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Django scatenati

All’arte del gioco i bambini ricorrono, spesso, per affermare la giustizia, consumare le vendette, concretare i desideri, che nella realtà non si ha la forza, la potenza, di realizzare. Il gioco è, in questo caso, una compensazione dell’impotenza, uno sfogo che aiuta a ri-affrontare una realtà insoddisfacente che non si riesce a modificare nel senso voluto. Il cinema hollywoodiano ha fatto (e fa) grande uso di questa tecnica compensatoria, accompagnando lo spettatore nel profondo del suo sentimento di ingiustizia, ma inducendolo a esaurirlo completamente all’interno del sogno: prima o poi giustizia, vendetta, desiderio si realizzeranno, magari con l’arrivo dell’apposito “angelo”. Ciò che conta è che lo spettatore non si preoccupi di doversi impegnare in prima persona per realizzarli, ma rimanga nell’in-azione.

All’arte del gioco si può ricorrere, però, anche per un motivo opposto: per predisporsi meglio ad affrontare una situazione problematica, riflettere sulle difficoltà, programmare le proprie mosse, infondersi coraggio. È Il motivo per cui, molto probabilmente, gli uomini primitivi graffitavano sulle pareti delle caverne le scene di caccia: essere capaci di disegnarle equivaleva a essere capaci di metterle in pratica. Il gioco, dunque, come preparativo, non come sostitutivo, dell’azione.

Con quale delle due finalità Tarantino imposta il suo gioco in Django Unchained? Bisognerebbe chiederlo a lui, ma, la sua risposta non sarebbe, in ultima istanza, importante, essendo un’altra la vera domanda da porre: cosa provoca il suo gioco nello spettatore?

Chi fa parte della “razza” che nel rapporto schiavistico era la parte che opprimeva, se va a vedere il film, verosimilmente reagirà in due modi: considerare il film come il solito film di Tarantino, piacevole, intelligente e parossisticamente eccessivo, oppure, se ne percepisce anche un valore storico-politico, concluderà che i bianchi schiavisti di allora si sarebbero davvero meritati la sorte che il finale gli riserva, ma si sentirà pienamente assolto per il semplice fatto di vivere in un momento storico in cui il tipo di razzismo rappresentato in Django Unchained non esiste più.

Come prenderà il film chi, invece, fa parte della “razza” che nel rapporto schiavistico era la parte oppressa e sa perfettamente di essere tuttora vittima di oppressione e di razzismo, anche se non più nelle forme dello schiavismo del XIX secolo?

Tarantino esprime con efficacia la sua condanna morale dello schiavismo, ma mostra di conoscere anche la storia del movimento di liberazione degli afro-americani ed entra, con il film, in una discussione su alcuni aspetti centrali di questa storia, che hanno valore politico di bilancio del passato, e possono, dunque, esercitare un’influenza sul presente e sul futuro. Per inciso, non si può escludere, che sia proprio questo ad aver suscitato le preoccupazioni di Spike Lee, non tanto per rivendicare l’esclusività degli afro-americani a riflettere su sé stessi, ma, forse, proprio per la potenziale lettura che qualcuno di loro potrebbe dare agli elementi di riflessione che Django Unchained può suscitare.

Il primo di questi è il giudizio sugli americani bianchi. Nel film questi sono ritenuti in blocco responsabili dello schiavismo. Lo esprime con chiarezza un dialogo-chiave. Quando viene chiesto a Django se il motivo per cui il Dottor Schultz si è turbato nel vedere uno schiavo sbranato dai cani sia il non aver sufficiente conoscenza di tali eventi, Django risponde che il motivo è la scarsa conoscenza “degli americani”, senza introdurre alcuna specificazione del tipo gli “schiavisti americani” o i “padroni delle piantagioni” o similia. Americani di ogni ceto sono, poi, quelli che partecipano incappucciati alla spedizione punitiva mossi da una rabbia così cieca da non fargli vedere neanche la strada (che nell’economia del film deve fallire, e Tarantino fa fallire irridendo la stupidità dei partecipanti). Americani di basso ceto sono gli unici che si fanno irretire e liberano Django, non perché solidarizzino con lui, ma per inseguire la prospettiva di lauti guadagni. Feccia umana corrotta dal denaro che merita di scomparire subito dalla scena, sprofondando (il personaggio interpretato dal regista) nelle viscere della terra.

Ulteriore elemento dell’anti-americanismo è il fatto che l’unico bianco positivo del film sia un europeo, per di più un tedesco (gli europei meno amati in Usa), che si distingue da tutti gli altri bianchi per senso di giustizia e per cultura. Anche Calvin Candie è acculturato, di una cultura superficiale che gli fa adorare i personaggi di Alexandre Dumas senza sapere che fosse nero (in realtà con padre mulatto). La cultura del Dottor Schultz conserva invece l’umanità originaria che gli consente di comprendere l’istanza di amore di Django. Gli americani sono divenuti disumani nell’inseguire l’arricchimento e il godimento, rinnegando il senso di umanità che era compreso nelle loro origini europee. Sull’umanità europea ci sarebbe, in realtà, molto da discutere, ma non di meno, è la tesi che emerge dal film, che, comunque, affida a questo europeo il ruolo di fornire a Django ciò di cui ha bisogno per realizzare il suo scopo: le armi, la capacità di usarle, l’intelligenza tattica e il necessario cinismo.

Il secondo elemento di riflessione che può scaturire dal film riguarda i negri negrieri. In un altro dialogo-chiave, nella cena della trattativa, Candie, sorpreso dal negro negriero che gli è comparso dinanzi, profetizza che di queste figure ne sorgeranno in numero crescente. Gli unici negri che possono essere accolti più o meno alla pari nella società dei bianchi sono, insomma, quelli che si fanno spazio partecipando all’oppressione di tutti gli altri loro fratelli di colore. Candie ne ha in casa un tipico esempio, Stephen, ma il suo giudizio guarda oltre, al futuro, a tutti i negri che emergeranno, marchiando il loro successo individuale come passaggio dal lato degli oppressori. Impossibile dire se in un ipotetico elenco di questi figuri, Tarantino introdurrebbe anche un Obama, ma impossibile non ricordare le sottolineature di Malcom X a proposito dei servili “negri di casa” contrapposti ai ribelli “negri dei campi”. Sia quel che sia, la sorte riservata a Stephen è persino più crudelmente punitiva di quella inflitta ai bianchi.

Il terzo elemento di riflessione che il film può suscitare è a proposito dei mezzi da utilizzare per la liberazione dall’oppressione. Apparentemente Django Unchained offre un’unica possibilità: la violenza. Nel film questa appare necessaria per due motivi: perché gli oppressori ne fanno pieno uso per il loro dominio, ma anche perché di questi oppressori non c’è nulla che si possa salvare, nessun briciolo di umanità che possa giustificare un tentativo di conservarli in vita per costruire assieme a loro una società senza la schiavitù e il razzismo. Il film ha una sua intrinseca logica: posto che gli americani sono quelle belve violente che opprimono e schiavizzano, irrecuperabili a ogni umanità, che hanno rinnegato fin nelle fondamenta, cosa altro è possibile se non sconfiggerli sul loro stesso terreno, con le loro stesse armi, sterminandoli tutti?

Ma stiamo parlando di un film, e di un film di Tarantino, maestro proprio nell’utilizzare parossisticamente la violenza fino a rivelarne la sua essenza filmica di pura pulp fiction. Non per caso, inoltre, si ispira dichiaratamente agli spaghetti-western, antesignani proprio sul terreno della violenza-fiction, anche se riprende con coerenza un altro carattere presente in quel filone, ossia la “pratica dell’obiettivo” per realizzare la giustizia con tutti i mezzi necessari. Difficile, tuttavia, credere che un qualche afro-americano ne sposi superficialmente le tesi e si armi individualmente per realizzare un qualche sterminio di bianchi.

A Tarantino va dunque riconosciuto il merito di aver richiamato e dato un nome, sia pure con linguaggio filmico e con l’escamotage dell’“arte del gioco”, a problemi reali che gli afro-americani hanno dovuto affrontare nella loro lotta contro la discriminazione e l’oppressione razzista. Molti credono che queste siano ormai solo dei residui destinati a scomparire del tutto in una società Usa inevitabilmente destinata a consolidare il suo multi-culturalismo e considerano l’affermazione dei Colin Powell, Condoleeza Rice, Obama, ecc. come altrettante prove di un’integrazione ormai realizzata e non più come prove della tesi di Calvin Candie o di Malcom X. La situazione per costoro sarebbe completamente mutata dal tempo in cui Malcom X denunciava la prosopopea degli americani bianchi che auto-celebravano le proprie mirabolanti realizzazioni economiche nascondendo che fossero solo il frutto di 400 anni di schiavitù dei neri, e di come gli afro-americani fossero tenuti, anche dopo l’abolizione della schiavitù e tramite il razzismo, ai gradini più bassi dello sfruttamento economico e del degrado sociale.

Così non è. Il razzismo (quello contro gli afro-americani in particolare) è una componente essenziale della società nord-americana (e non solo), perché è uno strumento fenomenale per tenere in piedi una società basata sullo sfruttamento della maggioranza della popolazione. La condizione degli afro-americani è il termine di paragone più infimo rispetto al quale ognuno degli altri sfruttati misura la sua “integrazione”, ed essi sono le vittime predestinate verso cui incanalare la rabbia sociale dei ceti in via di impoverimento, che la crisi in atto incrementa.

Negli ultimi decenni movimenti di liberazione degli afro-americani non ce ne sono stati. Quello che si era sviluppato negli anni ’60 è stato brutalmente eliminato con la soppressione sistematica dei suoi leaders. Per cercare di disinnescare i motivi che lo avevano prodotto, sono state emanate misure di protezione della minoranza afro-americana di cui ha beneficiato una misera frazione, prima che iniziasse il loro smontaggio in nome dell’ideologia del merito che non ammette riserva di quote per chicchessia. Le condizioni della massa degli afro-americani non sono, quindi, affatto migliorate e un persistente razzismo istituzionale e sociale continua a discriminarli pesantemente. Oggi sono, assieme a parte dei latinos e degli immigrati di ultima generazione (anche essi in buon numero originari dall’Africa) gli strati più colpiti dalla crisi. Il successo di alcuni di loro, fino alla scranno presidenziale, ha senz’altro funzionato come elemento di speranza in una possibile integrazione, ma fino a quando potrà fare velo alla realtà di discriminazione ed evitare l’esplosione di nuove rivolte?

Quale strada prenderanno le rivolte? Quella apparentemente disegnata da Django Unchained di risposta violenta e individuale alla violenza del sistema o quella che sia Martin Luther King che Malcom X andavano delineando negli ultimi anni delle rispettive vite, ossia di costruzione di un movimento unitario degli afro-americani con tutti gli altri americani poveri, lavoratori, diseredati, contro un sistema che sfruttava e opprimeva tutti loro in patria ed esercitava analoga oppressione (analogamente violenta) in Asia, Africa e America del Sud?

Questa dimensione della lotta, non solo di liberazione razziale, ma classista e internazionalista, fu favorita dai fermenti che si agitavano anche nel proletariato bianco e tra i giovani americani stanchi di un sistema che li usava come carne da macello nella guerra del Vietnam, e dai fermenti anti-imperialisti che bruciavano mezzo mondo, Africa compresa.

Al momento nessuna di queste condizioni è vigente, ma il fuoco che può attizzarle sembra covare sotto la cenere. Se un nuovo ciclo di mobilitazioni si avvierà, dovrà sicuramente attingere alle esperienze e alle elaborazioni del ciclo precedente, ponendo la liberazione dall’oppressione razzista in un quadro di liberazione generale da un sistema globale di sfruttamento. E, tuttavia, un fronte di lotta comune tra afro-americani e bianchi sfruttati (come in Europa tra immigrati e indigeni) dovrà affrontare il nodo del razzismo che alberga anche (se non soprattutto) nelle classi bianche più sfruttate. Si tratterà di dover risolvere i temi e i problemi che la storia del movimento di liberazione afro-americano ha già cercato di affrontare e che Django Unchained con i suoi artifici ludici e onirici richiama.

Nicola Casale

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