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New York: il virus nello spazio urbano della metropoli

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Pubblichiamo questo scritto di Felice Mometti inviatoci da New York che si concentra sulla relazione tra virus e spazio urbano nella città globale per eccellenza, la metropoli nordamericana che sta maggiormente pagando il costo della pandemia e che probabilmente ne uscirà trasformata con nuove parcellizzazioni spaziali, nuove tassonomie del tempo sociale, nuovi processi di soggettivazione e conflitto. 

 

Il paesaggio delle notti newyorchesi, dopo un mese e mezzo di parziale lockdown, richiama sempre più le scenografie di un b-movie post-apocalittico. 

La metropoli ha un aspetto spettrale come se fosse il risultato da una qualche forma di realtà aumentata. La drammatica colonna sonora delle sirene delle ambulanze si somma al rumore dei motori degli elicotteri che stazionano immobili in aria illuminando con potenti fari e riprendendo con telecamere a infrarossi i quartieri considerati a rischio di comportamenti che possono mettere in discussione il cosiddetto ordine pubblico. La metropoli sempre aperta, che non dorme mai, che  mette a valore anche gli stili di vita e gli immaginari, vede ora come luoghi di incontro notturni le grocery di alimentari agli angoli delle strade, le grandi lavanderie automatiche e i piani alti dei grattacieli di Midtown e del Distretto finanziario. Una socialità ridotta al minimo, in spazi che accentuano le divisioni di classe.

Un fermo immagine ad oggi ci mostra una città con 150 mila contagiati, 11 mila morti e più di un milione di domande per il sussidio di disoccupazione. Cifre in aumento e in gran parte sottostimate. Il virus – e con ciò si intende un insieme costituito dalla diffusione dell’epidemia, dal tipo di interventi socio-sanitari, dai tragitti della mobilità urbana e dalla forme emergenziali della governance politica – ha frammentato e polarizzato lo spazio urbano.

Certo l’epidemia è diffusa in tutta la città ma ci sono 3 grandi focolai, per numero di contagiati e vittime, che si sono formati non solo e non tanto per un andamento spontaneo e incontrollabile del Covid 19. Nel Queens attorno a Jackson Heights, nel nord del Bronx  e  a Brooklyn nella zona di Flatbush si registrano tassi di diffusione e di mortalità del virus che sono il doppio o il triplo delle altre zone di New York. Sono i quartieri abitati in gran parte da latini e da afroamericani in cui la qualità dei servizi sanitari è scadente, la densità territoriale e abitativa è molto alta e c’è una forza – lavoro in parte precaria che svolge attività legate in vario modo alla logistica, alla distribuzione,  al delivery, alle imprese di pulizie, alla piccola ristorazione. 

Sono coloro che sono costretti tutti i giorni a prendere la metropolitana, tra i principali luoghi del contagio,  per recarsi al lavoro. Sono le migliaia di riders latinoamericani, che consegnano ogni tipo di merce, assunti per due/tre mesi, vista l’eccezionale richiesta delle consegne a domicilio. Sono le donne afroamericane che lavorano nelle imprese di pulizie. Un lavoro vivo che per avere un salario necessario alla propria riproduzione rischia ogni giorno il contagio se non la  morte. In altre parole è il grande back-office del modo di produzione e riproduzione della metropoli globale.

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Il virus ha accentuato le disuguaglianze non solo di reddito. Basti guardare i numeri decisamente più bassi del contagio e dei decessi nelle zone ricche di Manhattan dove il 33 per cento della popolazione è costituito da singoli/e che abitano un appartamento. Il virus sta demarcando in modo diverso le varie aree della città e ridefinendo la percezione dei confini interni. Si evita di andare a Jackson Heights o a Flatbush. La mobilità urbana, ormai in gran parte di superficie, sta ridisegnando un nuovo arcipelago urbano fatto di scambi, attività lavorative e relazioni. L’azzeramento del mercato di Aibnb e il conseguente fallimento di migliaia di piccoli e medi proprietari costretti a vendere,  apre la strada a una maggiore concentrazione della proprietà immobiliare.

Si sta assistendo ad una interazione simultanea di de-territorializzazione e ri-territorializzazione dello spazio urbano. All’orizzonte si possono intravedere nuove forme di valorizzazione degli spazi della metropoli in cui anche i valori d’uso urbani vengono considerati solo se sussunti all’interno di una produzione capitalistica dello spazio urbano. Sono processi, in fieri, per ora abbozzati sui quali si gioca anche il conflitto e i comportamenti non compatibili di tutta una serie di soggetti sociali.

Alcuni dati emergono come interessanti per lo sviluppo del conflitto sociale. Vanno dagli scioperi spontanei in una serie di luoghi di lavoro, alle iniziative simboliche contro Trump, ad un imprevista affermazione di forme di mutuo aiuto e soccorso, variamente articolate, non caritatevoli o autoconsolatorie. Si tratterà di vedere come avverrà il passaggio dalla prossemica virtuale dei social network all’azione dei corpi nello spazio pubblico. Oppure se si affermerà un’ibridazione delle due forme dando vita a processi di soggettivazione.

 

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