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Gli Usa sono un sistema castale? Costruzione della razza e incarcerazione di massa dalle origini ad Obama

 

“Devi odiare il crimine, ma amare i criminali”. Non è una frase fatta, ma una prescrizione per la liberazione. [p. 177]

Il processo di costruzione del giovane nero come criminale è essenziale per il funzionamento del sistema di incarcerazione di massa e di casta razziale. […] i neri devono essere etichettati come criminali prima di essere formalmente assoggettati al controllo del sistema penale. […] Questo processo dell’essere costruiti come criminali è ciò che significa oggi “diventare” neri. […] E alla sua essenza l’incarcerazione di massa è una “istituzione di costruzione della razza”. Serve a definire e significare il concetto di razza in America.
[p. 200]

Questo libro sta circolando molto negli Stati Uniti, ed è stato scritto con l’obiettivo di sollevare la coscienza civile rispetto ad un elemento spesso sottaciuto: quello della carcerazione di massa. L’autrice è un avvocatessa nera che si batte per i diritti civili. E, diciamolo subito, probabilmente proprio in questa appartenenza ed orizzonte si inscrive il limite più grosso del libro: quello di non uscire da una prospettiva che guarda al superamento di questo terribile sistema se non attraverso riforme ed azioni di tipo sostanzialmente legale ed amministrativo. Dunque per lo più le conclusioni che vengono proposte rischiano di essere poco più che parole, o al limite una sorta di suggerimento ad un Principe che non c’è. D’altra parte nell’introduzione l’autrice afferma come solo pochi anni fa le argomentazioni scritte nel testo le sarebbero risultate strane o troppo estreme, sino a quando l’esperienza di conoscenza della realtà carcerario le ha “aperto gli occhi” e indotto una politicizzazione. E’ forse anche questo sguardo critico tutto sommato recente che può spiegare il fatto che nel testo non sia fatto nemmeno un riferimento al tema delle migrazioni e che echeggi un certo nazionalismo metodologico, anche attraverso il riferimento frequente alla “nostra nazione”. Tuttavia, tranne qualche raro passaggio in cui pare affiorare un tono compassionevole o umanitaristico, le argomentazioni e l’analisi riportate nel testo sono assolutamente forti. Magari non originalissime, ma hanno indubbiamente il merito di sistematizzare e mostrare l’evidenza dell’impianto di discriminazione razziale e di classe al lavoro oggi negli Stati Uniti. Si sostiene anzi l’esistenza di una vera e propria casta, ossia una fetta considerevole di popolazione che è legalmente inferiorizzata. Questa tesi viene in primo luogo argomentata attraverso una ricostruzione storiografica:

Abbiamo assistito negli Stati Uniti all’evoluzione di un sistema castale basato interamente sullo sfruttamento (schiavitù), ad uno basato soprattutto sulla subordinazione (Jim Crow), ad uno caratterizzato dalla marginalizzazione (incarcerazione di massa). Questa potrebbe sembrare preferibile […] ma la marginalizzazione estrema, come possiamo apprendere dalla storia, espone al rischio dello sterminio. […] John A. Powell dice che “in verità sotto alcuni aspetti è meglio essere sfruttati che marginalizzati, perché se sei sfruttato si presume che tu sia ancora necessario”. [p. 220]

Alexander focalizza dunque su tre momenti di snodo. Il primo mostra, attraverso le parole di Wacquant, come:

“La divisione razziale fu una conseguenza, non una precondizione della schiavitù, ma una volta istituita si separò dalla sua iniziale funzione e acquisì di per sé stessa un potere sociale”. Dopo la morte della schiavitù, l’idea di razza continuò a vivere. [p. 26]

Il secondo passaggio è quello chiamato Jim Crow. Questo nome si riferisce ad una caricatura popolare dei neri elaborata ad inizio ‘800, e venne usato comunemente per designare le leggi di segregazione razziale emanate tra il 1876 ed il 1965. Il terzo, che possiamo datare tra primi anni ’80 del Novecento ed oggi, è quello della mass incarceration:

Il termine incarcerazione di massa non si riferisce solo al sistema penale ma anche alla più ampia rete di leggi, regole, politiche e costumi che controllano coloro etichettati come criminali sia dentro che fuori dalla prigione. Una volta rilasciati, gli ex detenuti entrano in un sotto-mondo nascosto di discriminazione legalizzata e di esclusione sociale permanente. Questi sono i membri della nuova sotto-casta americana. Il linguaggio della casta potrebbe suonare estraneo a molti. […] Evitiamo di parlare di casta nella nostra società perché ci vergogniamo della nostra storia razziale. […] Anche di classe evitiamo di parlare. […] perché si ritiene – nonostante tutti i fatti dicano il contrario – che ciascuno, tramite una appropriata disciplina e condotta, possa muoversi da una classe bassa verso una più alta. […] [Il problema è che] una grossa percentuale di afroamericani non è libera di farlo. […] Sono legalmente esclusi dal poterlo fare. […] La cosiddetta sottoclasse andrebbe meglio compresa quale sotto-casta – una casta di individui permanentemente esclusi dalla legge e dalla consuetudine dalla società mainstream. Anche se questo nuovo sistema di controllo razzializzato pretende di essere colorblind [non legato al colore], crea e mantiene la gerarchia razziale come in passato. Come Jim Crow (e lo schiavismo), la carcerazione di massa […] opera per assicurare uno stato di subordinazione per un gruppo definito soprattutto dalla razza. [p. 13]

Ricostruiamo sinteticamente questi passaggi. Innanzitutto l’interpretazione storiografica di fondo è che vi sia un andamento ciclico nella storia statunitense, per cui a fasi di liberazione razziale si sostituiscono nuovi modelli di controllo, che progressivamente si raffinano fino ad essere capaci, come oggi, di produrre un dominio razziale senza far ricorso al tema della razza. L’idea dell’autrice è che proprio nei periodi di maggiori conquiste delle comunità nere le élite seminino gli embrioni di ciò che successivamente germoglierà come nuovo sistema castale. L’argomentazione fornita è ricca e prende in considerazione principalmente i fattori economici e politici che hanno guidato questa storia. Si mostra come il massimo della repressione nei confronti delle comunità nere si sia verificato laddove queste, per motivi di volta in volta differenti, furono in grado di rompere la propria condizione razziale alleandosi con altri settori sociali e dunque riconoscendosi non in quanto neri ma in quanto poveri o sfruttati.
L’intera storia inizia sostanzialmente nel 1675 con quella che viene ricordata come la Bacon’s rebellion. Una rivolta che vide comporsi i sottomessi neri, indiani e bianchi. Un’insorgenza che terrorizzò i possidenti, e li indusse ad elaborare la strategia che nel secolo successivo costruirà, produrrà materialmente la razza: infatti ai poveri bianchi verranno fatte alcune piccole concessioni, gli indigeni verranno sostanzialmente reclusi e sterminati, la mano d’opera di lingua inglese dall’Asia abbandonata, e verrà invece aumentato in maniera esponenziale l’import di schiavi dall’Africa. Un piano scientifico di disarticolazione di una convergenza di classe ottenuto attraverso le linee del colore. Laddove la guerra di indipendenza porterà ad una costituzione che dichiara l’uomo libero ma non fa menzione alla schiavitù, è con la guerra civile che per i neri si aprono importanti spiragli di liberazione. Il periodo tra il 1865 ed il 1877, chiamato della Ricostruzione, vedrà i neri liberati legalmente dal giogo dello schiavismo ottenere importanti conquiste. Tuttavia il Partito Democratico, che ai tempi rappresentava soprattutto i bianchi ricchi del Sud, riuscirà (anche attraverso la massiccia violenza terroristica del Ku Klux Klan) a far progressivamente marginalizzare i neri, dando appunto avvio alla fase cosiddetta Jim Crow. Con il movimento dei diritti civili (incarnato dalla figura di Martin Luther King, uno dei maggiori riferimenti dell’autrice del libro assieme a WEB Dubois, Lois Wacquant e al ricorso alla criminologia critica americana), si apre un nuovo orizzonte di progressivo miglioramento della condizione dei neri. Ma è proprio quando King inizia a prefigurare il movimento per i diritti civili come un movimento che invece che reclamare diritti per i neri/minoranze si trasforma in un movimento dei poveri, che il leader viene ammazzato ed il movimento sempre più represso. E ancora una volta è in questo momento che vengono elaborate le strategie che nel periodo successivo ricostituiranno le barriere del sistema castale. Questa volta saranno i repubblicani a condurre questa strategia, studiando a tavolino un piano che a fine anni ’60 consoliderà un nuovo blocco sociale tra élite bianche del Sud e classi bianche meno abbienti del Nord, portando Nixon alla presidenza e garantendo al partito un’egemonia che durerà sostanzialmente incontrastata sino all’elezione di Clinton nei primi ’90. Il fatto che una retorica apertamente razziale non fosse più accettabile fu superato introducendo un nuovo concetto: quello di criminalità.

Oggi un criminale uscito di prigione non ha molti più diritti né rispetto di uno schiavo liberato in Mississipi all’epoca di Jim Crow. I rilasciati dal carcere possono essere fermati e perquisiti senza nessun motivo e possono essere rimandati in prigione per la più minima infrazione […]. Lo stigma rimane per sempre. […] I cartelli “whites only” non ci sono più, ma se ne sono creati di nuovi – avvisi che informano il pubblico sul fatto che i pregiudicati non sono ammessi sono rinvenibili nelle offerte di lavoro, nelle application per le scuole, nei bandi per le licenze dei negozi ecc… L’essere segnalati come criminali autorizza oggi esattamente le forme di discriminazione che supponevamo esserci lasciati alle spalle – discriminazioni sul lavoro, per l’accesso alla casa, all’educazione, al welfare, al sistema di giustizia. Gli etichettati come criminali possono anche essere esclusi dal diritto di voto. […] I criminali sono quel gruppo sociale che abbiamo il permesso di odiare. Nell’America colorblind, i criminali sono il nuovo capro espiatorio. […] Centinaia di anni fa, la nostra nazione metteva in catene quelli che considerava come meno che umani; meno di cento anni fa, li abbiamo relegati ai margini delle città; oggi li ingabbiamo. [p. 141] 

Dicevamo: negli anni dei movimenti per i diritti civili/neri l’elemento del crimine divenne infatti dominante nella propaganda repubblicana, che si fece promotrice delle politiche law and order. Sostanzialmente i movimenti sociali ed i riot nei quartieri neri vennero inscritti nella categoria di produttori di disordine/criminalità. E dunque si produsse una sostanziale equiparazione tra criminale e persona di colore. Ma uno dei reali punti di svolta avvenne anni dopo, quando la forza propulsiva dei movimenti non fu più in grado di reggere questa offensiva. Si sta parlando della famigerata War on Drug, la guerra alla droga che venne dichiarata da Regan a metà anni ’80. Alexander mostra in maniera magistrale come questa guerra sia stata sostanzialmente la costruzione di un nemico pubblico identificato in termini di razza. Essa infatti è stata lanciata in un momento in cui la droga non era ancora un particolare problema sociale (in particolare il crack, che diventerà il vero spauracchio, non era ancora diffuso), e come solo attraverso un sapiente uso dei media da parte degli strateghi repubblicani essa sia divenuta IL tema principale dibattuto dall’opinione pubblica Usa negli anni a venire. Inoltre viene reso chiaro come sia stata la stessa guerra alla droga a de facto inondare le strade di droga, anche grazie a precise scelte di Cia, Fbi ed agenzie create ad hoc per la guerra alla droga. Questa, che nonostante sia scomparsa dai media sostituita dalla guerra al terrorismo, continua giorno dopo giorno, ha avuto un effetto particolarmente nefasto soprattutto da un punto di vista: ha aperto le porte del carcere a milioni di persone, per lo più neri e latini. Laddove infatti ad inizio anni ’70 il dibattito accademico e pubblico, senza nessuna sostanziale divergenza rispetto all’appartenenza politica, era tutto orientato sul considerare il carcere come un’istituzione antiquata e destinata in breve ad essere superata, in un decennio la situazione si trasforma totalmente. E’ quasi incredibile leggere i brani, di autori anche conservatori, che vengono citati nel libro. Mentre oggi il pensare una società senza carceri è prerogativa di pochissimi gruppi militanti antagonisti, quarant’anni fa questa prospettiva veniva data come scontata da tutti. Il fatto che il carcere non servisse a rieducare ma fosse solo una punizione inumana era un dato scontato…
E’ comunque dicevamo con la guerra alla droga che si inaugura il nuovo sistema castale:

Questo, in breve, come funziona il sistema: la War on Drugs è il veicolo attraverso cui uno straordinario numero di uomini neri è stato ingabbiato. La trappola avviene in tre distinte fasi […]: la prima è quella del concentramento. Un vasto numero di persone vengono trascinate nel sistema penale dalla polizia, che conduce operazioni antidroga soprattutto nelle comunità povere di colore. La polizia è retribuita […] per prendere il più persone possibili, e opera costantemente al di fuori dei vincoli costituzionali […] può fermare, interrogare, perquisire chi vuole […]. Di fatto alla polizia è consentito di basarsi sulla razza quale elemento nel selezionare chi fermare e perquisire […]. Il secondo periodo è quello del controllo formale […] che può durare tutta la vita […]. Il terzo è quello […] della punizione invisibile. […] che opera fuori dalla prigione […] attraverso un ampio apparato di leggi che assicurano che la maggior parte dei pregiudicati non si integrerà mai nella mainstream, white society. […] Queste persone diventano membri di una sotto-casta – una popolazione enorme per lo più black and brown alla quale, a causa della guerra alla droga, vengono negati i diritti basilari e i privilegi della cittadinanza americana, e vengono relegati in forma permanente ad uno status inferiore. Questa è la fase finale, e non c’è ritorno. [pp. 185-187]

Ma continuiamo seguendo la linea storica. A differenza dell’Italia, dove siamo abituati al fatto che la sinistra apra il sistema alle politiche più duramente anti-poveri e poi la destra le inasprisca, in Usa si è verificato il contrario. Infatti la fine del lungo dominio repubblicano ad opera dell’elezione di Clinton implica la totale accettazione delle retoriche anticrimine da parte dei democratici, ed anzi un loro indurimento:

[…] nel 1992, prima del voto nello stato critico del New Hampshire, Clinton decise di andare in Alabama ad assistere all’esecuzione di Ricky Ray Rector, un nero mentalmente infermo che era talmente poco consapevole di ciò che stava succedendo che durante l’ultimo pasto prima dell’esecuzione chiese che gli fosse tenuto il dessert per il giorno dopo. Dopo l’esecuzione, Clinton disse: “Mi si può dire tutto, ma non che io sia debole col crimine”. [p. 56]

usajail3E’ con Clinton che si crea veramente l’attuale sottoclasse razziale. Fu lui a cambiare definitivamente e radicalmente l’orientamento da un sistema di welfare ad un sistema di warfare, inteso come guerra ai poveri.

Durante la sua presidenza, Washington tagliò i fondi per il public housing di 17 miliardi (-61%) e aumentò quelli per le politiche carcerarie di 19 miliardi (+ 171%), “rendendo di fatto la costruzione di prigioni la principale politica abitativa per i poveri urbani”. [p. 57]

La prospettiva law and order, assolutamente minoritaria vent’anni prima, era pienamente compiuta, anche attraverso un estremo indurimento delle politiche che al primo reato escludevano da qualsiasi accesso al welfare.
L’elezione di Obama è parsa a molti la fine simbolica della sottomissione nera. Eppure Alexander mostra come in realtà non si tratti affatto di questo, ma come essa si possa collocare nel cosiddetto “eccezionalismo nero”. L’autrice critica duramente l’attuale presidente, a partire da una comparazione con Clinton. Anche Obama infatti per farsi eleggere svolse una campagna elettorale svolta a “rassicurare i bianchi”. In un suo discorso egli affermò che

“se vogliamo essere onesti con noi stessi, ammetteremo che troppi padri sono assenti – da troppe vite e da troppe case. […] Hanno abbandonato le loro responsabilità. Si stanno comportando come bambini. E le basi delle nostre famiglie sono deboli a causa di ciò. Voi e io sappiamo che questo è vero ovunque, ma soprattutto nelle comunità afroamericane”. I media non hanno chiesto – e Obama non ha detto – dove potrebbero essere trovati questi padri. […] La maggioranza delle donne nere non sono sposate oggi […] Anche se un milione di uomini neri può essere trovato nelle prigioni, ciò non viene mai legato al tema dei “missing black man”. […] Anche i media neri […] pongono la domanda “Dove sono finiti gli uomini neri?”, ma solitamente rispondono che li ritroveremo quando riscopriremo Dio, la famiglia, l’autorispetto. […] Non viene mai fatta menzione alla Guerra alla Droga o all’incarcerazione di massa. […] Il fatto che nessuno abbia fatto notare la cosa ad Obama è rilevante […]. Ci sono più uomini neri oggi sotto correctional control […] che schiavi nel 1850, un decennio prima della guerra civile. […] L’orologio ha fatto tornare indietro le lancette del progresso razziale in America, tuttavia nessuno pare notarlo. Tutti gli occhi sono fissi su persone come Barack Obama o Oprah Winfrey […]. Oggi le retoriche razzializzanti non sono più necessarie. L’incarcerazione di massa è stata normalizzata, e tutti gli stereotipi razziali che hanno fatto sorgere il sistema sono adesso assunti e internalizzati dalle persone di tutti i colori […]. E’ semplicemente dato per scontato che in città come Baltimora e Chicago la maggioranza dei giovani ragazzi neri sia attualmente sotto il controllo del sistema di giustizia o marchiati a vita come criminali. Questa circostanza straordinaria […] è considerata normale come lo era cento anni fa avere le fontane pubbliche separate. [pp. 178-181]

Questo elemento dei “padri”, va sottolineato. Infatti a differenza di altri contesti, in cui si è più usualmente esposti ad una discriminazione di genere che pesa sul versante femminile, la carcerazione è esperienza assolutamente maschile. Un fatto che si può attribuire soprattutto al fatto che nelle famiglie nere c’è sempre stata una sostanziale parità di genere (entrambe le figure erano ugualmente messe al lavoro sotto la schiavitù e spesso la famiglia era l’unica forma di resistenza per entrambe), e che il vertiginoso aumento della disoccupazione negli anni ’70 ha colpito soprattutto gli uomini. Infatti i posti di lavoro si erosero soprattutto nel settore manifatturiero a impiego maschile, e il fatto che questo sia tipicamente basato fuori città (e i neri/poveri difficilmente potevano permettersi la macchina) accentuò l’assenza di reddito maschile. Discorso differente invece per le donne, che si sostenevano soprattutto col lavoro di cura, tipicamente basato invece in tutti i quartieri e che non ha conosciuto crisi, anzi il contrario. D’altra parte l’amministrazione Obama non solo ha continuato le politiche precedenti rispetto alle guerre (do you remember Afghanistan?), ai diritti civili (Guantanamo, droni, scandalo dello spionaggio) ecc.. ma anche rispetto alla guerra alla droga. Nonostante piccoli ritocchi, secondo una nuova legge promossa da Obama,

ci vogliono 28 grammi di crack per ricevere un minimo di cinque anni come condanna, mentre sono necessari 500 grammi di cocaina per ricevere la stessa pena. […] Ma questa disparità è solo la punta dell’iceberg. […] Il sistema dipende soprattutto sull’etichettamento della prigionia, non sul tempo della stessa. Quello che conta è finire imbrigliati in questo sistema di controllo e venir gettati nella sotto-casta.
[p. 139]

Se fa bene l’autrice a sottolineare il carattere simbolico della questione, è anche vero che si deduce come la disparità anche a questo livello sia brutale. Detta terra terra: qualsiasi ragazzo nero capisce benissimo che per la merda a poco prezzo che fuma rischia un sacco, mentre per il bianco di Wall Street che tira la sua buona colombiana ce ne vuole prima di rischiare qualcosa anche in caso di uno sfortunatissimo quanto improbabile ed incidentale controllo. USajail7
All’oggi dunque i dati sono veramente impressionanti:

Circa mezzo milione di persone sono in galera per un illecito di droga, rispetto ai 41,100 del 1980 – un incremento del 1100%. […] più di 31 milioni di persone sono state arrestate per reati di droga dall’inizio della guerra alla droga. […] si sono più persone in carcere oggi per reati di droga di quante ce ne fossero complessivamente nel 1980. […] La stragrande maggioranza degli arrestati non sono implicati in reati gravi […] né legati a droghe pesanti: […] dagli anni ’90 circa l’80% degli arresti è legato alla marijuana. […] tra il 1980 e il 2000, il numero di persone incarcerate nella nostra nazione è cresciuto da circa 300.000 a più di 2 milioni. Alla fine del 2007, più di 7 milioni di americani – uno ogni 31 adulti – era dietro le sbarre, in libertà vigilata o condizionale. [p. 60]

A settembre 2009, solo il 7,9% dei prigionieri era colpevole di reati violenti. Ma la cosa più importante da considerare è che i dibattiti sulle statistiche di incarceramento ignorano che la maggior parte delle persone sotto correctional control non sono in carcere […] Questo sistema castale si estende molto al di là delle mura della prigione e governa milioni di persone che sono in libertà vigilata o condizionale, soprattutto per reati non violenti. Sono stati gettati in questo sistema, etichettati come pregiudicati o criminali, e immessi in uno status di seconda classe permanente. [p. 101]

Una delle critiche che vengono mosse a questo approccio è che questa incarcerazione di massa lungo linee del colore viene presentata non come dato politico, ma come scelta individuale di chi compie il crimine.

Le genialità dell’attuale caste system, e ciò che maggiormente lo distingue dai suoi predecessori, è che appare volontario. Le persone decidono di commettere un crimine, e questo è ciò che le porta in prigione, ci viene detto. […] [Ma] Tutti violiamo la legge […] anche se la cosa peggiore che abbiate mai fatto è il superare di dieci miglia il limite di velocità, avete messo voi stessi e gli altri più in pericolo che fumando marijuana a casa vostra. Tuttavia ci sono persone negli Usa che hanno avuto condanne pesantissime per il loro primo reato legato alla droga […]. [p. 215]

Oppure è possibile veder affiorare retoriche più esplicitamente razziste, che sostengono che sia la stessa cultura nera ad avere una propensione al crimine. Questo elemento è prodotto anche grazie ad una intensa produzione televisiva e cinematografica che costruisce sempre il nero come criminale, ma anche ad esempio dalla musica cosiddetta gangsta (fatta da artisti di colore). La cosa interessante che fa notare Alexander è come questi messaggi siano però sempre indirizzati ad un pubblico in maggior parte bianco, come si ricava dagli studi sull’audiance e dalle vendite dei dischi. Inoltre va considerato che:

E’ necessario collocare il problema della “gangsta culture” nella corretta prospettiva. E’ assolutamente normale che un gruppo sociale accolga il proprio stigma. Farlo è una forma di resistenza ed autostima. E’ per questo che abbiamo avuto “nero è bello” e “gay pride” – slogan e inni politici orientati a porre fine alla discriminazione legale ed allo stigma che la giustificava. Abbracciare il proprio stigma è un atto psicologico e politico […]. Per quei giovani neri costantemente seguiti dalla polizia e shamed dagli insegnanti, dai familiari e dagli estranei, assumere lo stigma di criminali è un atto di resistenza – un tentativo di ritagliarsi un’identità positiva in una società che offre loro poco più che disprezzo, sdegno e sorveglianza. […] Il problema, ovviamente, è che riconoscersi nella criminalità – come naturale risposta allo stigma – […] non è la stessa cosa che riconoscersi come neri o gay quali antidoti alla logica di Jim Crow o all’omofobia […]. [pp. 170-172]

Gli ultimi capitoli del libro si sviluppano catalogando analogie e differenze tra l’attuale sistema e quello precedente. I limiti della comparazione: l’assenza di un’ostilità razziale esplicita; l’esistenza di vittime bianche del sistema razziale (un bianco non poteva doversi sedere sul retro dei bus assieme ai neri, mentre può finire in prigione per droga); l’esistenza di un supporto da parte dei neri per le politiche dure. I parallelismi tra ora e Jim Crow sono invece la discriminazione legalizzata, la privazione dei diritti civili, l’esclusione dalle giurie, la chiusura delle porte dei palazzi di giustizia, la segregazione razziale, e soprattutto la produzione simbolica della razza: usajail

Una funzione primaria di ogni sistema castale è quella di definire il significato della razza nel proprio tempo. La schiavitù definì cosa significasse essere neri (ossia l’essere schiavi), Jim Crow definì cosa significasse essere neri (una cittadinanza di seconda classe). Oggi l’incarcerazione di massa definisce cosa vuol dire essere neri in America: criminali. Questo è ciò che significa essere neri. La tentazione è nel considerare che gli uomini neri scelgano di essere criminali […]. Il mito della scelta è seduttivo […]. Gli afroamericani consumano e vendono droghe come i bianchi, ma sono nella maggior parte costruiti come criminali nonostante abbiano lo stesso tipo di condotta. […] i professionisti bianchi sono il gruppo sociale più coinvolto nelle attività illegali relative alla droga, ma sono quelli meno costruiti come criminali. [p. 197]

Per concludere. Il libro è un testo importante che merita di essere letto. Ma, a parte i limiti sottolineati nell’introduzione di questa recensione, vanno in estrema sintesi accennate due criticità. Parlare di casta come fa Alexander è un tema scivoloso. C’è infatti il rischio di inferiorizzare involontariamente gli appartenenti a questa “casta”. La conseguenza, nella quale anche Alexander pare a tratti rischiar di cadere, è che questo gruppo sociale si possa liberare esclusivamente con un aiuto esterno, sottraendo ad esso una ulteriore dimensione di autonomia e negando una capacità di autodeterminazione. Il secondo aspetto su cui riflettere è la questione della marginalizzazione. E’ infatti indubbio che la carcerazione non sia “produttiva” come poteva essere la schiavitù, ma siamo sicuri che in fondo anche essa, più che ad una radicale esclusione, non sia invece mirata ad un controllo e ad una maggiore governabilità e basso costo del lavoro? D’altra parte è la stessa autrice, pur non traendone questa conseguenza, a suggerircelo, quando dice:

A Chicago il totale della popolazione di maschi neri con un reato penale […] è il 55% […] ed uno strabiliante 80% della forza-lavoro nell’area di Chicago. […] per i giovani neri è più probabile andare in prigione piuttosto che al collage. […] nel 1999 si sono laureati 992 neri, mentre quasi 7000 sono stati rilasciati dalla galera l’anno successivo per reati di droga. [pp. 189-190]

 

nc

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