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Hillbilly highway

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017).

di Sandro Moiso, da Carmilla

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari del Kentucky, piuttosto significativi.

Per questo vale la pena di parlare dell’epopea famigliare narrata da J.D. Vance, a metà strada tra Mark Twain e l’etnografia, cui il film diretto da Ron Howard, Hillbilly Elegy, nel 2020 non ha reso del tutto giustizia. Una narrazione in cui il Mississippi di Huckleberry Finn è sostituito dalla hillbilly highway lungo la quale una parte consistente del proletariato bianco di origine scoto-irlandese della regione dei monti Appalachi (ancora oggi una delle zone più depresse dal punto di vista economico degli interi Stati Uniti) si è trasferita verso l’Ohio, il Nord industrializzato e le sue acciaierie, tra gli anni di Roosevelt e quelli successivi alla seconda guerra mondiale.

Un fiume di asfalto che ha portato lontano dal Kentucky e dal West Virginia anche i nonni dell’autore e, in seguito, il resto della famiglia. Destinazione Middletown, Ohio, e le acciaierie della Armco, in seguito Armco-Kawasaki, che proprio recentemente ha dovuto essere rifinanziata dal governo degli Stati Uniti con un maxi prestito da cinquecento milioni di dollari per poter rimanere in piedi1. Luoghi definiti solo dal lavoro nell’industria, in cui anche i nomi delle località sono meno significativi degli impianti produttivi che li caratterizzano ancora oggi.

Luoghi sospesi tra South Belt e Rust Belt, in cui le “fortune operaie” sono state e restano sospese a un filo sottile che, comunque, negli anni ha alimentato speranze di riscatto economico e sociale, ma che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha cominciato a mostrare di potersi spezzare in qualsiasi momento, ponendo fine al sogno americano e alimentando un paralizzante pessimismo molto diffuso sia tra i giovani che tra gli adulti.

Una storia di ordinaria violenza, problemi famigliari, affetti traditi, pregiudizi, armi diffuse, onore arcaico, dipendenze da droghe e alcol, religiosità primitiva, illusioni e delusioni, ideologia del “lavorar duro” (anche quando il lavoro manca), aspirazione alla redenzione sociale e rari successi individuali che ha fatto pensare a chi scrive ad una delle canzoni contenute nell’ultimo disco del cantautore australiano Nick Cave, Frogs, in cui gli esseri umani, paragonati a piccole rane, vivono tutto il tempo nelle acque torbide e fangose di uno stagno per poi riuscire, per brevissimi momenti, a saltarne fuori e illuminarsi di sole e aria pulita, prima di precipitare nuovamente nella melma dell’esistenza quotidiana.

Una storia che, però, travalica i limiti della soggettività, che caratterizza tante delle narrazioni dell’attuale working class literature (tale più per le dichiarazioni di intenti che da sempre l’accompagnano che per i contenuti reali), per trasformarsi, quasi obbligatoriamente, in narrazione epica, in cui il “noi” conta più dell’”io”. In cui le condizioni di partenza dei singoli, nella gara di sopravvivenza, sono simili, sia dal punto di vista famigliare che economico e culturale e il fatto che qualcuno riesca a rimanere sospeso nell’aria fuori dallo stagno mentre molti altri no, in fin dei conti, non modifica sostanzialmente le condizioni esistenziali della maggioranza, spesso rinunciataria nei confronti di qualsiasi possibilità di cambiamento.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità2.

Chi volesse vedere nelle osservazioni dell’autore sul senso di sconfitta e rassegnazione che accompagna gran parte dei componenti della classe sociale da cui proviene soltanto come una semplice esaltazione della capacità dell’individuo di realizzarsi attraverso il sogno americano pur che lo voglia, tema sicuramente presente nella conduzione della narrazione, coglierebbe soltanto un aspetto, forse il più marginale, tra i tanti contenuti nel libro. In cui, più che di rifiuto del lavoro in senso politico, si parla invece di perdita di fiducia nella capacità del lavoro di offrire una reale via di uscita dalla condizione di miseria, ancor prima morale e culturale che economica, del proletariato bianco del Midwest e degli Appalachi.

Per i miei nonni, Armco era sinonimo di benessere: il motore economico che li aveva portati dalle colline del Kentucky alla classe media americana. Mio nonno amava quell’azienda e conosceva tutte le marche e tutti i modelli di automobili costruite con il suo acciaio. Anche dopo l’abbandono delle scocche in acciaio da pare di quasi tutte le case automobilistiche americane, il nonno si fermava di fronte a una rivendita di auto usate tutte le volte ch ci vedeva una Ford o una Chevy. «Questo acciaio l’ha prodotto l’Armco», mi diceva, lasciando trasparire un sincero orgoglio. Al di là di quell’orgoglio, però, non ci teneva proprio che andassi a lavorare lì3.

Una situazione che ha contribuito a cancellare e rimuovere anni di battagliere tradizioni di lotta e resistenza per sostituirli con dipendenze e traffici di sostanze medicinali prossime agli stupefacenti, come nel caso della contea di Harlan, cui l’autore accenna per la memoria delle lotte dei minatori4, che Alessandro Portelli ha reso di importanza centrale per comprendere l’evoluzione o l’involuzione dello scontro di classe in America con il suo saggio America profonda5.

Quello di Vance è un proletariato più vicino a quello descritto da Marx ed Engels nella Sacra famiglia, che a quello sempre combattivo e cosciente immaginato dai teorici dell’autonomia operaia; prossimo anche a quello descritto in altri romanzi semi-autobiografici come, ad esempio, quello di James Still, Fiume di terra, sempre ambientato tra i lavoratori poveri e i minatori degli Appalachi6. Ed è anche un proletariato lontano dalle note trionfalistiche dell’ideologia liberale dell’ormai beatificata Kamala Harris, motivo per cui le autentiche stronzate guerrafondaie e politically correct espresse da quest’ultima non possono nemmeno lontanamente sfiorarne gli interessi materiali.

Sono nato alla fine dell’estate del 1984, pochi mesi prima che il nonno desse il suo primo e unico voto a un repubblicano, Ronald Reagan. Portando dalla sua parte tanti democratici della Rust Belt come il nonno, Reagan ottenne la più grande vittoria elettorale della storia americana contemporanea. «Reagan non mi è mai piaciuto molto» mi disse tempo dopo il nonno. «Ma odiavo quel Mondale.» L’oppositore di Reagan, un democratico colto e raffinato del Nord, era l’antitesi culturale di mio nonno7.

Una distanza culturale che si mostra anche nelle aule giudiziarie, dove talvolta transita il narratore insieme ai suoi famigliari.

Sedevo in quell’affollata aula giudiziaria, circondato da una mezza dozzina di altre famiglie, identiche alla nostra. Le mamme, i papà e i nonni non indossavano completi come gli avvocati e il giudice. Indossavano pantaloni della tuta e magliette a maniche corte. I loro capelli erano un po’ crespi. Ed era la prima volta che notavo “accenti televisivi” neutri come quelli di tanti presentatori. Gli assistenti sociali, il giudice e l’avvocato avevano tutti un accento televisivo. Nessuno di noi lo aveva. Gli amministratori della giustizia erano diversi da noi, chi veniva giudicato era uguale8.

Un proletariato bianco che, in termini di emarginazione, non ha nulla da invidiare a quello afro-americano di cui spesso ha condiviso il destino sociale.

Middletown è una delle cittadine più antiche dell’Ohio, sviluppatasi nell’Ottocento grazie alla sua prossimità con il fiume Miami […] Sotto il profilo socioeconomico è prevalentemente operaia. Sotto il profilo razziale, è abitata soprattutto da bianchi e da neri (questi ultimi sono il prodotto di un’altra migrazione di massa). [Ma] La strada che era l’orgoglio di Middletown è diventata un punto di incontro di drogati e spacciatori. Oggi Main Street è il tipico posto dove nessuno ha il coraggio di avventurarsi dopo il tramonto.
Questo cambiamento è sintomo di una nuova realtà economica: la segregazione residenziale. Il numero di bianchi della classe operaia che vivono in quartieri degradati è in continuo aumento. Nel 1970, il 25 per cento dei bambini bianchi viveva in un quartiere in cui il tasso di povertà superava il 10 per cento. Nel 2000, quella percentuale è salita la 40 per cento. E oggi, quasi certamente è ancora più elevata. Come ha rivelato uno studio effettuato nel 2011 dalla Brookings Institution, « rispetto al 2000, tra il 2005 e il 2009 era più probabile che gli abitanti dei quartieri più poveri fossero bianchi nati localmente, diplomati o laureati, proprietari di casa che non beneficiavano della pubblica assistenza». […] Le ragioni sono complicate. La politica abitativa del governo federale ha incoraggiato attivamente l’acquisto di case, dal Community Reinvestment Act di Jimmy Carter alla “ownership society” di George W. Bush. Ma nelle Middletown di tutto il mondo la diffusione della proprietà immobiliare ha un costo elevatissimo: quando i posti di lavoro vengono meno in una determinata zona, il calo delle quotazioni immobiliari intrappola le persone in certi quartieri. Anche se vorreste trasferirvi, non potete, perché le case di livello più basso sono ormai fuori mercato: il valore nominale, quello su cui è stato erogato il mutuo, è superiore alla somma che sarebbero disposti a pagare i possibili acquirenti. I costi di trasferimento sono così elevati che molti rimangono dove sono9.

Ma questa segregazione e ghettizzazione forzata, che trasforma il sogno della casa di proprietà in un incubo senza risveglio, è ancora soltanto uno degli aspetti che potrebbero avvicinare il proletariato bianco povero a quello afroamericano10. Un altro era costituito (è ancora costituito?) dal rifiuto del nuovo arrivato nei luoghi in cui gli hillbilly migravano in cerca di lavoro,

Poiché le economie del Kentucky e del West Virginia erano cronicamente depresse rispetto a quelle degli altri stati vicini, le montagne avevano solo due prodotti appetibili per le fabbriche del Nord: carbone e robusti montanari. E gli Appalachi esportavano grosse quantità sia dell’uno che degli altri.[…] Negli anni Sessanta, sui dieci milioni di abitanti dell’Ohio, un milione erano nati in Kentucky, West Virginia o Tennessee. Questo dato non tiene conto del gran numero di immigrati in arrivo da altre zone degli Appalachi meridionali; e non include i figli o i nipoti di migranti che scendevano dalle montagne. Ce n’erano sicuramente tanti, perché gli hillbilly avevano tassi di natalità notevolmente superiori a quelli della popolazione indigena. [Ma] su chi lasciava le colline del Kentucky per cercare una vita migliore gravava un grosso pregiudizio negativo […] Per la classe media tradizionale dei bianchi dell’Ohio quegli hillbilly erano come alieni. Avevano troppi figli e ospitavano famigliari per troppo tempo […] Come si legge in un libro, Appalachian Odissey11, sulla migrazione di massa dei montanari nella città di Detroit: «il problema non era solo che gli immigrati in arrivo dagli Appalachi, ex-contadini “fuori posto” in quella grande città, davano fastidio ai bianchi metropolitani del Midwest. Il problema era che quegli immigrati venivano a confutare tutta una serie di assunti su come si presentavano, su come parlavano e come si comportavano i bianchi […]. La cosa inquietante degli hillbilly era la loro appartenenza etnica. Evidentemente appartenevano alla stessa razza di coloro che detenevano il potere economico, politico e sociale a livello locale e nazionale. Ma gli hillbilly avevano anche molti tratti in comune con i neri del Sud che affluivano a Detroit»12.

Non potrebbe esservi formulazione più chiara del fatto che linee del colore e linee di classe si sovrappongono talmente spesso da diventare sostanzialmente la stessa cosa. Dimenticarlo significa soltanto partecipare al grande gioco dei diritti umani usati come strumento di separazione e divisione all’interno del proletariato. Così ben espresso dalle politiche liberali in voga oggi sia in America che in Europa.

Un ultimo elemento di interesse, tra i tanti che si potrebbero ancora rilevare dalla lettura del testo di Vance, è quello sulla presunta religiosità del proletariato bianco, sempre e soltanto dipinto come misogino, razzista e ultraconservatore dal punto di vista religioso e politico, facendo come al solito di tutta l’erba un fascio come ben conviene ai difensori dell’ordine capitalistico dal “volto umano”. In realtà, come ci avverte ancora l’autore,:

nel cuore della Bible Belt, la pratica religiosa non è affatto diffusa. Contrariamente a quanto si crede, nella regione degli Appalachi — in particolare dall’Alabama settentrionale e dalla Georgia fino all’Ohio meridionale – le chiese sono molto meno frequentate che nel Midwest, in diverse zone del Mountain West e in gran parte del territorio compreso tra il Michigan e il Montana. Stranamente , noi ci crediamo più praticanti di quanto siamo in realtà. In un sondaggio effettuato recentemente dalla Gallup. gli abitanti del Sud e del Midwest dichiaravano tassi più elevati di frequentazione delle chiese di tutto il paese.
Questa ipocrisia ha a che fare con la pressione culturale. Nell’Ohio sudoccidentale, dove sono nato, sia l’area metropolitana di Cincinnati sia l’area metropolitana di Dayton fanno registrare tassi molto bassi di frequentazione della chiese, quasi nella stessa misura dell’ultralaica San Francisco. A San Francisco nessuno si vergognerebbe di non andare in chiesa. In Ohio è esattamente il contrario. [Cos+] in una parte del paese afflitta dalla deindustrializzazione, dalla disoccupazione, dall’abuso di alcol e di droghe e dal disgregarsi delle famiglie, la pratica religiosa è crollata13.

Lasciando ai soliti cospirazionisti di sinistra il compito di indagare i motivi che hanno spinto Vance in passato a scrivere questa elegia hillbilly, come recita il titolo originale, prima di convertirsi a Trump, il recensore non può far altro che consigliarne la lettura a tutti coloro che intendono ancora occuparsi degli Stati Uniti e delle contraddizioni sociali e “razziali” che li agitano, raccomandandolo a chiunque intenda occuparsi ancora di lotta di classe, poiché è sempre più utile e necessario meditare sulle contraddizioni della stessa, piuttosto che sulle facili e troppo spesso ambigue certezze trasmesse dagli slogan o dalle Convention di Chicago o Milwaukee.

Così. mentre gran parte della critica ne ha spulciato le pagine alla ricerca di indicazioni riguardanti il possibile risultato delle prossime elezioni presidenziali americane, l’impressione che se ne ricava è che il dibattito politico e letterario riposi, ancora, sulle rive di uno stagno in cui milioni di rane restano sul fondo in attesa, magari inconsapevole, di spiccare il prossimo salto, verso la luce e la rivincita di classe.


  1. M. Basile, Middletown e San Francisco, nuove città simbolo di sogno e disillusione americana, «la Repubblica» 25 agosto 2024  
  2. J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024, pp. 10-12.  
  3. Ibidem, p. 58.  
  4. In proposito si veda qui  
  5. A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011.  
  6. J. Still, Fiume di terra, Mattioli 1885, Fidenza 2018.  
  7. J.D. Vance, op. cit., p.50.  
  8. Ivi, pp. 81-82.  
  9. Ivi, pp. 51-55.  
  10. Su questa vicinanza che potrebbe dare inizio a diversi riposizionamenti nell’ambito della lotta di classe, come aveva previsto il presidente della sezione dell’Illinois delle Pantere Nere Fred Hampton, poi ucciso, nel 1969 a soli ventuno anni, dalla polizia e dal FBI nella sua casa di Chicago, si veda il film di Shaka King: Judas and the Black Messiah (2020)  
  11. Philip J. Obermiller, Thomas E. Wagner ed E. Bruce Tucker, Appalachian Odissey: Historical Perspectives on the Great Migration, Praeger, Westport 2000.  
  12. J.D. Vance, op. cit., pp. 33-36.  
  13. Ibidem, p. 96.  

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