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Che succede al rap? Parlano i P38: “A noi interessa rovesciare la narrativa dominante”

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La nona tappa dello Speciale di Zic.it: una conversazione sul ribaltamento degli stilemi della trap o del rap più classico, in primo luogo rispetto al machismo, alla misoginia, ai soldi, per “intaccare le certezze precostituite dalla ideologia consumistico-capitalista”.

La nona puntata dello speciale sulla situazione del rap in Italia: l’intervista ai P38 si aggiunge ai dialoghi con Ted Bee, FastCut, Inoki, Kento, Principe, Aban, Picciotto e al documento del Collettivo Kasciavìt e del Csa Baraonda di Milano sulla Piattaforma Pablo Hasél Libero.

Come nasce il gruppo P38?

Yung Stalin: “La P38 nasce attraverso Astore (terza voce del gruppo, non presente durante l’intervista, ndr), che aveva pubblicato un omonimo pezzo nel gruppo Facebook Odio di classe, scatenando un dibattito in cui poi aveva proposto la creazione di un collettivo ‘rap neo-militante’ che fosse aperto alla wave trap, ma con temi più aggressivi e meno ortodossi rispetto a quelli dei gruppi rap militanti più famosi…il progetto ha mosso i suoi primi passi on line, anche se io ai tempi non ero nel gruppo FB ma avevo un mio progetto parallelo da solista (Dead Trotsky Squad), poi un mio amico mi ha messo in contatto con lui”.

Quindi quanti siete?

Yung Stalin: “Con Papà Dimitri, che è il producer, siamo in totale quattro”

Jimmy Pentothal: “In passato il collettivo P38 era composto anche da altri membri, ma poi con l’uscita dei vari pezzi il numero dei membri si è ridotto a chi era più interessato al progetto…”

Yung Stalin: “Dando vita al comitato centrale…” (ride).

Jimmy Pentothal: “Sì, alla fine sono rimaste le persone che appartenevano di più al progetto artistico. La genesi del comitato centrale arriva certamente con il pezzo NUOVE BR, rappato appunto da me, Astore e Yung Stalin, e naturalmente con il suono a cura di Dimitri. Prima di allora il progetto non si era davvero strutturato, era mezzo estemporaneo. Diciamo che al tempo solo io e Astore avevamo una visione di più ampio respiro, di lungo periodo”.

Ascoltando i vostri pezzi si nota subito come i vostri riferimenti siano molto forti e le vostre influenze siano ben connotate, eppure la cosa che cattura di più è il ribaltamento che effettuate nei vostri testi verso gli stilemi della trap o del rap più classico: in primo luogo salta agli occhi quello rispetto al machismo e alla misoginia, ai soldi (visti come bisogno del proletario e non come strumento di riscatto individuale tipico del capitalismo imperante). Da cosa nasce questa esigenza?

JP: “Le parole essenziali per comprendere il progetto sono ribaltamento della narrativa: a noi interessa rovesciare quella che è la narrativa dominante della trap, perché è un genere nato da un determinato retroterra, quello del capitalismo feroce, dell’individualismo, del fare i soldi, del machismo; e nel disco il discorso del ribaltamento è presente, vivo, consolidato. Per esempio magari noi parliamo dei soldi, ma non ci interessano i soldi per diventare ricchi, per avere una sorta di riconoscimento in un mondo che ragiona in questo modo. Poi è anche vero che è difficile fare un discorso generale sulla narrativa del gruppo, ognuno di noi ha la sua e nemmeno ci interessa portare una nuova teoria politico-musicale. A noi interessa portare, ed è una cosa che interessa a tutti noi tre, un discorso altro rispetto a quello frutto del capitalismo dominante, e naturalmente di una serie di valori ad esso collegati, che non ci rispecchiano e non ci rispettano, e che per questo ribaltiamo all’estremo. Per intenderci, nessun proletario fa il suo interesse identificandosi in quel che dice la maggior parte dei trapper. Mancava qualcosa al genere trap, una narrazione basata su una visione anticapitalista e comunista della società, che parlasse di lotta di classe, di scontro politico (…)”

YS: “Noi crediamo che ci sia bisogno della lotta di classe, che se ne senta l’urgenza, anche in senso materiale, benché al momento non è certo che ne sussistano le condizioni… Aggiungo una cosa al discorso di Pentothal: a noi la trap, come genere musicale, piace. Musicalmente è incredibile, si è trattato di una boccata d’aria fresca. Abbiamo sempre ascoltato rap, conosciamo l’hip hop, ma al momento abbiamo l’impressione che sia un genere che si è arenato, si è perso nelle cazzate commerciali e autoreferenziali. Chi fa trap parla di Gucci, di vestiti, di moda, facendosi portavoce sano, o meglio inconsapevole, di una visione consumistica del mondo che poi non è altro che nichilismo distruttivo. Quindi il nostro riutilizzare determinati stilemi non attua solo un ribaltamento che sa di provocazione ma vive nell’andare ad intaccare le certezze precostituite date dalla loro ideologia di fondo, quella consumistico-capitalista. Riutilizziamo determinate formule, ma nella sostanza è di comunismo che stiamo parlando. Ci sembrava anche una maniera per andare oltre quello che è il classico rap militante, e qui aggiungo una cosa e la dico a livello personale, perché so che per esempio Astore la vede in maniera diversa, ma secondo me un determinato tipo di ambiente rap militante è anche molto reazionario, esempio ne è la reazione che ha suscitato la trap, che non è stata analizzata e di cui non si è capito appieno il potenziale (più tardi Astore confermerà di essersi allontanato dalla sottocultura hip-hop anche e soprattutto per il clima reazionario, ndr). Tornando invece allo scontro di classe vorrei dire che se nei nostri testi estremizziamo alcune tematiche o recuperiamo una sorta di epica degli anni ’70 è anche perché viviamo in un paese che non ha mai fatto i conti col suo passato, e magari tante persone nemmeno si rendono conto delle possibilità inespresse di quegli anni”.

JP: “Sicuramente nei nostri testi è presente una spinta provocatoria, quello che ci interessa è creare slanci…”

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Yung Stalin, tu hai polemizzato molto col modo di fare rap delle posse e ci tieni a sottolineare che non sei come un rapper militante degli anni ’90

YS: “La mia era una polemica soprattutto dal punto di vista contenutistico, i miei testi non sono assimilabili a quelli dei soliti rapper militanti, rivendico un passato e non solo come provocazione o memino. Penso che descrivere la realtà dal punto di vista interno dei soliti circuiti militanti non ha senso: all’interno della P38 sono quello che si ispira di più al socialismo reale, ormai confinato dall’ortodossia marxista ad una nicchia a sua volta iper-ortodossa, che non si scontra però con la realtà nella quale viviamo, fatta di estremo degrado, di droga, quando invece sono situazioni esistenti e con cui bisogna fare i conti, e in cui magari ricadiamo anche noi stessi benché sostenuti dalla nostra ideologia”.

Devo dire che in voi vedo anche molto un’attitudine punk, che poi si rifà anche un po’ al rap delle origini, almeno quello italiano, dove moltissimi gruppi che per primi hanno rappato venivano proprio dal punk.

YS: “Sì, su questo sono d’accordo, l’attitudine è quella, ed anche quel voler portare tutto all’estremo”.

JP: “Certo è che la trap come genere in toto eredita dal punk una certa postura, un look, una gestualità. Ma al momento il vero punk siamo noi, perché il discorso che portiamo avanti è quello della lotta al capitale, quello di smuovere davvero la realtà attraverso la nostra musica. Se per assurdo l’icona della trap mainstream è un mafioso alla Scarface allora noi la cambiamo con Moretti, è questa la nostra carica…”

YS: “Poi c’è da dire che nessuno di noi la vede alla stessa maniera. Abbiamo idee politiche molto diverse anche tra di noi. Proprio questo alla fine ci definisce artisticamente nella contraddizione, ognuno di noi ha la sua maniera di rappare e di veicolare i suoi concetti”.

JP: “In molti testi, anche nello stesso pezzo, diciamo cose diverse che a volte anche contrastano tra loro, creano incoerenze interne. Non che la cosa ci interessi, ovviamente. Crediamo nella sintesi”.

Qual è il vostro rapporto con l’hip hop?

JP: “Qui le posizioni sono molto variegate. Sicuramente Astore ha un legame molto stretto con la doppia H, e sono sicuro nel dire che per lui il progetto P38 sia indissolubilmente legato a quella che ritiene debba essere la naturale evoluzione dell’hip-hop. Un orecchio attento coglie subito che il suo modo di rappare è anche quello più classico, più attento alla metrica, alle rime, al rapporto strofa-ritornello, con influenze anche da altri generi. Yung Stalin è sicuramente quello più vicino alla Trap intesa in senso ampio. Io qui mi trovo sempre un po’ nel mezzo, con un rap magari più parlato, più slegato dalla base, più teatrale forse: do molta importanza al testo, lo immagino sempre come fruibile anche senza una base. Ma per tornare alla domanda io penso che ormai l’Hip Hop sia diventato un po’ contenitore vuoto, in cui ognuno mette la sua wave, almeno per quello che è adesso. Certo, poi sono cosciente di dovere molto alla storia del genere, anche perché gli schemi di linguaggio sono quelli. Ma per capire quello che facciamo non è importante che sia assimilato al contesto Hip Hop, a noi interessa andare oltre i generi”.

YS: “L’Hip Hop è una sub cultura, ascolto rap da quando ho 12 anni e ho una cultura sterminata per quel che riguarda il rap dei novanta ed almeno fino al 2004. Per anni, gli anni dell’università, non ho fatto altro che andare ad ogni tipo di Jam, facevo gare di freestyle. Ho sempre avuto una visione molto ortodossa dell’Hip Hop, talmente ortodossa che quando ci fu la conversione commerciale, da Fibra in poi diciamo, ho deciso di mandarli tutti affanculo. Mi sono sentito tradito, l’ho vissuta come la fine di quella sottocultura. A livello musicale è davvero diventato uno schifo inascoltabile che non avevo nessuna intenzione di supportare. Andavo ai concerti hardcore punk, ascoltavo musica industriale. Poi è arrivata la Trap che a livello musicale mi ha fatto impazzire. Uscì un nuovo inquinamento di suoni, un nuovo immaginario, che coincide poi cronologicamente con l’avvento della rivoluzione digitale. Mi sono accorto per la prima volta che qualcosa si stava muovendo dopo un lungo periodo di stagnazione, soprattutto vedendo come ragazzi più giovani di me stavano stravolgendo la scena, innovando tantissimo musicalmente … e difatti all’interno della P38 sono quello che ci tiene di più ad un particolare tipo di suono, a dre una matrice più trap al tutto, con commistioni anche Drill, di Hip Hop e di elettronica. A mio avviso più è complesso ed elaborato il sound, con una sua identità, anche cattiva, perché inserita in questo contesto storico, tanto più il testo riuscirà ad essere al passo coi tempi”.

JP: “Questo ci permette anche di veicolare un messaggio in grado di arrivare a quante più persone possibili, perché in questo momento la trap è il sound più pop possibile, ed al tempo stesso il più aggressivo. Potevamo anche fare un album reggae con gli stessi contenuti, ma noi volevamo un sound fresco, al passo coi tempi. Quindi su un suono che ormai è inteso come nuovo pop noi per contrasto carichiamo un messaggio forte. L’album comunque ha tante sfaccettature e anche pezzi solisti, dove ognuno si è sentito libero di fare quello che voleva e col suo sound di riferimento… tant’è che secondo me per assurdo sono proprio i pezzi solisti quelli dove si sente di meno la nostra narrativa, la narrativa P38 intendo, fatta di contrasti, di contenuti estremi ma con diversi punti di vista e il nostro modo di veicolare alcune tematiche che cozzano tra di loro…”

E qui arrivo all’ultima domanda, forse anche quella un po’ più stronza, ma con tutti i problemi che ci sono rispetto alle dipendenze, anche negli ambienti più militanti, come vi viene in mente di parlare di droga nei termini in cui lo fate, soprattutto considerando quelli che sono i vostri riferimenti ideologici?

YS: “Sono sicuramente io a parlarne di più, ma, con tutto il rispetto verso i compagni, mi sembra che in molti non si siano calati nella realtà di tutti i giorni…e dico proprio calati. La droga è ovunque, permea la realtà, e non parlo solo delle cannette. Permea anche alcuni ambienti compagni. Certo, poi dipende anche dalla struttura interna dei collettivi ed è ovvio che ci siano grosse differenze. Però c’è, e spesso governa le dinamiche anche di realtà che vorrebbero definirsi alternative al mondo esterno. La droga è parte della nostra società, ed è trasversale. Ti faccio un paragone: nei nostri testi parliamo dello scopare, ma non nei termini machisti che tanto si sentono in giro e che, sottolineo, ci fanno cagare e riteniamo estremamente sessisti. Noi parliamo di scopare perché ci piace, e rientra nella nostra libertà sessuale parlarne. Idem per le droghe, magari ne parlo in senso cinico, ma se sono parte della realtà in cui siamo cresciuti, una realtà bestiale, competitiva, indifferente e nichilista, perché dovremmo negarlo? Per assurdo è quella che ci ha reso gli uomini che siamo adesso…”

JP: “Per quanto mi riguarda un grosso problema quando si parla di politica e droga è che il tema viene completamente rimosso, diventa un gigantesco non detto. E nessun problema politico viene risolto se non se ne parla, o se lo si mette al centro solo per condannarlo. In molti ambienti militanti il problema delle droghe esiste ma è sempre un sottinteso, condannato e onnipresente. Questo come minimo sembra un po’ ridicolo. Si torna alla questione della narrativa: per noi mettere nel centro discorso le droghe è una provocazione anche verso i compagni, che non affrontano o fingono di non vedere. E poi parlare di droghe è riduttivo, noi parliamo anche di ben peggio… Sempre con l’intento di evocare, di mettere al centro, di sconvolgere”.

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