Amnesty fa sgomberare curdi e turchi in sciopero della fame
L’occupazione della sede dell’organizzazione proseguiva dal 24 aprile
Nel cuore della notte di ieri decine e decine di poliziotti si sono schierati davanti al quartier generale di Amnesty International a Londra, accorrendo all’appello dell’organizzazione; per poi farvi irruzione e procedere alla rimozione coatta e brutale di rimuovere quanti li occupavano.
Ma negli uffici non si trovavano pericolosi terroristi bensì attivisti curdi, turchi e solidali; dei quali alcuni provati dallo sciopero della fame iniziato, assieme ad altri 7000 in tutto il mondo, sulle orme di quello della parlamentare anatolica dell’HDP Leyla Guven 166 giorni fa. Una campagna che non richiedeva altro che condizioni di prigionia rispettose delle disposizioni internazionali in materia per il leader curdo Abdullah Ocalan, recluso in completo isolamento da 20 anni nell’isola-prigione di Imrali senza mezzi di comunicazione verso l’esterno e privato da otto anni della possibilità di ricevere visite dai suoi avvocati: detto altrimenti, una mobilitazione che dovrebbe essere la ragione stessa dell’esistenza e della quotidianità di enti come Amnesty. Il cui silenzio ha portato appunto al presidio degli attivisti nella sede, trasformatosi in occupazione dopo il rifiuto dei dirigenti di prendere una posizione in merito.
Infatti non solo l’ONG si è mostrata cieca e sorda per oltre sei mesi davanti alle innumerevoli segnalazioni ed agli appelli in merito di attivisti, personalità e cittadini della protesta della Guven; ma da anni, in barba alla sua presunta “indipendenza” ha glissato sulle atrocità compiute dal regime dell’AKP nel sud-est della Turchia: città rase al suolo, sommerse dalle dighe delle imprese filo-Erdogan, permanentemente sfigurate nella loro identità e nel loro tessuto urbano. E ancora oppositori lasciati a morire di stenti, senza luce né acqua, nei seminterrati durante le operazioni militari, torture ed esecuzioni di prigionieri a sangue freddo, cadaveri di donne mutilati e trascinati per le strade a seno reciso dai blindati di Ankara.
Piuttosto spendendosi per documentare presunti “rastrellamenti” e “requisizioni” da parte delle SDF curde e arabe durante la lotta di liberazione della Siria del Nordest dall’ISIS – nella pressoché totalità rivelatesi disposizioni di coprifuoco e bonifica dei territori dalle cellule dormienti di al Baghdadi e tacendo completamente sull’invasione di Afrin e dall’instaurazione di un regime di terrore da parte dell’esercito turco e delle bande fondamentaliste sue gregarie: niente male per un’organizzazione come Amnesty, che si era spesa proprio per la liberazione di Erdogan quando quest’ultimo era finito in carcere negli anni della sua opposizione ai partiti dell’establishment militare.
La mobilitazione contro il silenzio però continua: nelle ultime ore è stata occupata anche la sede parigina di Amnesty. Ed è stato lanciato l’hashtag #AmnestyUKBreakSilence, per mantenere la pressione sull’ONG e l’attenzione sui 20 attivisti detenuti dopo l’irruzione di ieri notte (alcuni, ribadiamo, gravemente messi a rischio dallo sciopero della fame che hanno intrapreso) e per continuare la battaglia in favore di Ocalan, parte essenziale di un processo di pace duratura per la Turchia e la regione tutta.
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