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«I curdi hanno un solo amico: le montagne»

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La pratica in Rojava del confederalismo democratico, teorizzato da Abdullah Öcalan, mette in discussione i fondamenti degli Stati-nazione e dello sfruttamento occidentale in Medio Oriente. Per questo l’esercito turco, con la complicità dell’Occidente, cerca di annientarlo. Per questo tocca ai popoli del mondo intero sostenerlo.

Di Daniele Pepino

È appena uscita (anche in occasione della Conferenza internazionale tenutasi a Roma 4, 5, 6 ottobre) la ristampa, in una edizione riveduta e corretta a cura delle Edizioni Tabor e di UIKI Onlus, dei quattro pamphlet di Abdullah Öcalan: Pace e guerra in Kurdistan, Confederalismo democratico, Liberare la vita – La rivoluzione delle donne, La nazione democratica. Sono testi brevi, introduttivi, che non sostituiscono certo la complessità del pensiero di Öcalan e le migliaia di pagine che è riuscito negli ultimi vent’anni a far uscire dalla prigione di Imrali (che cominciano a essere tradotti in diverse lingue, tra cui l’italiano: www.ocalanbooks.com).

Il pensiero e la figura di Abdullah Öcalan sono strettamente collegati a quanto sta accadendo oggi in Siria: l’invasione e la pulizia etnica scatenate dalla Turchia contro il Kurdistan occidentale (Rojava). Non soltanto per il fatto che una delle giustificazioni portate dal presidente turco Erdogan è quella di voler liberare i propri confini dai “terroristi” di YPG e YPJ, che Ankara accusa di essere il “ramo siriano del PKK”. Ma anche perché tale operazione, peraltro simbolicamente cominciata proprio nel giorno del ventunesimo anniversario del complotto internazionale che portò alla cattura di Öcalan[1], rappresenta in un certo senso la prosecuzione di quanto auspicato con quell’arresto. Per comprenderlo occorre fare qualche passo indietro, al contesto in cui avvenne la cattura del presidente del Partito dei Lavoratori del Kurdistan.

Le pressioni turche sulla Siria, che portarono Öcalan ad abbandonare le basi siriane del PKK e a venire in Europa per “internazionalizzare” la questione curda, avvennero qualche anno dopo la fine della Prima guerra del Golfo (1991). Allora, in un Iraq devastato dai bombardamenti della coalizione occidentale, gli Stati Uniti preferirono riconsegnare le redini del governo a Saddam Hussein, per consentirgli di reprimere in un bagno di sangue l’insurrezione popolare divampata proprio in seguito alla guerra e alla speranza di liberarsi dal dittatore baathista. Poco importa che Saddam fosse stato dipinto come il peggior tiranno, mostro sanguinario al pari di un nuovo Hitler: di fronte al dilagare di una rivolta popolare incontrollabile dall’Occidente, Saddam si rivelò essere la carta migliore per mantenere l’ordine. Così il popolo iracheno venne riconsegnato nelle fauci del proprio aguzzino, che stroncò la sollevazione al prezzo di 700 mila morti e del totale silenzio dei media occidentali.

Poi, in un Iraq sfinito dalla guerra e dalla repressione e affamato dall’embargo e dalle sanzioni, si preparò il terreno per il ritorno, la Seconda guerra del Golfo del 2003, selezionando le classi dirigenti che nel dopo-Saddam avrebbero dovuto garantire il perpetuarsi delle politiche neocoloniali. La conseguente balcanizzazione su basi etniche/confessionali creò un Paese perennemente dilaniato da odi settari e sempre sull’orlo della guerra civile, garantendo così la disgregazione e l’indebolimento della società irachena al punto da renderla incapace di opporsi alle politiche neoliberiste di saccheggio delle risorse.

Per quel che riguarda il nord del Paese, il Kurdistan iracheno (KRG), la preparazione del dopo Saddam prevedeva la sua consegna ai partiti nazionalisti curdi filoccidentali, in particolare al PDK del clan Barzani, pronto a garantire l’ordine governando la regione come un proprio feudo, in nome del libero mercato, della vendita del petrolio, della corruzione e della fedeltà ai suoi sponsor: Stati Uniti, Europa, Turchia, Israele. Contestualmente andava fatta piazza pulita di ogni possibile ostacolo e alternativa, ed è proprio in questo quadro che rientra il tentativo di decapitare e distruggere il PKK e il movimento di liberazione da lui ispirato.

Già dagli anni Novanta infatti Öcalan aveva previsto il declino storico del sistema degli Stati-nazione imposto al Medio Oriente dall’eredità coloniale. Nella sua analisi il crollo di tale sistema avrebbe prodotto uno scenario di guerre e di crisi: un caos gravido di potenzialità di liberazione se le forze democratiche e rivoluzionarie fossero state in grado di scendere in campo per costruire un’alternativa. Esattamente quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente. La ricchezza del pensiero di Öcalan, oltre che nella lucidità delle previsioni, sta proprio nel fatto che il suo pensiero non è mai stato disgiunto dagli sforzi politici e militari per metterlo in pratica, tanto che il movimento da lui fondato ha costituito e costituisce il retroterra (teorico, organizzativo, militare) su cui ha potuto edificarsi il percorso rivoluzionario oggi in atto in Rojava.

In questo senso l’operazione oggi in atto nel nord della Siria costituisce la continuazione di quanto tentato – e non riuscito – nel 1998 con l’arresto di Abdullah Öcalan: l’annientamento della prospettiva del confederalismo democratico, germogliata dalle sue idee e dagli sforzi e dal martirio di migliaia di militanti del PKK negli ultimi quarant’anni. Una prospettiva e una pratica che mettono radicalmente in discussione i fondamenti stessi della presenza degli Stati-nazione e dello sfruttamento capitalista in Medio Oriente:

– La fine dello scontro fratricida tra le componenti etniche, religiose, linguistiche, inaugurerebbe una convivenza pacifica rimuovendo lo strumento del divide et impera su cui si fondano tutte le potenze egemoniche dell’area.

– Il protagonismo dal basso a tutti i livelli operativi e decisionali concretizzerebbe quella che Öcalan ha definito una “amministrazione politica non statuale” o “democrazia senza Stato”, revocando agli Stati-nazione la loro stessa ragione di esistere e di governare.

– Il rinnovato e paritario ruolo delle donne in ogni àmbito della vita sociale rappresenterebbe il tramonto dell’oppressione patriarcale su cui si fondano 5000 anni di schiavitù, inaugurando l’alba di una nuova – e al tempo stesso antichissima – civiltà.

Non c’è da stupirsi, dunque, che il Rojava – nonostante sia da anni un’eccezione di pace e convivenza in una regione devastata dalla guerra, e anzi proprio per questo – non abbia il sostegno di nessuno Stato. Seppure i curdi del Rojava hanno inevitabilmente cercato di barcamenarsi nelle dinamiche di guerra che dilaniano il Medio Oriente anche costruendo di volta in volta alleanze tattiche con le potenze statali in gioco, essi sono i primi ad aver ben chiaro di non avere nessun amico tra gli Stati-nazione.

Tocca ai popoli del mondo intero sostenere questo esperimento, impedire ai propri governi di continuare a sostenere Erdogan con armi, tecnologie, soldi, accordi politici e commerciali[2]. Sta a noialtri, alle donne e agli uomini che hanno a cuore la libertà, la giustizia sociale – o anche solo la pace – riuscire a costruire, non solo a parole, l’eccezione al detto secondo cui «i curdi hanno un solo amico, le montagne».

Se non ci riusciremo, se permetteremo che questo barlume di speranza venga soffocato nel sangue dai diktat dell’economia e dai suoi tagliagole, non dovremo stupirci quando un po’ di quel sangue si riverserà anche nelle nostre metropoli. Non dovremo stupirci della prossima strage in una stazione, discoteca, aeroporto o centro commerciale. Non dovremo stupirci perché ce lo saremo meritato.

 

[1] Il 9 ottobre 1998 Abdullah Öcalan venne costretto a lasciare la Siria, dove da anni il PKK aveva le proprie basi e accademie. Si recò prima in Grecia, poi in Russia, infine in Italia. Arrivato a Roma il 12 novembre 1998, accompagnato da Ramon Mantovani di Rifondazione comunista, il leader del PKK si consegnò alle autorità italiane, avendo avuto garanzie di ottenere l’asilo politico. Le pressioni turche, però, e la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane, spinsero il governo di centro-sinistra a ripensarci. Non potendo estradare Öcalan in Turchia, Paese in cui era ancora in vigore la pena di morte, e al tempo stesso non volendo concedergli l’asilo, il governo D’Alema prima temporeggiò, poi optò per liberarsi di Öcalan portandolo in un altro Paese, il Kenya, da dove poco dopo venne rapito da agenti della CIA e del MIT (i servizi segreti turchi) ed estradato in Turchia. Due mesi dopo l’espulsione, un tribunale italiano riconobbe a Öcalan – ormai prigioniero in Turchia, dove si trova tuttora – il diritto all’asilo politico in Italia.

[2] Si vedano, tra gli altri: https://euarms.com/weapon/1hwgUTEtZ4OrXVBAYc3YI9 (sulla vendita di armi italiane alla Turchia) e https://comune-info.net/e-se-usassimo-il-boicottaggio/ (su ditte e prodotti turchi in Italia).

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