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Calcio e Capitale: la “rivoluzione dall’alto” della SuperLeague

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Domenica notte il calcio mondiale è stato scosso da un terremoto dalla magnitudo senza precedenti. Dodici tra i club più blasonati d’Europa hanno annunciato la nascita della Super League. Una competizione a gironi con fasi eliminatorie composta da 20 squadre, alternativa all’attuale Champions League organizzata dalla società UEFA.

Nelle intenzioni dei promotori tale competizione non dovrebbe porsi in antitesi con i campionati nazionali che sono però profondamente sconvolti dal riassetto.

Un vero e proprio scisma nel pallone che ha comportato il monopolio dell’attenzione pubblica, e siamo in tempi di pandemia. Dai Primi Ministri agli influencer, tutti prendono parola e quasi tutti condannano l’iniziativa evidenziando l’avidità e l’arroganza con cui questi 12 club vogliono ridisegnare l’architettura del calcio globale.

Nell’ottica di chi ha sempre partecipato e osservato il movimento calcistico prediligendo la sua natura passionale, comunitaria e talvolta resistente, non possiamo di certo rimpiangere i tempi andati.

Coloro che piangono la perdita del monopolio, ossia UEFA e FIFA, sono gli stessi soggetti privati che hanno progressivamente mercificato e snaturato il pallone, l’emblema del politically correct, buono nemmeno a lavarsi la coscienza.

L’impatto di questa rivoluzione sarà profondo, come è pervasivo il calcio nella sfera sociale, culturale, politica ed economica di buona parte del pianeta.

Pensiamo quindi che il tema vada dibattuto e a partire da questo breve e volitivamente non onnicomprensivo testo ospiteremo contributi e anche lunghi post per sviluppare collettivamente delle pratiche utili a comprendere e (ribaltare?) l’ennesimo terremoto socio-economico.

Ci assumiamo l’onere di proporre qualche idea su due temi noiosi e meno prosaici: in primo luogo, delle considerazioni sui rapporti di forza tra i soggetti in campo ed infine la Super League come fase nuova del rapporto tra calcio e capitale.

Come brevemente anticipato la sfida è tra UEFA e Leghe nazionali contro la SuperLeague dei 12 che vogliono diventare 20, la FIFA sembra più defilata e guardinga.

La UEFA è una società privata nata nel 1954 in Svizzera a Nyon, dove ancora si trova la sede principale. Quindi, è l’organo che ha organizzato l’architettura del pallone europeo negli ultimi 70 anni. La sfera prettamente organizzativa è stata progressivamente accompagnata dal ruolo di mediatore finanziario, con questo termine si intende la funzione di distributore e regolatore dei flussi economici della sfera calcistica.

Com’è noto, di soldi ne hanno fatti girare parecchi ma in maniera sommaria si può affermare che l’ingresso delle pay tv nel corso degli anni ’90 ha accelerato l’accumulazione di capitale nel settore calcistico, così come la sua utilità nel riciclaggio.

Il ruolo dello show-business e del consumo produttivo come asse remunerativo dell’accumulazione contemporanea è ovviamente qualcosa che va ben aldilà del pallone ed ha investito e “valorizzato” ogni ambito dell’arte e dello sport.

Tuttavia nel calco più spudoratamente che altrove, l’obiettivo dei suoi governi, di nuovo UEFA e FIFA, è sempre stato un aumento costante del giro d’affari. La moltiplicazione delle partite e il calcio spezzatino sono andati avanti di pari passo alle speculazioni urbane: gli stadi; o al paradigma delle grandi opere per grandi eventi: europei, mondiali e olimpiadi.

Delle tante cose che si possono dire sul calcio degli ultimi 25 anni, partiamo da una che ci sembra una certezza: la competitività del sistema è stata drogata e minata dall’afflusso dei capitali e dalla loro sperequazione, istituita e regolata sia dalla UEFA che dalle leghe nazionali.

Gli stessi attori che oggi sono sul piede di guerra e parlano di uguaglianza, rispetto, solidarietà, valori sani dello sport; l’ennesima fiera dell’ipocrisia, ma chi si sorprende più di niente.

Il tema della sostenibilità dei conti del pallone, tuttavia, non è qualcosa che appartiene unicamente a chi, come noi, si fa promotore di palestre e squadre sportive popolari, ma è un argomento che da almeno 20 anni si trova sulle pagine dei giornali e nelle bocche degli addetti ai lavori.

La dinamica dei costi per competere è stato un problema degli stessi capitalisti che nel pallone hanno investito. Stipendi da capogiro, procuratori sportivi i cui conti in banca fanno impallidire i broker di Wall Street, cartellini dei calciatori da 220 milioni, si veda il caso Neymar.

Il motore della macchina si stava rompendo da un pezzo, infatti lo spauracchio della SuperLeague coglie di sorpresa solamente chi, anche giustamente, non passa la vita ad interessarsi di calcio e finanza.

I possessori del giocatolo, i vari Perez (Real Madrid), Blazer (Manchester United) e Agnelli, solo per citare i vertici della nuova lega, erano e sono consapevoli che all’interno dell’architettura odierna, per quanto essa fosse già diseguale, non si poteva massimizzare il profitto.

Se si elimina il mediatore, la UEFA, e si ridisegna l’architettura tutto è ancora possibile, anzi tutti i coinvolti ci guadagneranno, compresi i calciatori. Pensare che i sopra nominati e JP Morgan, la colonna finanziaria dell’iniziativa, non sappiano fare i conti è da sciocchi.

Come spesso accade, loro ci guadagneranno e tutti gli altri no.

Questa breve ricostruzione ci porta a pensare che non ci sia un bluff in corso, che i rapporti di forza non si possano ri-bilanciare in favore dei “12”, perché nell’attuale sistema non ci sono i margini. I “12” erano già al comando e si mangiavano la fetta più consistente della torta.

Tuttavia, con il Covid e la crisi di incassi, serviva qualcosa, una rivoluzione, e l’hanno fatta.

Passiamo quindi ad un secondo spunto che vorremo condividere, l’interpretazione della Super-League come nuova fase del rapporto tra calcio e capitale.

Il capitalismo contemporaneo è caratterizzato da una costante produzione e introduzione di moneta nel sistema. Tra Recovery Fund, Quantitative Easing e bazooka monetari vari.

Non ci dilunghiamo in ricostruzioni di storia economica, ma una certezza è la seguente, il mondo è inondato di dollari che cercano la loro allocazione più remunerativa.

Infatti, nonostante le crisi finanziarie stiano diventando sempre più frequenti e intense, se si osservano gli indici azionari di Milano, New York, Londra e Tokyo, sono tutti ai massimi storici.

Chi detiene tutta questa moneta, e qui arriviamo a parlare di JP Morgan, deve trovargli un uso alternativo alla sfera finanziaria.

Cosa c’è di più remunerativo di rivoluzionare il calcio insieme ai 12?

Seppur descritto in maniera molto semplice e sbrigativa, pensiamo che questo sia l’asse che porta JP Morgan, la quale possiede una capitalizzazione di mercato di 420 miliardi, ad invadere il pallone.

L’agenzia Reuters parla di 5 miliardi di investimento iniziale nella SuperLeague, bazzecole per loro.

Una multinazionale dei servizi finanziari talmente ricca, nonché intimamente legata alla banca centrale e al tesoro USA, che decide di ancorare parte della sua ricchezza finanziaria all’economia reale.

Perché il calcio, a differenza di molta spazzatura che gonfia gli stati patrimoniali delle istituzioni finanziarie e/o bancarie, ha un forte legame con i consumi, con la vita delle persone e con la dimensione “materiale” dell’economia.

Un settore che può sopravvivere e riprodursi in ogni crisi, magari negoziato e/o ridimensionato chissà.

Leggendola così quanto sta avvenendo è una naturale conseguenza del sentiero sempre più piramidale intrapreso dal capitalismo contemporaneo. Il calcio rappresenta la diversificazione di portafoglio per mettere al riparo i ricavi futuri dagli inevitabili scossoni che il “Casinò Capitalista” riserverà a tutti noi.

Con l’ambizione che ogni “crisi” si trasformi in opportunità, seguiremo attentamente gli sviluppi del giocattolo calcio. Chissà che passato il Covid, il calcio popolare non conosca un’ascesa.

Quella sì sarebbe un’età dell’oro del pallone.

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