grecia e il Portogallo. Nemmeno le vite di chi lavora in questo settore traggono beneficio da quella supposta ricchezza. Sì, nelle zone turistificate “c’è lavoro” ma, come vuoi esigere al titolare di un bar in cui lavori di essere pagata per gli straordinari che fai tutti i giorni, o di avere i contributi, se egli ha la sicurezza che quando ti licenzierà ci metterà cinque minuti per trovare qualcun’altra?

Non diciamo niente di nuovo quando critichiamo l’idea di turismo come progresso della nostra società. Consideriamo però che quella critica è stata portata avanti all’interno di una cornice puramente quantitativa, senza osare contestare il turismo nella sua totalità. Secondo la critica [più diffusa?], il problema del turismo nel nostro Paese è un problema di quantità, di grandi scale, di orde di turisti che distruggono i centri storici o i paesaggi dei litorali. La proposta di questa critica —come è facile intuire— è puramente riformista: per ridurre i mali di quella promessa di ricchezza, dobbiamo regolamentare o ridurre i flussi, niente di più. Dobbiamo scomettere, insomma, per quello che qualche anno fa è stato chiamato “turismo di qualità”.

Questo discorso riformista sul turismo è servito anche ad alleviare le tensioni dell’ego: non è che tutto il turismo sia devastante, lo è soltanto quando si fa in massa. È possibile tracciare, dunque, una linea tra turisti buoni —come me, come noi—, che non distruggono i luoghi e che non vanno dove vanno le masse, e turisti cattivi, quelli che riempiono le piazze principali e i musei, che si ubriacano e che spaccano tutto e che, ovviamente, risultano sgradevoli per la popolazione locale.

Com’è evidente, questo discorso no solo si sgretola in molti dei suoi postulati, ma serve anche a governi e aziende per continuare a trarre profitti da questa massiccia distruzione sotto etichette come “spiagge bandiera blu” o “albergo di qualità”. Come conseguenza di questo fallimento, o forse indipendentemente da esso, alcune autrici hanno iniziato ad abbozzare una critica al turismo nella sua totalità, e non solo in termini quantitativi. Sono queste autrici quelle che ci interessano nella Escuela de las Periferias [Scuola delle Periferie] ed a partire dai loro ragionamenti che abbiamo impostato un percorso di autoformazione nel nostro centro sociale, La Villana di Vallekas, intitolato Derecho a la ciudad [Diritto alla città]. Alcuni dei libri che abbiamo selezionato sono Verano sin vacaciones. Las hijas de la costa del sol [Estate senza ferie. Le figlie della costa del sole], di Ana Geranios, ed Estuve allí y me acordé de nosotros [Sono stata lì e mi sono ricordata di noi], di Anna Pacheco.

Con questi libri ci chiediamo se le critiche al turismo non si stiano focalizzando unicamente sulla quantità. Ad esempio, parliamo spesso del fatto che il turismo fa aumentare i nostri affitti, il che presuppone che un flusso più tranquillo di turisti potrebbe non colpire il nostro quartiere [Vallecas, al sud di Madrid, ndt]. Nonostante questo —e crediamo che qui risieda il vero interesse di entrambi i libri—, nella Escuela de las Periferias ci interroghiamo riguardo le radici profonde del turismo in una società di massa: perché vogliamo vivere durante una settimana all’anno uno stile di vita borghese? Cosa c’è dietro a quel desiderio di essere servite dalle nostre compagne durante i pochi giorni all’anno in cui non dobbiamo lavorare? Abbandonare l’idea di quanto turismo e pensare a quale turismo: perché il nostro riposo annuale è totalmente disegnato e pensato da e per il consumo di esperienze, persone, luoghi e merci? Non è magari possibile immaginare delle vacanze che non passino attraverso l’evasione dalla nostra realtà? E se magari il capitale ci avesse rubato la fantasia politica per poter sognare delle vere vacanze comunitarie e dell’ozio popolare?

Crediamo che queste sono le vere domande che ci possono aiutare a immaginare delle vacanze popolari, oltre al turismo e alla sua industria. Crediamo che sia necessario interrogarsi su cos’è che vogliamo ottenere quando viaggiamo. Cosa cerchiamo in quella visita? Di riposare? Molte volte non lo facciamo nemmeno. Conoscere altre culture? È assurdo perfino pensare che sia possibile, ancora di più restando al massimo un paio di settimane, quattro giorni il più delle volte. Ammirare monumenti? Scoprire paesaggi? Scoprire noi stesse? Allontanarci dagli spazi di routine? Scappare (da cosa, da chi)? Perché viaggiamo con certe persone? Perché da soli, perché con quegli amici, perché con quella partner? E cos’è che aspettiamo dal viaggio? Godere? Mostrarlo? È il turismo un obiettivo o una scusa, una falsa Compostela che ci permette di dire alla società e ai social: “Hey, questo è il mio gruppo; hey, questa è la mia partner”? Sono magari le nostre vacanze coerenti con i personaggi che creiamo (quello che va al festival, quella che va al sudest asiatico, la famigliola che va a Benidorm…)? Inoltre, cosa ci dicono queste domande dei luoghi dove abitiamo abitualmente? Cosa ci fanno capire dei nostri quartieri, dei nostri centri sociali e culturali, delle nostre piscine pubbliche, delle nostre biblioteche e dei nostri parchi? E se, come si dice in una recensione del libro di Anna Pacheco, “alla fine quello che basterebbe fare sarebbe andare alla piscina municipale e poi a fare aperitivo”?

Ora sono questi i temi di dibattito alla Escuela de las Periferias. Pensare una forma di riposo che non passi dai circuiti della turistificazione. Domandarci cosa c’è dietro a quel desiderio di declassamento che si nasconde in molti dei nostri viaggi. Cercare di immaginare forme di riposo comunitarie che non devastino il luogo visitato. Scartare il mantra secondo cui “scoprire ci apre la mente”, perché sappiamo che non è così, altrimenti il mondo sarebbe un posto sempre migliore. Di tutto questo stiamo dibattendo, anche assieme alla Plataforma de Afectadas por la Hipoteca [Comitato di Persone Colpite dal Mutuo] di Vallekas, con il Sindacato di Inquiline e con vicine del quartiere che si stanno autoorganizzando contro gli appartamenti turistici. Non sappiamo se avremo successo, ma l’avventura vale la pena. Indipendentemente da dove arriveremo, non è possibile che sia più facile immaginare la fine del capitalismo che la fine del turismo.

[Foto: scritta contro Airbnb nel quartiere di La Latina a Madrid. David F. Sabadell]

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pubblicato il in Culturedi Pedro CastrilloTag correlati:

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