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Aldo dice 8×5. L’innovazione non porta nuovi diritti

“Rage against the machine? Automazione, lavoro, resistenze”, il numero 65 di «Zapruder» è in distribuzione da qualche giorno. Per accompagnare la sua uscita pubblichiamo un articolo di Luca Toscano, co-coordinatore Sudd Cobas, che ci aiuta a inquadrare le interconnessioni tra acquisizioni di nuovi macchinari produttivi, scioperi e ideologia del padrone a partire dalla lotta che si è sviluppata nel distretto tessile di Prato.

da StorieInMovimento

L’articolo che segue contiene alcune riflessioni delle/dei compagni del sindacato Sudd Cobas su macchine e lavoro, scritte a partire dalla straordinaria esperienza di “sindacalizzazione impossibile” (cit.) del distretto tessile pratese.  Alla fine dell’estate scorsa, quando abbiamo chiesto loro di metterle per iscritto per l’uscita del numero 65 di «Zapruder», non avremmo mai immaginato che, qualche settimana dopo, ce li saremmo visti inaspettatamente sbarcare a Ginevra, accompagnati da alcuni operai in sciopero, dipendenti da una ditta in subappalto della firma di lusso Mont Blanc. Un pezzo della “nuova classe operaia multinazionale” era schizzato via dalla fabbrica e aveva osato l’indicibile: venire a chiedere conto direttamente agli azionisti della casa madre, con sede in Svizzera, del proprio licenziamento a seguito di una vittoria sindacale. Ne è nato un incontro tra la delegazione pratese, sindacalisti/i e attiviste/i per la moda sostenibile ginevrini/e a cui è seguita una piccola mobilitazione di solidarietà che, con grande scandalo sulla stampa locale, è arrivata a portare i corpi e le voci degli scioperanti fin davanti alla sontuosa boutique Mont Blanc vista lago. Inaspettatamente, questo numero di «Zapruder» non era riuscito solo a gettare un ponte tra passato e presente, ma anche a far cambiare di segno – seppure per un attimo – a una di quelle catene globali del valore lungo cui si articola oggi il capitalismo, invertendo il flusso dello sfruttamento per trasformarlo in solidarietà. Non avremmo potuto sperare di meglio.
(Lorenzo Avellino, Frédéric Deshusses e Alfredo Mignini)

Aldo dice 8×5. L’innovazione non porta nuovi diritti

Luca Toscano

Era settembre del 2021 quando, già da otto mesi, picchettavamo insieme agli operai davanti ai cancelli della Texprint, stamperia tessile situata nel cuore del distretto pratese della moda. Si lottava, come spesso in questo distretto, contro il super-sfruttamento fatto di una giornata lavorativa di dodici ore e una settimana che non conosce giornate di riposo. Per salvare la sua immagine, Textprint aveva deciso di affidarsi a una prestigiosa agenzia di comunicazione milanese per portare avanti una campagna antisciopero. Per primi sono arrivati i flash mob di impiegati e quadri aziendali davanti al Palazzo di giustizia e alle principali istituzioni cittadine con i loro immancabili striscioni: «Abbiamo diritto a lavorare!», «Non è sciopero, è violenza». Per raggiungere l’obiettivo di delegittimare il picchetto che aveva paralizzato la produzione, però, bisognava soprattutto screditare gli scioperanti e negare ogni forma di sfruttamento in fabbrica. La stampa e i media sono stati quindi invitati dall’azienda a fare un giro dello stabilimento. Una sorta di “visita guidata” in fabbrica alla scoperta del ciclo produttivo e dei macchinari per mostrare che la Texprint aveva investito milioni di euro in impianti di produzione più che all’avanguardia, raggiungendo capacità di stampa e livelli di automazione del processo che gli avevano permesso di elevarsi al secondo posto in Europa. Insomma, era lì – nel macchinario, nella tecnologia – la prova dell’inesistenza dello sfruttamento. Il senso del messaggio che il management della Textprint teneva assolutamente a comunicare è che lo sfruttamento è un fatto “antico”, superato dallo stesso progresso capitalistico. Un “residuo” dello sviluppo che si annida dove il macchinario – e quindi il capitale – non ha ancora “salvato” l’operaio. Così dice l’ideologia del padrone.

Presto mi sono accorto che questa ideologia aveva anche una sua rappresentazione grafica. Ho iniziato a notare che i rari articoli della stampa mainstream sullo sfruttamento nel distretto pratese erano sempre associati a una foto di operai e operaie accanto a una “primitiva” macchina per cucire. Come se quegli stessi articoli non si riferissero anche e soprattutto a stabilimenti di stamperia, tintoria, tessitura, orditura e rifinizioni all’avanguardia, in cui regnano macchinari industriali di una certa importanza in termini di capitali investiti e livelli di automazione. No, c’era sempre quella vecchia macchina, come a ribadire il falso postulato per cui lo sfruttamento è un fenomeno marginale che si annida esclusivamente in alcuni segmenti del ciclo produttivo dove è scarso o difficile l’investimento in capitale fisso per l’automazione. Poco a poco, però, le immagini dei picchetti hanno preso il posto di quelle della macchina per cucire. Alla Textprint lo sciopero è durato 264 giorni e si è chiuso con una vittoria operaia. Una piccola epopea della nuova classe operaia multinazionale destinata a lasciare il segno e aprire una lunga serie di scioperi che continua ancora oggi.

Sei anni di militanza sindacale ci hanno permesso poi di vedere nello specifico altri casi in cui l’innovazione tecnologica avanza di qualche passo e modifica alcuni cicli produttivi e modi di lavorare. Uno di questi è la Gruccia Creations, fabbrica di grucce che insieme ad altre rifornisce i “pronto moda” del distretto.
Nel 2019, quando abbiamo incontrato per la prima volta gli operai dell’azienda, una delle mansioni in fabbrica era inserire il gancio metallico sul corpo della gruccia in plastica. L’operazione veniva svolta manualmente appoggiando il gancio a una macchina che istantaneamente rendeva la punta incandescente. Il gancio veniva poi inserito – sempre manualmente – sul corpo di plastica. Questa operazione costava a chi la eseguiva scintille incandescenti negli occhi e non solo. Tre anni dopo quella maledetta mansione era sparita. Erano arrivati in tutte le fabbriche nuovi macchinari che avevano automatizzato l’inserimento del gancio nel corpo di plastica. “Benevolenza” della tecnologia? In realtà i benefici del suo sviluppo per parte operaia era stati poco più che “incidenti”. Non era stata infatti la volontà di proteggere gli occhi degli operai a portare innovazione alla Gruccia Creations, ma la possibilità di abbattere i costi di produzione riducendo forza lavoro e tempi di lavorazione. Col nuovo macchinario, a parità di produzione, gli addetti erano diminuiti e agli operai rimasti continuavano a essere imposti i turni di dodici ore al giorno, dal lunedì alla domenica. Anche in questo caso per mettere un freno allo sfruttamento sono serviti i picchetti, le tende e i fuochi di notte davanti ai cancelli. Lo stesso anno dell’arrivo dei nuovi macchinari scoppiava infatti lo “sciopero delle grucce”. Uno sciopero partito dall’hub logistico che si occupava della distribuzione delle grucce ai “pronto moda” che si è allargato a tre fabbriche della produzione, tra cui appunto la Gruccia Creation. Dopo venti giorni di picchetti, lo sciopero ha vinto.

L’esempio del distretto pratese ci mostra che, al contrario di quanto afferma il discorso del padrone sull’automazione, lo sviluppo del macchinario e della tecnologia organizzativa coesiste con le più brutali forme di sfruttamento, a partire dall’allungamento oltre misura della giornata (e della settimana) lavorativa. Per il capitale, plusvalore relativo e plusvalore assoluto non sono due strade alternative nella ricerca del massimo profitto. Anzi, il capitalista le persegue volentieri entrambe e, contemporaneamente, combina innovazione e intensificazione massima dello sfruttamento. Già Marx riassumeva «tutta la storia dell’industria moderna» in questi termini: «il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione»[1]. Il «livello di degradazione» di questa classe operaia multinazionale impiegata nel distretto pratese si misura in un minimo di ottantaquattro ore di lavoro alla settimana. La “misericordia” padronale è limitata a dai tre ai cinque giorni di riposo l’anno (spesso in realtà obbligati dall’interruzione dei cicli produttivi in agosto). È così che le grandi multinazionali del lusso garantiscono margini altissimi ai propri azionisti. I marchi del Made in italy, con sede legale nelle grandi capitali finanziarie europee, subappaltano a società di comodo la produzione portata avanti a Prato da forza lavoro immigrata, contando sul fatto che le condizioni strutturali (dai permessi di soggiorno fino all’impresa di dover sostenere la riproduzione in patria di un’intera famiglia) porteranno questi operai ad accettare condizioni di lavoro durissime. A mettere un freno, oggi come ieri, sono arrivati gli scioperi, i picchetti e gli accampamenti davanti ai cancelli degli stabilimenti. E tutti i loro annessi e connessi: le casse di resistenza e l’autodifesa dalle squadracce mafiose assoldate dai padroni, le scuole sindacali e la quotidiana costruzione di comunità solidali.

Il distretto pratese, insomma, non è una “scheggia del passato”, non è un angolo di eccezione nel cuore dell’Italia, ma il nodo europeo – estremamente contemporaneo – di una catena globale di produzione dell’abbigliamento. Catena globale ad alta tecnologia organizzativa just-in-time, orientata la massimo risparmio di costo – dalla produzione del tessuto in Cina alla produzione dell’abbigliamento in Europa – e costretta a rilocalizzare in prossimità dei mercati di sbocco alcune fasi di lavorazione che non possono essere eseguite a lunga distanza senza dover rinunciare a un efficace sincronizzazione tra mercato e produzione. Con la possibilità di intercettare i flussi migratori. E con l’aggiunta di poterci pure scrivere sopra Made In Italy.

Non un nuovo macchinario, ma il ritorno della lotta di classe fatta “dalla nostra parte” ha permesso in questi ultimi anni a centinaia di operai di uscire dalla più profonda degradazione in cui il capitale li aveva fatti sprofondare riducendo le loro stesse vite a macchine per il profitto altri. “Otto per cinque” – che è lo slogan e allo stesso tempo la piattaforma del nuovo movimento operaio del distretto pratese – vuol dire proprio questo: la lotta per la possibilità di esistere e riprodursi come persona e non solo come operaio, non solo come parte del capitale. Se è vera la tesi dei vecchi operaisti per cui la lotta di classe è motore dell’innovazione ed anche dello sviluppo della tecnologia del macchinario, è altrettanto vero che quest’ultima, senza la prima, non ci regala niente. I diritti conquistati costringono all’innovazione. Ma l’innovazione non porta nuovi diritti. Il caso Prato ci mostra che dai garage con le macchine per cucire fino ai milionari impianti industriali ad alta tecnologia, in una stessa filiera produttiva differenti livelli di sviluppo tecnologico sono uniti da uguali livelli di sfruttamento.


[1] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Mosca, Ed. lingue estere, 1949, 1a ed. 1865, disponibile su https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1865/salpp.htm.

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