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Appunti sul meticciato da New York (parte 2)


Tra mescolanze, mosaici e insalatiere 

 

Doppie genealogie e immaginazione geografica

Facciamo ora un salto, ma non troppo lungo. Un’idea che infatti pare suonare affine a quello di melting pot è quello di meticciato. Tema sul quale, ricollegandomi all’inizio di questo scritto, viene inevitabilmente da ragionare passando per il sottosuolo newyorkese. Va innanzitutto notato come in inglese non esista un corrispettivo diretto del temine, che viene ricondotto entro una galassia semantica che ruota tra ibrido, misto, mezzo sangue, che attraversa le razze… oppure facendo ricorso ad altre lingue come lo spagnolo mestizos o il francese metissage. Al limite lo si può trovare come sinonimo di melting pot. Per quanto riguarda la lingua italiana, meticcio ha una derivazione dal tardo latino mixtīcius (che viene da mixtus, participio passato di miscēre, mescolare – un calco del greco sýmmiktos). Proviamo allora a guardare ai tratti distintivi che ha l’idea di meticciato, partendo da una prospettiva storica e affermando che esso ha una doppia genealogia. Doppia e alternativa. Una impostata sul dominio e l’altra sulla libertà. Una sulla terra e l’altra su un elemento liquido, di movimento. Queste due storie si rifanno infatti ad un processo di colonizzazione e conquista da un lato; ad un percorso di liberazione e mobilità dall’altro. Partiamo per cenni col definire il primo aspetto, per poi concentrarci sul secondo. L’idea di meticciato emerge infatti in maniera significativa nel continente americano del Sud, in seguito alla conquista coloniale da parte dei regimi iberici. Le prime ondate di colonizzatori infatti si macchieranno, come noto, delle peggiori efferatezze, tra le quali lo stupro come pratica di sottomissione delle popolazioni indigene. Questa pratica darà dunque forma alle prime generazioni di figli mezclados, ossia con padre bianco e madre indigena. Vediamo dunque in atto un’origine violenta e prevaricatrice del tema, che si sviluppa come conseguenza dell’affermazione del dominio su territori da conquistare, una dinamica in cui l’elemento dell’appropriazione della terra e della sottomissione del “sangue” sono segni distintivi. Viene allora ad incubarsi, generazione dopo generazione, una nuova “razza” che vede nell’assenza del padre un suo tratto caratteristico1. Dando vita ad una storia secolare che vede all’oggi l’elemento del meticciato riscoperto in chiave positiva da molti dei cosiddetti autori post-colonial, ma spesso usato dai governi anche come forma di legittimazione2

Questo è tuttavia solo un aspetto della faccenda. Infatti già a fine Ottocento il termine inizia a configurarsi con altra connotazione. E’ in particolare José Martì, rivoluzionario cubano che organizza le prime lotte per l’indipendenza, a parlare di “Nuestra America Mestiza”. Nei suoi scritti è possibile rinvenire importanti riflessioni sul tema del meticciato culturale e della creolità. E non a caso sarà nuovamente un cubano, l’antropologo Ortiz, a riprendere con forza il tema dell’incontro e del mescolamento tra culture coniando il concetto di transculturation, seguito dallo scrittore Roberto Fernández Retamar, amico del Che e di Castro e partecipe alla rivoluzione del 1959, che diffonderà la coscienza di come questa dinamica di meticciamento potesse divenire il centro di una nuova civiltà (uso il termine per come lo definisce Braudel) liberatoria in antitesi rispetto ai percorsi europei, statunitensi o cinesi. Una sorta di cammino della specie fatto di migrazioni, viaggi e incroci, che porterà anche un altro scrittore come Glissant (vicino a Fanon) a parlare di tendenza alla creolizzazione mondiale. Egli si distaccherà progressivamente dalle tesi della negritudine portandolo a parlare di antillanità. Sono infatti i Caraibi, questa terra-mare aperta, a fornire l’ispirazione per l’uscita da una storia di dolore, miseria e colonialismo. Non rimuovendola, ma anzi riconoscendone l’elemento di venuta al mondo, della nadividad, e divenendo nuova immagine planetaria del mare in mezzo al mondo. Iniziamo dunque a vedere come, inserendo l’elemento della liquidità, gli scenari si trasformino. Al riguardo possiamo molto velocemente accennare a due campi di studi interessanti che aiutano per comprendere l’argomento. Il primo è quello che ha mostrato come la storia atlantica sia stata un continuo intreccio di rotte di sovversione e libertà. Di storie e vicende a lungo celate di ribellioni, rivolte, fughe, in cui l’elemento del mare, della possibilità di movimento che esso garantiva, non sia stato unicamente simbolo della tratta schiavistica ma anche di alternative radicali. E d’altronde è possibile riferirsi al lungo filone di pensiero che da Hobbes a Schmitt vede una contrapposizione sostanziale tra terra e mare, laddove il primo elemento rappresenta la stabilità, la statualità, la certezza del confine e della sovranità, mentre il secondo indica le vie del movimento, dell’instabilità, del continuo riproporsi della messa in discussione degli assetti consolidati. Il secondo campo di studi attiene alle discipline storico-geografiche, ed ha mostrato come “mediterraneo” più che essere un nome proprio indichi una funzione di mediazione e congiunzione fra terre. E come al mondo esistano più mediterranei, di cui appunto quello caraibico rappresenta una tipologia, alla quale è ad esempio possibile aggiungere quello che consideriamo il Mare Nostrum. Attacchiamoci a questo allora per proseguire l’argomentazione.

Il mediterraneo che connette Europa, Africa e Asia è infatti storicamente stato un importantissimo bacino della contaminazione tra storie e popolazioni. Ed è qui che ci piace inquadrare la seconda traccia genealogica dell’idea di meticciato. Infatti questo bacino acqueo, denso di isole e città-porto3, per millenni ha funzionato, in maniera evidentemente conflittuale, come grande piattaforma di connessione, incontro, scontro, mischiamento, tra culture, genti, linguaggi, saperi, tecnologie. Tra le più belle apologie che si possono indicare al riguardo, meritano sicuramente una menzione i libri di Izzo, lo scrittore marsigliese che nei suoi romanzi sprizza una amore per la sua città meticcia. Ascoltiamo alcune sue parole su Marsiglia, tratte da “Aglio, Menta e Basilico”:

 

Sono nato a Marsiglia. Da padre italiano e madre spagnola. Da uno di quegli incroci di cui la città custodisce il segreto. […] Marsiglia è sempre stata il porto degli esili, degli esili mediterranei. Degli esili delle nostre antiche vie coloniali, anche. […] E’ bella solo per la sua umanità. Il resto non è altro che sciovinismo. Di belle città con bei monumenti ce ne sono un sacco in Europa. Di belle rade, di belle baie, di porti stupendi è pieno il mondo. Io non sono sciovinista. Sono marsigliese. Cioè di qui, appassionatamente, e di ogni altro posto allo stesso tempo. Marsiglia è la mia cultura del mondo. La mia prima educazione al mondo. […] E qui o altrove, quando parlo la lingua di “casa mia” reinvento quella che Gyptis, la celto-ligure e Protis, il focese d’Asia Minore hanno inventato nella loro notte d’amore, duemilaseicento anni fa. Una lingua in cui ogni lettera dell’alfabeto deve essere profondamente umana4. […] Mi piace credere […] che Marsiglia, la mia città, non sia una meta in sé, ma soltanto una porta aperta. Sul mondo, sugli altri. Una porta che rimanga aperta, sempre.

 

Si vede come emerge un’appartenenza ad una storia, ad un mito e ad una cultura mediterranea che si fonde con tanti altri possibili esempi (la Napoli di Benjamin, l’Harar di Rimbaud, l’Algeri di Camus, o ancora Genova, Istanbul, Barcellona, Beirut, Atene ecc…). E’ come se le mille culture di passaggio, nei loro transiti marini che le imbevono d’acqua, lasciassero continuamente alcune gocce della loro storia nei vari luoghi, imprimendo indelebili tracce del loro passaggio su una mappa non lineare ma frastagliata come le onde. Viene allora formandosi un crogiolo5 suggestivo di lingue in cui l’attitudine alla condivisione diviene matrice di un tessuto disomogeneo, sempre in mutamento. Un’ultima immagine prima di arrivare alle conclusioni. E’ risaputo come la possibilità definitoria contenga una importante dose di decisionalità. Dunque l’immaginazione geografica contiene un forte segno di potere: la cartina appesa in tutte le scuole elementari, con il mondo suddiviso per insiemi densi secondo le linee dei confini statuali, è un buon esempio al riguardo: l’imprimere sin da piccoli un’immagine del mondo nella quale lo Stato è principio unico di organizzazione spaziale. Rispetto al Mediterraneo ed all’Italia in particolare, potremmo allora con un gioco ribaltare quella che è l’immagine consolidata, ossia della penisola come “stivale”. Questo infatti conduce ad immaginarla come appendice del continente che, come tristemente spesso accade, respinge (calcia via) le persone provenienti da altri luoghi. Potremmo invece immaginare quel pezzo di terra chiamato Italia come un braccio che si distende lungo il mare, per toccare e congiungere altri mondi.

Questo capovolgimento delle usuali prospettive per suggerire che si potrebbe guardare allo spazio politico della contemporaneità non tanto nell’Europa continentale o negli angusti spazi nazionali, quanto e di nuovo immaginare il mediterraneo come terreno di produzione politica6.

 

Criteri del meticciato

Andiamo ora a concludere con alcune riflessioni di carattere generale sul tema del meticciato, rispetto al quale sono stati nel corso di questo testo forniti solo alcuni spunti, allusioni, problematicità. Ricollegandoci a quanto affermato in precedenza sul tema delle rivolte, New York non ha (ancora?) avuto il suo melting pot del riot, la sua rivolta meticcia. E abbiamo visto come la politica abbia istituzionalizzato una divisione per linee di colore che si riverbera anche sul piano urbanistico. Tuttavia è possibile individuare esempi in controtendenza, spesso in luoghi dove meno ce li si potrebbe aspettare. Laddove infatti la subway, come già detto, è luogo di incontro di una diversità esagerata che tuttavia mantiene relazioni instabili, assolutamente contingenti, è spesso nelle forme di autorganizzazione sociale che si intravvedono possibili embrioni più stabili. Elencando alcuni esempi personalmente vissuti, come in tutto il mondo la musica hip hop fornisce un supporto straordinario alla possibilità di mischiamento non subalterno di differenze. Tutta la scena newyorkese è composta e rivendica la sua funzione meticcia. Ma anche alcune chiese sorprendentemente (che sappiamo bene quanto siano altro negli Usa rispetto alla Chiesa Cattolica) talvolta funzionano da luoghi nei quali le appartenenze vengono superate7. Inoltre mentre il lavoro è assolutamente striato dalle linee del colore (impossibile vedere un bianco tra i lavoratori della subway, o nei cantieri edili o stradali, ad esempio…), lo sport spesso funziona quale catalizzatore di mescolamento. Dai campetti di basket nei quartieri alla squadre dei collage8.

A partire da queste istantanee, è innanzitutto bene fare alcune considerazioni elencandole in maniera schematica. Abbiamo ormai imparato come i discorsi teleologici, finalistici o deterministici siano spesso una trappola del pensiero e dell’azione. Dunque il meticciato non va letto come tendenza necessaria dell’umanità, ma al limite come posta in palio. In secondo luogo, come per il multiculturalismo, c’è sempre il rischio di postulare delle identità culturali predefinite che incontrandosi si meticciano. Sul rischio di ricadere in questo circolo vizioso abbiamo già detto, e tuttavia è bene accennare che, onde evitare inestricabili labirinti teorici, non si può nemmeno incorrere nel rischio speculare del far finta che le identità non esistano. Esse producono un effetto di realtà nel plasmare le soggettività, sono un rapporto di potere inscritto nel tessuto sociale e dentro i corpi9. A mio avviso assumendo queste cautele, credo che il tema del meticciato tendenzialmente superi questo problema o rischio del finire per consolidare delle identità laddove esso si ponga come concezione dinamica, aperta, in divenire e conflittuale. Questo conduce ad un altro punto. Il meticciato non può essere categoria astratta, ma bisogna guardarne le forme di produzione e riproduzione. Abbiamo visto come esso possa avere anche processi estremamente violenti e sottomissori, che non necessariamente possono essere relegati ad una fantomatica e superata origine. Ma appunto assumerne questa complessità e ambivalenza induce il non farne un’idea espunta dalla materialità, ma anzi a configurarlo come campo di tensione in cui si confrontano rapporti di forza e di dominio.

Dunque “meticciato”, in senso politico e per l’uso che se ne può fare nei movimenti, non è un lemma descrittivo o un modello ideale, ma l’apertura di un orizzonte di possibilità. Possibilità ovviamente a partire da determinate configurazioni sociali concrete. Meticciato deve esser giocato non come accogliente categoria per raffinati intellettuali o estetici cultori dell’antirazzismo, anzi dovrebbe vivere proprio quale antitesi al pensiero debole che prefigura l’incontro entro uno spazio liscio di differenze che orizzontalmente si accostano. Tutt’altro! Mischiare è anche un atto di violenza. Ma ci sono varie violenze possibili. C’è quella brutale dell’accoppiamento coatto, che genera gradazioni cromatiche direttamente correlate ad un una posizione gerarchicamente preimpostata entro la scala sociale a seconda della sfumatura di colore usata quale stigma. Ma c’è anche una violenza di tipo differente. Opposta a quella precedente, e che agisce in primo luogo sul sé consolidato, su quella cultura che è immessa in noi, nella quale siamo immersi e della quale spesso siamo inconsapevoli riproduttori. In qualche modo voglio alludere a quel movimento marxiano, spesso rimosso, che definiva uno statuto alquanto particolare della ““missione storica della classe operaia””: ossia la compresenza di due momenti distruttivi/destituenti. Infatti la dinamica della continua abolizione dello stato di cose presenti doveva prevedere anche un annullarsi del sé in quanto classe. Dunque si indicava una dinamica costituente come prodotto del destituire-destituendosi, distruggere-distruggendosi, o per palati più suscettibili un trasformare-trasformandosi. Una compresenza e simultaneità di pars destruens e pars costruens che si dà come doppia negazione. Il paragone è sicuramente forzato, ma assumendolo con cautela quello che si prefigura con l’idea di meticciato è un movimento affine o analogo: lo scardinare le gerarchie ed i confini sia infrangendoli che infrangendosi in quanto soggetti costituiti come separati per linee di colore (e di classe). Entro questa inclinazione scorgiamo allora come, a differenza dell’idea di multiculturalismo, integrazione o melting pot, il meticciato non sia un modello. E nemmeno qualcosa di “naturale” al quale fare ritorno. Dunque non si tratta di applicarlo dall’alto su una realtà sociale. Né di porlo come fine idealizzato da raggiungere10. Si tratta, più semplicemente (?), di un’indicazione politica atta ad affrontare la costante articolazione di processi trasformativi secondo geometrie variabili non predeterminate, ma definite da vettori di potenza da individuare di volta in volta nelle soggettività in movimento11. Dunque la proposta politica del meticciato è interessante laddove essa non indica un soggetto (presente o da realizzare), quanto come politicizzazione di un movimento presente ed una sua forzatura ed estensione in una prospettiva politica conflittuale. Un meccanismo che non indica una dialettica che dallo scontro di tesi ed antitesi proponga una sintesi teleologicamente inscritta, quanto una nuova tesi aperta su l’a-venire. Il meticciato quindi non è in sé “bello”, né tantomeno una sorta di spazio liscio, unitario o esente da contraddizioni. Bensì un terreno denso di antinomie, contraddizioni, aporie. Una pratica che non prefigura ingenuamente una unitarietà plurale. Eppure il meticciato impone un nuovo pensare l’universale, senza la tensione verso il quale rimangono solo chiusura, differenze diseguali che tali sempre rimarranno, pensiero debole.

 

E intanto Roma è là tutta intera, inafferrabile, opaca e presente: vissuta nella sua indecomponibile totalità. […] il moto di universalizzazione è tutt’uno con l’approfondimento del concreto […] su due piani: quello della Storia e quello delle sue storie, specchiantisi l’uno nell’altro. […] [Una] doppia prospettiva: di una vita che si singolarizza, avida di gustare il sapore di tutte le altre vite, e di una universalità strutturata del vissuto che si totalizza soltanto nelle vite particolari.

Occorre, per questo, molta arte e molta semplicità, molta malizia e una sorta d’innocenza. Coraggio, anche: il coraggio di rifiutare tutti i realismi nel nome della realtà.

Sartre, dalla rivista “Galleria”, 1967.

 

NC


1Una tipologia di colonizzazione che sarebbe stata intollerabile ad esempio per gli inglesi in India, laddove il rispetto delle distanze fra bianchi ed autoctoni (con il corollario di assoluto rispetto della divisione castale) era un prerequisito per la colonizzazione.

2D’altra parte si sa come la capacità capitalistica di sussumere e rimodulare anche le istanze più radicali espresse nella “società” sia uno dei maggiori punti di forza di questo sistema. Tuttavia il rischio della sussunzione non può funzionare da giustificazione per l’inattività… Storicamente l’unico antidoto alla cattura si è dato nella capacità di stabilizzare forme di contropotere…

3Rispetto ai porti vari autori hanno dedicato bellissime parole nell’analisi politica rispetto alle originali conformazioni che possono prodursi in questi luoghi di momentaneo approdo. Si può richiamare Benjamin, quando afferma che il porto “è la storta incombustibile, surriscaldata dove riescono meglio le miscele di classe più rare e difficili”, o il Foucault che ne parla come di “luoghi di diserzione e di intersezione di pericolose misture”. In questa scia possiamo affermare che non risulta allora così sorprendente come negli ultimi anni nel Nord Italia siano stati una tipologia particolare di “porti”, quegli Interporti o snodi della logistica, a divenire incubatori di nuove ribollenti composizioni di classe… E, riferendosi alla nota 9, un piccolo ma stimolante esempio che proviene da queste lotta ha mostrato a Bologna come il linguaggio stesso sia stato al centro di una produzione alternativa nel processo di circolazione nelle lotte, che ha portato ad intonare in svariate situazioni (gli operai nei picchetti ai cancelli delle ditte della logistica, gli studenti in corteo ecc…) una litania arabeggiante del termine italiano “sciopero” che diveniva lingua comune per tutte le provenienze presenti.

4Il tema linguistico è di estrema importanza. Non a caso è nello studio delle letterature comparate che si sono spesso generate le più stimolanti critiche ai modelli nazionali, mostrando le forme di imposizione del presumere che esista una “lingua originaria”. Da questo punto di vista, ben prima che qualcuno tentasse a tavolino di pianificare una lingua universale (l’esperanto), nel Mediterraneo si era prodotta una lingua comune, “koinè dialektos” (κοινὴ διάλεκτος), che per secoli funse da lingua franca per tutta la parte orientale dell’Impero Romano. Una lingua basata sul dialetto attico privato dei suoi tratti caratteristici e mischiato con altri dialetti, forgiatasi in secoli di continue interazioni e mescolamenti.

5Interessante notare come questo termine, spesso utilizzato nelle frasi come “crogiolo di razze”, abbia una precisa similitudine con melting pot : infatti il crogiolo letteralmente indica un contenitore per composti chimici che devono essere portati ad elevate temperature per produrre cambiamenti di fase o reazioni endotermiche.

6Purtroppo spesso anche le retoriche nei movimenti, laddove colgono questa istanza marina, tendono a parlare di euromediterraneo, portandosi inconsapevolmente dietro questo sottile velo neocolonialista per il quale il mediterraneo sarebbe appunto “euro”, e non “afro”, ad esempio.

7Pur con l’ovvio accorgimento che tendenzialmente è la comune sottomissione a qualche forma di credo a determinare questa postura. Tuttavia, in un mondo che è ben lungi dal secolarizzarsi, è questo un aspetto utile da cogliere. E che non può essere analizzato ideologicamente.

8E’ evidente come tutti questi esempi siano parte di situazioni che non definiscono un risultato stabile. I bambini che giocano al campo, tornano alla loro famiglia e posizione sociale finita la partita… Sono dunque esperienze chiaramente transitorie, che possono fungere al limite come palestre. Ma d’altra parte se, come andremo ora definendo, il meticciato non è un modello dato né un’idea di integrazione top down, risulterebbe alquanto sorprendente trovarne esempi computi.

9Meticciato non indica una idealistica sintesi armoniosa proprio perché riconosce l’esistenza di identità che si vuole rompere. Non è una sommatoria quantitativa né un elogio delle differenze, questo sì operatore di cristallizzazione. Lo sguardo meticcio è rivolto in avanti e non verso ipotetiche comunità originarie. E’ una costante oscillazione tra un essere attuale che si mette in discussione ed un divenire potenziale raggiungibile attraverso forme conflittuali.

10Si potrebbe qui nuovamente echeggiare Marx, il quale aveva il terrore dei mostri che il Comunismo come modello predefinito poteva creare. E quindi lo definiva come costante tensione, non un modello ma un “movimento reale…”. Dunque un’idea di divenire, non statica ma dinamica. Il punto è la violenza sul sé, contro la cultura che portiamo impressa, lungi dal volerla cristallizzare e difendere come identità. E’ questo l’impulso decisivo per un’idea politica di meticciato.

11Possono darsi alternatamente un divenire nero delle soggettività, un loro divenire latino, un divenire arabo di fronte alle insorgenze, un divenire indio zapatista (o volendo mutatis mutandis un divenire facchino di fronte alle lotte della logistica, un divenire gay, lesbica, queer se in quell’ambito si sviluppano lotte) ecc…. Questo evidentemente non è un meccanismo che copre le differenze, ma che mira a costituire un tessuto connettivo comune e autonomo forgiato da differenti gradienti e potenziali che lo informano a seconda delle capacità di rottura ed innovazione che di volta in volta si producono.

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