Hevalen. Perché sono andato a combattere l’ISIS in Siria
È dal 16 novembre nelle librerie “Hevalen”, libro di Davide Grasso pubblicato nella collana Quinto Tipo per le Edizioni Alegre. È la storia di Tirej, nome di battaglia di Davide presso le YPG, le unità di protezione popolare inquadrate nelle Forze Siriane Democratiche nelle quali si arruolò nel 2016. È il racconto della campagna per la riconquista di Membij, della guerra sul campo a Isis. Hevalen in lingua curda vuol dire compagno, amico; Hevalen racconta della rivoluzione sociale nelle terre della Siria del Nord. È anche la storia di come guerre lontane travolgono come un domino la nostra quotidianità, costringendoci a delle scelte. Pubblichiamo di seguito un breve estratto dal libro.
Camminavo avanti e indietro di fronte al numero 47 di corso Regina Margherita. Era sera. Le auto passavano sulla carreggiata. Da undici giorni le amiche e gli amici di Mazlum stavano resistendo. Erano suoi amici – hevalen, in curdo – ma li consideravo anche miei. Tutti i rivoluzionari, in Kurdistan, si chiamano l’un l’altro amica o amico – heval. Altri sei erano morti, dopo di lui. Elicotteri li bombardavano dal cielo, carri armati colpivano le loro case, le fortificazioni rudimentali che avevano costruito dalle colline. In quei giorni avevo vissuto come un alienato. La mia testa era tutta laggiù, a Farqin. Scorrevo continuamente le notizie sul cellulare. Guardavo le foto dei ragazzi morti. Controllavo i voli su Skyscanner. In un giorno potevo essere lì; ma non mi muovevo. Camminavo avanti e indietro, di fronte al 47. Scorrevo lo schermo del cellulare. Quel giorno era stata liberata Shingal. Il Pkk aveva lanciato l’offensiva pochi giorni prima, finalmente senza i Peshmerga a bloccare la strada. Passate le elezioni in Turchia era stato possibile dare l’assalto alla città irachena. Assieme al Pkk avevano combattuto le Ybş, le Unità di resistenza di Shingal, un esercito di giovani ezidi formato tra gli sfollati e i profughi dei monti Sinjar provenienti dalla città, affinché potessero partecipare in prima persona alla liberazione della loro terra. D’accordo con l’esercito statunitense i Peshmerga avevano approfittato dell’avanzata delle Ybş e del Pkk e della rapida ritirata dell’Isis per rientrare a loro volta in città. Le convulse fasi finali avevano avuto luogo proprio quel pomeriggio, il 13 novembre 2015. Spensi la sigaretta. Ero in attesa che iniziasse la dancehall prevista al centro sociale che avevo sempre frequentato, l’Askatasuna. Dovevo stare alla porta, dare una mano a far pagare gli ingressi. Sui controviali le auto mi squadravano con i loro fanali prima di sparire le une dietro le altre nella movida del venerdì sera. Non faceva tanto freddo. Erano le 21:30. Arrivavano piano piano i primi studenti universitari, ventenni brilli che andavano a bere l’amaro pre-serata, trentenni con la fidanzata indecisi sul da farsi. Persone normali che vivevano la propria vita. Come me. Sms. “Sparatorie a Parigi. Panico. Esplosioni allo Stade de France”. Erano le dieci meno un quarto. Guardai corso Regina Margherita. Capii subito. Come potevano osare? Restai in silenzio. Guardai le auto che continuavano a passare. Un domino di cui non sospettavo l’esistenza aveva cominciato a precipitare a Utrecht, quando la Ragazza del Nordafrica aveva detto «Cizre». Qualcuno aprì la porta del centro sociale, dietro di me. Valeria e gli altri si gettavano a terra, tra le raffiche del Bataclan.
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