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Difendiamo Franco Costabile e la sua poetica dallo sciacallaggio politico!

Caroselli, feste, litigate e sciacallaggi. Sono quest’ultime le condizioni in cui la città di Lamezia si è trovata ad “onorare” il centenario della nascita del grande poeta sambiasino Franco Costabile.

da Addùnati

Lui, che ha sempre parlato a nome degli ultimi, che ha cristallizzato nei propri versi (e reso eterno) il drammatico mutamento sociale ed economico che la nostra città ha vissuto nel passaggio da un’economia rurale ad una pseudo economia preindustriale, non meritava di essere celebrato in questa maniera. Passerelle politiche che si sono trasformate in nient’altro che occasioni per poter prendere il microfono e inneggiare ai «grandi meriti» che la classe dirigente della nostra città ha avuto nell’organizzare iniziative in sua memoria. Era Costabile stesso, del resto, a denunciare poeticamente con versi attualissimi l’incoerenza della politica:
“Elezioni,
processioni,
damaschi
sui balconi.
L’onorevole
torna calabrese”.

Quella del centenario della nascita del poeta, al contrario, poteva essere una data cruciale per poter riflettere, attraverso una rilettura dei suoi versi (sia da un punto di vista esclusivamente letterario, che sociologico e antropologico), su alcune questioni capitali che ancora oggi attanagliano la nostra terra. Con questo breve articolo vorremmo metterne in evidenza alcune, con la speranza che possa essere inaugurata una nuova discussione sui versi del poeta che lasci da parte ogni velleità arrivistica.
Le raccolte poetiche di Costabile, pur nella diversità che le contraddistingue, vertono tutte intorno a una serie di problematiche centrali: l’emigrazione, veleno che allora come adesso inquina e rovina il nostro territorio; la ndrangheta e l’omertà; ma, ad essere centralissima, è la questione lavorativa, nello specifico lo stato di sfruttamento in cui la classe dei braccianti si è trovata ad operare (e continua, pur in forme totalmente diverse, ad operare ancora adesso). Partendo dal primo aspetto evidenziato, non c’è punto di partenza migliore che quello di ritornare alle poesie di Costabile:
“Splende
la piazza
già tranquilla
di cielo
e di botteghe,
ma quei ragazzi
andati al Venezuela
hanno scritto la loro ombra
lungo i muri”.

La poesia, così come i muri della piazza, ha la funzione di cristallizzare quello che Vito Teti ha definito il sentimento della «restanza», concetto che porta con sé la duplice significanza del voler restare ma anche del voler tornare. La centralità di questo sentimento si evince attraverso una compulsiva ripetitività tematica, che trova la propria summa nel testo Epitaffio:
“Aveva
una vigna
in collina
ma
è morto
a Milwauke
non qui”.

La centralità di questo testo è individuabile attraverso il legame messo in evidenza poetica tra la questione del bracciantato, inteso in un senso di sfruttamento e caporalato agricolo, e la necessità di dover partire. Quella lavorativa, del resto, è una tematica che nei versi del poeta trova una centralità importante prendendo le forme della denuncia vera e propria. Non c’è infatti alcun tipo di mitologizzazione della vita agreste (sul modello, per esempio, del Pascoli), ma al contrario una rabbiosa accusa contro i proprietari colpevoli di prosciugare la forza lavoro dei contadini e delle contadine, ai quali non resta altro che il riposo notturno. Sul contrasto tra la luce del giorno e il buio della notte, d’altro canto, si gioca gran parte della genialità poetica di Costabile: il sole, infatti, è «sacramento dei pezzenti», è il ritorno ai campi, alla dura realtà dello sfruttamento; la luce non è altro che «l’alba calabrese/ che ruba al contadino/ anche il sonno.», laddove la notte è luogo e tempo di libertà, di riposo, di riacquisizione di uno spazio d’azione. Ma la notte è anche possibilità di ricchezza e moltiplicazione. Allora, «freddo e fame» della giornata lavorativa diventano, di notte, l’occasione per arricchirsi dell’unica cosa possibile a un bracciante:
“Freddo e fame a gennaio
lunghissima notte, e per scaldarsi
mettono al mondo altri figli”.

Ma la notte non è solo un Eden di libertà, è anche il momento privilegiato per il crimine: è di notte che gli omicidi si commettono, ed è di notte che il silenzio dell’omertà e della paura si trasforma nel terreno fertile per le ndrine. La denuncia in quel caso diventa grido d’aiuto. Un grido strozzato, manchevole di forza, che va ad inserirsi in un contesto poetico che nelle prime raccolte di Costabile manca ancora di una verve polemica capace di trasformarsi in denuncia politica vera e propria. Sarà soltanto con l’ultima opera, Il canto dei nuovi emigrati, che ogni residuo mitologico lascerà il posto a una poetica rabbiosa che denuncia non solo la condizione di abbandono delle terre calabre, ma anche il ruolo centrale che gli emigrati meridionali hanno avuto nella costruzione del presunto progresso industriale del nord Italia e dell’Europa tutta:
“Ce ne andiamo
con dieci centimetri
di terra secca sotto le scarpe
con mani dure con rabbia con niente”.

Ma non è più solo il tempo di mettere in evidenza una condizione di sfruttamento, è anche il momento della consapevolezza di un io collettivo che presa coscienza della propria condizione e importanza, grida con forza poetica la rivendicazione di uno status:
“Siamo
in 700 mila
su appena due milioni.
Siamo i marciapiedi
più affollati.
Siamo
i treni più lunghi.
Siamo le braccia
le unghie d’Europa.
Il sudore Diesel.
Siamo
il disonore
la vergogna dei governi.
[…]
Siamo
l’odore
di cipolla
che rinnova
le viscere d’Europa”.

È con questi bellissimi versi del Canto che vogliamo chiudere questa breve, incompleta ma – crediamo – necessaria riflessione sulla poetica di Costabile. L’invito che vogliamo fare è quello di ripensare le sue problematiche in chiave attuale, liberando i suoi versi dallo sciacallaggio politico e riappropriandoci di una storia letteraria, antropologica e sociale che è ancora, drammaticamente, nostra. Del resto, diceva Nanni Balestrini che ogni letteratura «essenzialmente trasmette messaggi politici», e in questo turbolento e pericoloso autunno di repressione, nel bel mezzo del tentativo politico di dividere ancora di più il nostro paese attraverso l’autonomia differenziata, riappropriarci della nostra storia può essere una delle modalità attraverso cui è possibile individuare dei nuovi strumenti di lotta e resistenza.

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