Assolto Triaca
Con questa formula ieri il Tribunale penale di Perugia ha emesso la sentenza che rende merito alla giusta battaglia (legale e delle idee) portata avanti da Enrico Triaca e dal suo collegio difensivo, formato da Claudio Giangiacomo e Francesco Romeo. Per chi, come noi, ha preso parte alla campagna “La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio!” è un grande successo essere riusciti a rompere il muro dell’omertà su un fatto di tale portata. Come abbiamo più volte detto e ribadito nel corso di questo mese abbondante in cui è decollata la campagna, il caso di Enrico assumeva (e assume ancor più oggi) una valenza altamente simbolica proprio perché di fattispecie come questa è costellata la storia dello scontro di classe che animò tutti gli anni ’70. Sappiamo che il caso e la vicenda di Triaca non sono che un singolo episodio in un contesto, quello delle torture di Stato, in cui si è consumata, senza esclusioni di colpi, la guerra civile tra chi ha provato a sovvertire i rapporti di forza esistenti e chi, di quei rapporti, era invece espressione formale. In barba alle cieche critiche e alle isterie di chi ci affibbiava la responsabilità di voler ammiccare alla lotta armata, crediamo che la risposta che è uscita dall’aula Goretti, in un grigio pomeriggio perugino, dica l’opposto: ha perso la paura di chi voleva tacere, di chi voleva insabbiare, di chi non voleva ricordare e dibattere pubblicamente delle pagine più controverse della nostra storia.
E ora che Triaca è stato assolto? Tutti a casa, soddisfatti e pronti ad appuntarsi medaglie al valore? Assolutamente no. Per quanto ci riguarda, la tappa di Enrico e del suo caso, con la promozione della campagna, è da intendersi come tappa in un iter politico di più ampie pretese. Noi l’abbiamo detto più volte, francamente: vogliamo liberare gli anni ’70, favorire un dibattito storicizzante su quegli anni, scansare ipocrisie di facciata e versioni di comodo. Per cui, proprio a partire da questo risultato – che comunque, non nascondiamocelo, ha una portata storica: il secondo caso, dopo quello di Cesare Di Lenardo nell’82, in cui lo Stato ammette le sue torture – dobbiamo immaginare come proseguire in quest’opera di smascheramento dello Stato e di contestualizzazione del ciclo di lotte degli anni ’70 e ’80.
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Ieri a Perugia non si è respirato un bel clima. Il giorno prima eravamo stati ospiti dei compagni e delle compagne di Azione Antifascista Perugia (ai quali, così come fatto di persona, rinnoviamo anche pubblicamente il ringraziamento per l’ospitalità e il contributo alla campagna): c’era stata la presentazione della campagna. Un fatto che deve aver inquietato gli uomini della Questura perugina, indaffarati a battere le strade del centro storico per gran parte del dopocena, quasi fosse imminente chissà quale minaccia. La mattina del presidio, mentre si entrava in Piazza Matteotti, abbiamo visto che la solerzia degli uomini del Comune di Perugia aveva fatto sì che gran parte dei manifesti affissi (che lanciavano il presidio) erano stati strappati, sintomo che questo appuntamento non dovesse essere stato gradito alla controparte umbra. Un sintomo divenuto febbrile prova all’arrivo sotto al Tribunale: blindati e celere, tutto lo stato maggiore della Digos perugina, facce tirate… per un presidio di 50 persone che, in un giorno feriale, sono arrivate da diverse parti d’Italia a testimoniare vicinanza e solidarietà politica a Triaca. Una sensazione che ci ha confermato quanto fosse scomodo l’argomento che stava alla base della campagna e del presidio. Una sensazione, inoltre, confermata anche dal silenzio mediatico che c’è stato intorno alla vicenda, sia ieri che oggi. Nelle edicole di oggi se ne parla solo su il Manifesto con un articolo di cronaca di Francesca Morese e un commento di Mauro Palma (PD, attualmente Presidente della Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura), mentre sul web – oltre ai canali di diffusione militante – c’è stato questo triste pezzo de La Nazione, dove aver preso sottogamba l’udienza e averla considerata fatto di cronaca e non politica, ha portato a leggerezze tipo quella di definire Enrico il “postino” delle BR (e non il tipografo, ammesso che anche questa definizione basti a sostanziarne l’appartenenza e la militanza).
Cala il sipario sul caso Triaca, ma non su ciò che questo precedente si porta dietro. Insomma, “fine di una storia. La Storia continua”.
da militant
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