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Le monde est à nous

Rap e seconde generazioni: dare voce ai senza voce

da Machina

In questo articolo, Amir Issaa si occupa non soltanto di ricostruire la storia della cultura hip hop americana ma anche di ricercare i soggetti che l’hanno recepita e riproposta sull’altra sponda dell’Atlantico negli anni Novanta. Sono questi gli anni in cui l’hip hop si è definitivamente imposto in Europa e in Italia, diventando una vera e propria cultura, grazie all’intreccio coi fenomeni migratori. Oggi il rap, come ci racconta l’articolo, è lo strumento delle cosiddette seconde generazioni per raccontare cosa significhi essere davvero quelli al centro del mirino, disprezzati da buona parte della società e del discorso mediatico, quelli per cui lo Stato «è solo stato di minaccia».

Di questo e di tanto altro parlerà l’autore nell’evento Boyz n the Hood all’interno del Festival 7 di DeriveApprodi, Anni Novanta: quando il futuro è finito, che si terrà sabato 18 maggio alle ore 18.30 a Bologna, alla casa di quartiere Scipione dal Ferro in via Sante Vincenzi 50.

 ***

Sono sbarcato a Milano e manco sapevo parlare italiano

Ora rappo in italiano, tunisino dentro al rap italiano.

 

Una mattina, mentre ascoltavo musica su Spotify, capito casualmente su questa canzone di Keta e Simba La Rue che si chiama Glide, e questa frase rappata da Keta, nome d’arte di Aziz Khemiri, un rapper classe 2001 italo-tunisino cresciuto nel quartiere milanese San Siro, cattura la mia attenzione aprendo una riflessione che già sedimentava nella mia testa da tempo: quanto è cambiato il rap in Italia grazie alle seconde generazioni rispetto a quando ho iniziato io negli anni ʼ90?

Ricordo ancora i titoli dei giornali nel periodo (parliamo dei primi anni del Duemila) in cui pubblicai il mio primo album Uomo di prestigio: mi descrivevano come se fossi qualcosa di nuovo, quasi di esotico, sicuramente di strano. «Amir, il primo rapper di seconda generazione» oppure, in modo ancora più fuorviante, «Amir, rap per immigrati» (Corriere della sera, 28 giugno 2006): come se non potesse esistere musica rap in lingua italiana, scritta da un figlio di un immigrato, che avesse come target tutti gli ascoltatori di questo genere musicale nel paese, autoctoni e non. Come se la musica si dividesse in compartimenti stagni a seconda del pubblico, «nativo» o immigrato: musica pop per italiani e musica pop per immigrati, jazz per italiani e jazz per immigrati, funk o rock per immigrati o per italiani. Music for white people only, music for colored people only. Musica segregazionista, musica da apartheid.

Se dovessimo stilare una classifica dei rapper più ascoltati in Italia oggi, ci renderemmo conto che più della metà ha i genitori che sono venuti da un altro paese. A partire da Ghali, uno dei più conosciuti dal grande pubblico anche al di fuori degli ascoltatori di rap, fino ad arrivare ad altri come Baby Gang, Neima Ezza, Simba La Rue, Chadia Rodriguez, Sacky, Lina Simons. Sono talmente tanti altri i nomi da citare che sarebbe difficile inserirli tutti in un elenco esaustivo, anche perché mentre sto scrivendo la situazione è in pieno fermento ed evolve in continuazione. Attualmente in Italia, ogni giorno, c’è un nuovo rapper di seconda generazione che pubblica un brano; questa storia, però, ha radici forse più profonde e sfaccettate di quel che si crede, che vorrei esplorare in questo articolo.

  Per poter parlare dell’impatto che ha avuto il rap sulla società italiana in relazione alla presenza delle cosiddette «seconde generazioni» è fondamentale fornire prima di tutto un quadro generale di come è nata la cultura hip hop negli Stati Uniti, di come si è diffusa in Europa e del suo valore a livello sociale.

Ci tengo a fare una premessa: si tratta di fatti già molto noti la cui veridicità, in alcuni casi, è ancora dibattuta tra i membri stessi della comunità di riferimento, motivo per cui ciò che sto per raccontare consiste in una serie di informazioni di cui sono venuto a conoscenza tramite articoli, libri e siti web dedicati o tramite racconti, tramandati nel tempo, di altri appassionati come me.

La cultura hip hop nasce all’inizio degli anni ’70 a New York, più precisamente nel Bronx, dalle minoranze che abitavano il quartiere (in prevalenza la comunità afroamericana e quella latina) in un momento storico in cui la povertà e la violenza dominavano le strade della città. Si tratta di un fenomeno culturale rivoluzionario: per la prima volta persone provenienti dallo strato più basso della società scelgono di incanalare rabbia e frustrazione legate all’emarginazione sociale in determinate forme d’arte, anziché sfociare nella violenza. È così che nascono i cosiddetti «quattro elementi» fondativi dell’hip hop: l’espressione del corpo è il breaking, quella visuale è l’aerosol art anche nota come graffiti art, quella vocale è il rap, e la parte musicale è il DJing. La prima festa che diede vita a questo movimento fu organizzata l’11 agosto 1973 in un sottoscala che si trovava al numero 1520 di Sedgwick Avenue, nel Bronx, da Clive Campbell, un dj nato in Giamaica che si faceva chiamare Kool Herc, e da sua sorella Cindy. Nel 2023 si sono celebrati i 50 anni dalla nascita del movimento, e da quel fatidico giorno, di strada ne è stata fatta: oggi possiamo considerare l’hip hop un vero e proprio movimento globale. Dal Giappone alla Svezia, dal Marocco all’Italia, non c’è angolo del pianeta Terra in cui la «doppia H» non abbia lasciato un segno del suo passaggio.

Uno dei motivi della sua espansione su larga scala, va detto, è legato proprio ai fenomeni migratori: difatti, anche solo guardando all’Europa, non è casuale che l’hip hop abbia trovato terreno fertile in quelle nazioni dove il melting pot culturale era già presente da tempo nella società. Mi riferisco soprattutto a Francia e Inghilterra, due Paesi che hanno dovuto fare i conti con le conseguenze del colonialismo ben prima di altre, e dove le comunità di cittadini con background migratorio erano già numerose. L’ibridazione a livello culturale di queste nazioni non ha risparmiato neanche il campo musicale, ed è stato sicuramente più facile per chi aveva parenti in Giamaica, nelle isole caraibiche oppure in Nord Africa, come nel caso della Francia, sentirsi rappresentati da una cultura che trova proprio nel «meticciato culturale» un punto di forza.

Parlando invece dell’arrivo dell’hip hop in Italia, bisogna considerare il nostro paese come un caso a parte: i primi rappresentanti delle quattro discipline erano nella maggioranza dei casi tutti autoctoni. Ci vorranno più di vent’anni prima che l’hip hop italiano, in particolare il rap, diventi a tutti gli effetti un movimento multiculturale, un vero e proprio strumento per dare voce alle seconde generazioni. Questo fatto è molto interessante, perché l’Italia stessa è stata un paese colonizzatore, e il flusso di immigrazione, specialmente dalle ex colonie nel Corno d’Africa, è stato assolutamente presente dal secondo dopoguerra ad oggi, tanto che le più grandi comunità etiopi ed eritree in Italia si trovano a Roma, Milano e Bologna, con una storia di insediamento ormai più che trentennale. Il fatto che, però, gli esordi dell’hip hop in Italia non siano legati maggiormente alle minoranze già presenti nel territorio è una particolarità che prima o poi sarebbe interessante studiare.

In questa ricerca, però, voglio soffermarmi principalmente sulla musica rap in lingua italiana come mezzo espressivo scelto dai figli di immigrati. Per farlo, ho deciso di prendere in considerazione anche i rapper italiani autoctoni che, nei primi anni ’90, raccontavano in rima storie di emigrazione: si trattava, però, di migrazione interna allo Stato stesso, e cioè quella di coloro che per motivi economici si spostavano dal Sud al Nord Italia. Questi artisti, infatti, erano spesso figli di genitori partiti dal Mezzogiorno, e raccontavano nei loro pezzi le discriminazioni subite da chi, nonostante fosse italiano al 100%, veniva considerato «straniero nella propria nazione» solamente perché aveva origini meridionali.

  Sono figlio di un immigrato egiziano e di una donna italiana: per questo motivo, già da quando ero piccolo, provavo un’attrazione particolare verso i rapper che affrontavano nei loro testi il tema dell’immigrazione e forse, ancora più in generale, il senso di estraneità che si può sentire in un certo contesto, il sentirsi stranieri rispetto a qualcosa o a qualcuno.

Ricordo bene, quindi, che rimasi folgorato dall’ascolto del singolo Slega la Lega degli F.C.E. (Fuckin’ Camels ‘n Effect), una crew bolognese che ha tra i suoi membri uno dei primi rapper di origine straniera, Yared Tekeste, il quale nel 1992 pubblicò per la Century Vox Records questo pezzo, una vera e propria dichiarazione di guerra in rima contro la Lega Nord. Il brano vede la partecipazione anche dei rapper Gambino e Galante, mentre la base è realizzata da Dj Fabri – una figura importante, scomparsa di recente, della scena musicale. Leggendo il testo si nota il riferimento al colore della pelle e ai pregiudizi che venivano diffusi dal partito della Lega Nord, che in quegli anni stava aumentando in maniera consistente il proprio consenso popolare in termini di voti. In queste barre vengono descritti chiaramente anche gli effetti negativi che questa propaganda ha sullo stesso Yared, bolognese di origine eritrea:

E tutto appare come un’immagine in una foto in bianco e nero

dove io parto da zero 

perché zero o niente

è il rispetto che porto per chi mente,

per chi crea pregiudizi tra di voi, 

tra la gente

Chi fa nascere paranoie,

schizzi e paure dentro di me,

dentro la mia mente

(Brutta-bru-brutta storia)

 

Chi vuol mettere in pratica antiquate,

stupide e spente idee 

perché, perché

si sente differente da meper un fatto di colore, provenienza o d’accento

so solo che 

nel 1992 la Lega crea pregiudizi tra la gente:

mantieni la tua mente indipendente…

(Yared aka il Grand Daddy Kush, pioniere e fondatore della F.C.E., della PL Click e della PL Records, nonché creatore del termine «Bolo» e del Bolo Slang)

Negli stessi anni uscì un altro brano, Immigrato dei Comitato – un gruppo formato da Zippo, Dj Enzo e Dj Sasha – titletrack dell’album omonimo pubblicato nel 1993 con la Polygram, che mostrava un certo parallelismo che c’era tra la vita delle persone emigrate dal Sud al Nord Italia in cerca di lavoro e quella di chi arrivava dall’Africa. Riporto alcuni passaggi del testo:

 

Un uomo partito da una terra lontana

aveva sentito che a Milano lavoro si trovava

Non certo per la fame era stato spinto ad andare a rincorrere quei sogni

Sarà più fortunato: speranze d’immigrato in un’Italia bisognosa e povera, misera

Poco generosa, la fame lo spinse a viaggiare: rimedio più efficace di sicuro

Senza pausa lavorare, senza tempo per pensare al futuro

Vita fatta da ogni attimo importante, ogni istante più duro

Trattato come un cane l’uomo siciliano, ma sempre italiano,

gli urlavano «Africano, tornatene a casa, qui non ti vogliamo».

(Zippo)

 

L’anno successivo si aggiunge un nuovo gruppo rap nell’affrontare il tema del razzismo istituzionale, e lo fa con un tempismo quasi inquietante, profetico: sto parlando dei Sangue Misto, trio composto da Neffa, Deda e Dj Gruff, che nel gennaio del 1994 pubblica con la Century Vox un disco considerato ormai da tutti un classico del rap italiano, SXM. Con questo album i rapper attaccano senza mezzi termini la nuova coalizione nazionalista che si è appena formata e che avrebbe vinto le elezioni politiche di lì a pochi mesi: l’alleanza tra la Lega Nord di Umberto Bossi e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Nel disco, infatti, compare la traccia Lo straniero nella quale la crew racconta in rima le difficoltà di chi da «straniero» si trova a vivere in Italia in quel momento, subendo il razzismo e la discriminazione causati soprattutto da un nuovo clima sociale xenofobo, alimentato proprio dai due partiti che avevano fatto della lotta all’immigrazione clandestina il loro «cavallo di battaglia». Questo il punto di vista di chi si trova al centro del mirino, attraverso le barre di Neffa:

 

Io sono il numero zero:

facce diffidenti quando passa lo straniero – in sclero, teso vero,

vesto scuro, picchio la mia testa contro il muro,

sono io l’amico di nessuno, stai sicuro:

resto fuori dalla moda e dallo stadio,

fuori dai partiti e puoi giurarci, io non sono l’italiano medio,

ma un cane senza museruola

la N, E, la doppia F, A, passaparola,

chico, canta che ti passa, ma non mi passa più

A testa bassa,

la repressione mi butta giù, schiaccia

Quando lo sbirro mi dà i pugni nella faccia,

per me lo Stato è solo stato di minaccia

quando vedo il tunisino all’angolo che spaccia,

la nera presa a schiaffi dal magnaccia,

io so

che è tutto Made in Italy, perciò

non chiedermi se canto Forza Italia o no.

 

In questo pezzo così intenso è sicuramente da menzionare l’entrata di Neffa anche nella terza strofa, in cui il rapper, italiano con origini campane, ricorda le offese ricevute a scuola da bambino, solamente per il fatto di venire dal Sud, in cui per schernirlo veniva paragonato a un marocchino. È un modo per mostrare come un certo razzismo italico ci sia sempre stato, e come nei primi anni Novanta la diffidenza verso i meridionali non sia sparita, ma sia stata solo tristemente affiancata da quella verso gli stranieri, specie quelli di origine africana. Sembra una sorta di omaggio al testo dei Comitato:

 

Io quando andavo a scuola da bambino

la gente nella classe mi chiamava «marocchino»,

«terrone»: «Muto! Torna un po’ da dove sei venuto!»

e questa è la prima roba che ho imparato in assoluto

 

Questo brano mi entusiasmava e mi entusiasma tutt’oggi. Trovo davvero interessante il fatto che il termine «straniero» in questa canzone venga usato in senso molto ampio: i bersagli politici della Lega Nord, infatti, non erano solo i migranti, ma appunto anche i meridionali, cioè gli italiani del Sud, tanto che questo partito chiedeva a gran voce la secessione di tutte le regioni riunite intorno alla pianura padana per costituire un nuovo Stato, la cosiddetta Padania.

Anche il ritornello del pezzo dei Sangue Misto è significativo:

 

None, none… E la mia posizione è di straniero nella mia nazione.

 

E qui veniamo a me: è stato proprio l’ascolto di questo brano ad ispirarmi per la realizzazione del pezzo Straniero nella mia nazione incluso nell’album di debutto Uomo di prestigio, pubblicato nel 2006 con la Virgin Records. Questo è il primo brano della mia discografia in cui ho iniziato a raccontare con il rap la realtà dei ragazzi di seconda generazione, e oltre ad essere uno sfogo personale messo in musica, era anche un omaggio al brano sopracitato. 

 

Nato in Italia, Amir, scritto sulla sabbia,

prendi il mio nome e lo traduci: «principe d’Arabia»

Una voce che strilla da Roma fino a Taba,

in questa società fredda cerco aria più calda.

Figlio dell’amore e del cuore di due persone,

un mix di sangue, culture, razze e religione.

So’ qui come portavoce, scendo in missione

contro la disperazione che affligge troppe persone.

Seconda generazione, guardo mio figlio, è la terza,

e te provi a sfiorarlo, te salta la testa.

Non lo capisci, che hai trovato la ricchezza?

Noi, pietre preziose in mezzo a tutta ‘sta monnezza.

Scrivo con la fame di chi non si rassegna,

prendo il vostro odio e lo trasformo in questa penna.

S.O.S., bilancio negativo

se mi sento uno straniero nel posto dove vivo […]

S.O.S., pronto all’esecuzione

se me chiamano «straniero» nella mia nazione.

 

Questa canzone segna l’inizio di un percorso personale in cui mi sono dovuto scontrare per la prima volta nella mia vita con il pregiudizio e lo stereotipo di essere un ragazzo italiano di seconda generazione. Quando scrissi il testo, lo feci in maniera del tutto spontanea, e non mi sarei mai aspettato di trovarmi per un lungo periodo al centro dell’attenzione mediatica, dovuta soprattutto all’operazione di marketing messa in piedi dalla Virgin Records che, per promuovere l’album, fece leva esclusivamente sul fatto che il mio fosse «il primo disco di un rapper italiano di seconda generazione».

  Fu un momento difficile da affrontare: mi ritrovai ad essere intervistato sui più importanti giornali italiani, o invitato in trasmissioni televisive, spesso insieme a qualche politico nazionalista di destra (solitamente proprio della Lega Nord), per parlare solamente di temi politici legati all’immigrazione; in alternativa, mi veniva chiesto di parlare di religione islamica in relazione al terrorismo, dando per scontato che solamente per il mio nome e cognome io dovessi essere musulmano, quando nella realtà dei fatti non sono nemmeno battezzato e sono cresciuto con un’educazione principalmente cattolica. In quei contesti non si parlava più della mia musica. Rapper non bianco e con un nome arabo: ero diventato un perfetto bersaglio da mettere al centro del circo mediatico. Mi sentii strumentalizzato.

Tutta questa frustrazione diventò, quindi, la miccia per realizzare un altro brano dal titolo Non sono un immigrato, che inserii nella tracklist del mio secondo album indipendente Paura di nessuno, pubblicato nel 2008, in cui feci un elenco di tutti gli stereotipi e pregiudizi che mi ero sentito incollato addosso, scrivendo una sorta di elenco in rima usando la tecnica della negazione.

 

Non mi devo integrare, io qua ci sono nato;

io non sono mio padre, non sono un immigrato,

non sono un terrorista, non sono un rifugiato:

mangio pasta e pizza, io sono un italiano.

Mi chiamo Amir come te ti chiami Mario,

non vengo dal deserto col turbante e il dromedario,

non ho una bancarella, io non vendo tappeti,

non sono un clandestino, non faccio il lavavetri.

Chiamami «l’infedele» perché il mio sangue è impuro:

non mi devi accettare, io sono già il futuro.

Io non mi vesto male, non mi sento sfigato,

non sono un ricercato, non mi chiamo Bin Laden:

sono cresciuto qua, sotto le vostre case.

Mi chiami per votare, per fare il militare,

mi chiedi i documenti, te li mostro tranquillo:

italiano, e dal cognome fatichi a capirlo.

 

La gente m’ha confuso con un immigrato,

La gente m’ha confuso con un immigrato,

Con la faccia da straniero nella mia nazione,

mi danno dello straniero per il mio cognome

La gente m’ha confuso con un immigrato,

La gente m’ha confuso con un immigrato,

Con la faccia da straniero nella mia nazione,

Se il futuro qui è la seconda generazione

 

La gente m’ha confuso con un immigrato,

e su un giornale hanno scritto che sono musulmano.

Non vengo in trasmissione per fare più colore,

e la prossima volta lo ammazzo, il conduttore

ancora che mi chiede se mi piace il kebab,

se mi piace il couscous, se faccio il Ramadan;

lasciatemi cantare, perché ne sono fiero:

io sono un italiano, un italiano vero.

Non faccio il muratore, non vendo gli accendini,

io sono andato a scuola insieme ai vostri figli;

la mia generazione, il tuo incubo peggiore,

e non puoi controllarla dal nome o dal colore:

con gli occhi da cinese, capelli da africano,

ci prendiamo le strade da Palermo a Milano.

Figlio di un albanese, figlio di un egiziano:

figlio di questa terra, sono un nuovo italiano.

 

A modo mio, anch’io ho avuto modo di provocare esplicitamente la Lega Nord proprio per la sua retorica xenofoba, la principale responsabile dei freni legislativi alla riforma della legge sulla cittadinanza italiana, che ancora oggi, dopo più di trent’anni, si basa sul concetto agghiacciante di nazionalità legata alla «purezza di sangue», ovvero lo ius sanguinis, contrapposto alla libertà di nascere e ottenere in automatico la cittadinanza del paese in cui vieni al mondo, sancita dal principio dello ius soli. Insomma, anche io arrivo a dire la mia contro questa legislazione e questo clima apertamente razzista che stava portando ad un conflitto sociale sempre più acceso tra le persone, e lo faccio in un mio pezzo del 2014, Ius Music, che difatti ha tristemente scatenato le reazioni, anche violente e intimidatorie, della Destra più estrema e neofascista. Le barre «incriminate» erano queste:

 

I miei fratelli sono afro-fieri, Maghreb e cinesi,

filippini con i piedi qua e il sangue da altri Paesi,

chi ha la madre che lavora nelle case di ignoranti

che abbandonano le loro sole in braccio alle badanti.

Gente stupida, rimasta ancora al Medioevo,

li sveglio di notte: sono l’incubo dell’uomo nero.

E se il futuro è il nostro, lo vogliamo in esclusiva,

stanchi di elemosinare diritti e metterci in fila.

Da Palermo a Torino scoppierà un casino,

se l’Europa è un’altra storia, se Roma non è Berlino.

È la paura di qualcosa che ormai vive qua vicino,

e non ti salverai in Padania: non esiste in nessun libro.

Non sono un G2, italiano col trattino[1]:

una Fiat Uno col bazooka sul tettino.

È la storia di un normale cittadino

impazzito: era clandestino, adesso è un assassino.

 

Credo che questa canzone sia ancora tristemente attuale: tuttora la faccio ascoltare nelle scuole in cui lavoro e cattura sempre l’attenzione di molti ragazzi, soprattutto quelli di seconda generazione. E qui veniamo al pubblico che ascolta rap oggi: rispetto a me, che non avevo molti esempi di artisti che vivevano la mia stessa condizione di «straniero nella mia nazione», i giovani di questi ultimi anni sono pieni di idoli musicali razzializzati come loro: Baby Gang (l’artista più ascoltato in Italia su Spotify, è notizia di qualche giorno fa), Ghali, Simba La Rue, Neima Ezza, Sacky e tanti altri.

Non solo: la vita di strada che questi rapper raccontano è realmente un’esistenza passata nel ghetto, molto più simile a quella che i fan italiani della cultura urban degli anni ’90 potevano trovare nelle banlieue mostrate in opere come il film La Haine di Kassovitz o nelle barre delle canzoni degli NTM. Quel che è cambiato in Italia, infatti, è chi vive oggi dentro quei ghetti: che sia Rozzano, Baggio o Cinisello Balsamo vicino Milano, che sia Tor Bella Monaca a Roma o Scampia a Napoli, dentro i palazzoni di queste periferie ci nascono e ci vivono sempre più persone che lo Stato fatica ancora oggi a riconoscere come italiane. Con tutta la carica di odio che questo comporta: rancore che tuttora viene sfogato (anche) sotto forma di rap.

Questo è il frutto più recente della rabbia e della voglia di riscatto di Baby Gang e Simba La Rue: il pezzo Assistente sociale, tratto dall’album L’angelo del Male uscito proprio adesso, nel 2024, per la Warner Music:

 

Quanto fuoco vedo verso il governo,

quanta rabbia che ho tenuto qui dentro:

fuori e dеntro, fuori e dentro

minorili in sovraffollamento,

maggiorеnni messi in isolamento

sopra un letto duro come il cemento,

«Zitto in silenzio, zitto e aspetta:

la tua ora non è ora, dai retta».

Ho venduto fumo, coca e erba,

figlio di una famiglia onesta,

solo col figlio che odia e detesta.

Tutta la gente che non gli interessa

dei quartieri disagiati, delle case popolari,

di quelle famiglie dentro quei monolocali:

se non facessimo reati, saremmo stati diplomati,

magari pure laureati;

mi han portato via da Papi e Mamy (ueh, ueh)

(Baby Gang)

L’assistente sociale mi voleva in tribunale,

mi voleva portare via dalla mia mamma:

casa-famiglia a dieci anni, ti sembra normale?

Sono nato con le manette e una condanna.

(Afa Bang)

Baby Gang, Simba La Rue, Neima Ezza: sono questi, gli eredi di un tipo di rap che, certamente a proprio modo e con uno stile anche molto diverso da quello originario, raccontano cosa significhi essere davvero quelli al centro del mirino, disprezzati da buona parte della società e del discorso mediatico, quelli per cui lo Stato «è solo stato di minaccia» fin da quando sono nati «con le manette e una condanna». Quasi come nuovi Hubert, Vince e Said, vivono le proprie esistenze dentro immensi palazzoni fatiscenti nella periferia più grigia e feroce, ma la differenza è che da quelle case popolari pubblicano canzoni da milioni di stream con cui si comprano abiti firmati, auto di lusso e regali per le proprie madri. Loro lo sanno, te lo sputano nelle barre, che la nuova scena è tutta loro, il mondo è loro, le monde est à nous: almeno fino alla prossima rissa, al prossimo arresto, alla prossima caduta. Ripetendosi, nel frattempo, «Fino a qui tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio».

Note

[1] «Italiano col trattino» si riferisce al fatto che le persone italiane con origini straniere vengano definite specificando le loro origini separate da un trattino: es. italo-cinese, afro-italiano, italo-indiano ecc.

***

Amir Issaa, rapper e scrittore. I suoi testi raccontano l’attualità, il razzismo, le seconde generazioni. Tra i suoi ultimi testi pubblicati, Rime Amore Poesie (Red Star Press, 2023), Educazione rap (Add editore, 2021) e This is What I Live For (SDSU Press, 2023) che ha presentato in varie Università americane.

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“La violenza è intesa così come la mediazione principale. L’uomo colonizzato si libera nella e per la violenza”. (F. Fanon, I dannati della terra) Di Emilio Quadrelli da Carmilla La “grana” era nell’aria da tempo, che la “questione dei minori stranieri non accompagnati” dovesse prima o poi esplodere era solo questione di giorni. Di ciò […]