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Il calcio di prima non tornerà più – Incontro con Paolo Sollier

Quello che più colpisce di Paolo Sollier è che nonostante sia stato elevato negli anni a una delle massime icone del romantico guardarsi indietro, nella direzione temporale di un impegno politico “espanso” e soprattutto di un calcio più umano e più collettivo, non c’è traccia di nostalgia in lui. Uno sceneggiatore mediocre, a immaginarlo quarant’anni dopo, probabilmente se lo figurerebbe schivo, vagamente disilluso e ancorato alle categorie del passato, e dunque si stupirebbe a riconoscere nell’icona del calcio militante che fu il profilo energico e spontaneo di uno sportivo curioso e aggiornato, perfettamente calato nella realtà che lo circonda, e lesto nel registrarne i cambiamenti.

«Oggi si sa tutto di tutti e subito, naturale che si debbano cercare nuove strade per raccontare il calcio. A volte alcuni di questi campioni fanno un po’ pena perché al netto dei soldi che guadagnano essere indagato costantemente dalla telecamera, ventiquattro ore su ventiquattro, non credo sia una bella esistenza. Bisogna secondo me creare di nuovo una distanza, che ci dev’essere. Perché si crei un mito, ci vuole mistero. Perché una cosa diventi bella, ci dev’essere una distanza».

Siamo a Bologna in via Zamboni 38, nella storica Facoltà di Filosofia, ospiti di ‘Parole nel pallone’, una tre giorni dedicata alle narrazioni calcistiche organizzata dal Laboratorio Crash e dal Cua Bologna, in cui si sono confrontate diverse esperienze di raccontare il pallone: da Darwin Pastorin a Gianni Mura, da Wu Ming 5 a Cass Pennant. La maggior parte dei presenti Sollier non l’ha mai visto giocare, ma è venuta ad ascoltare la voce di un’esperienza che è stata insieme sia sportiva che politica. I due scenari, infatti, per Paolo camminano insieme, in quanto entrambi sono specchio ed espressione di una realtà sociale cangiante ma interconnessa.

«C’è stata una progressiva e quasi inarrestabile individualizzazione nella società. Il messaggio ognuno fa per sé è diventato dominante: non a caso sono andati in crisi i partiti, le associazioni, tutto ciò che teneva insieme le persone sulla base delle loro preferenze. L’individualizzazione ha funzionato anche nel mondo del calcio, inevitabilmente. Questi fenomeni sembra quasi siano ingovernabili. Non è vero. Se ripartisse un momento di messa in discussione di queste dinamiche sociali oggi, sicuramente si porterebbe appresso un nuovo modo di fruire lo sport. Una delle cose che sarebbe bene fare è un richiamo alla socializzazione non soltanto sportiva, perché necessariamente il discorso deve partire dalla società».

Della sua iconografia classica è cambiata la barba, imbiancata, ma quello che è rimasto e che dalla storica foto a pugno chiuso non poteva trasparire sono le movenze scattanti tipiche dell’attaccante abituato a seguire l’azione, e la perseveranza di chi per passione non esiterebbe mai a tornare a centrocampo a recuperare il pallone.

Recuperare il pallone

Perché il pallone, secondo Sollier, va recuperato, soprattutto a livello sociale, non ci si può permettere di buttarlo via in quanto espressione di un “trionfo” del capitale.

«Il calcio, come tutti gli sport in generale, è un linguaggio universale. Attraverso le sue regole comunica e ti permette di comunicare, ovunque tu vada nel mondo. E’ uno sport ultimamente rovinato un po’ troppo dal denaro ma dove è sempre possibile che nasca la squadra “povera” che mette in preoccupazione tutti gli altri – e come dargli torto, nel giorno stesso in cui il Leicester City di Ranieri ha sconfitto il Manchester City degli sceicchi (ndr) – , il che lo rende meraviglioso. Andrebbe salvaguardato e non consegnato a capitali e alle televisioni, ma è chiaro che questo è un discorso molto difficile da fare ormai, perché ci sono i bilanci. E allora bisogna trovare un compromesso, perché non perda quella dimensione sociale ed emotiva che lo caratterizza».

A questo proposito, la rinascita di un’attenzione al calcio che parte dal basso lo conforta, ma non è ancora abbastanza: «Il fatto che nascano iniziative a vari livelli incentrate sullo sport popolare è una cosa molto bella, le iniziative che partono dal basso si portano dietro lo spirito dell’associarsi per giocare. In generale però oggi questo accade in pochissime realtà rispetto a quelle in cui avviene il contrario. Nel discorso calcistico contano tantissimo i capitali, e chi non ha i soldi fa una grandissima fatica. Io vivo a Vercelli, e lì il passato di grande calcio negli anni è stato spesso un peso. La gente vive ancora sugli scudetti degli anni ’20 e ’30 e quindi anche da squadre buone che giocavano in serie C veniva avvertita la pressione di questo passato. Molte squadre hanno faticato, o pagato il peso di questo passaggio».

L’ansia del risultato, dunque, rimane un grosso ostacolo al gioco inteso come divertimento, a maggior ragione in un periodo in cui anche il capitale ha conosciuto un ridimensionamento delle sue promesse.

«Oggi l’imperativo è vincere a tutti i costi. Quand’ero ragazzo il mio allenatore mi diceva ‘devi giocare bene, devi conoscere il tuo limite e cercare di superarlo mettendoci tutto quello che puoi’, ma se tu perdi non è che sei un cretino, sei uno che ha fatto il possibile. Oggi invece se perdi sembra che tu sia un cretino, come sei un cretino nella società se a una certa età non hai un lavoro. Paradossale, passa il messaggio che tu il lavoro non ce l’hai perché sei stupido, quando invece il problema è un altro. E’ un discorso di cultura sportiva su cui bisognerebbe intervenire, basta guardare quello che succede sugli spalti tra i genitori durante le partite di calcio giovanile… su questo bisognerebbe riflettere molto, sul tipo di cultura che viene portata avanti non solo nel calcio ma anche nella società».

Il percorso verso il progresso non ammette nostalgia

Nella giornata inaugurale di ‘Parole nel pallone’, insieme a Gianni Mura si ragionava sulla trasformazione avvenuta nella logica degli allenamenti calcistici: lo sviluppo prioritario, quasi militaresco, delle abilità atletiche e fisiche dei calciatori, a scapito di quelle tecniche. A un giorno di distanza Paolo Sollier torna sull’argomento, ma offre una prospettiva altra al riguardo, assai meno nostalgica e più pragmatica.

« Il fatto che negli ultimi anni si sia puntato molto sulla preparazione fisica è vero, ma fa parte dell’evoluzione del gioco. Le squadre 30-40 anni fa erano lunghissime, tra i giocatori c’erano spazi enormi, oggi sono corte, oggi vedi che un calciatore molto tecnico che fa una giocata ha molta meno libertà, deve pensare a saltare l’avversario e ce n’è un altro spesso che sta intervenendo a raddoppiare. Oggi il campione – è normale – deve essere più muscolare, ma di conseguenza la tecnica deve essere superiore, perché deve seguire il passo della velocità. Non c’è dubbio quindi che i giocatori di oggi siano più forti di quelli del passato, perché fanno quelle determinate cose a quella velocità con ritmo molto più sostenuto e all’interno di tattiche molto più evolute».

Nessun problema se il calcio diventa più fisico dunque, è il progresso, bellezza, semmai sono altre le questioni che lo preoccupano.

«C’è ovviamente un progresso nelle cose, ma quello che penso manchi è invece la felicità in alcuni ragazzi. quella emotiva. È chiaro, ci sono delle soddisfazioni, ma la soddisfazione è una cosa diversa dal gioco, si raggiunge e si esaurisce in base al risultato, mentre il divertimento prescinde da esso. Il fatto di acquisire tutte le capacità tecniche possibili senza che queste si innestino su un’esperienza emotiva temo lasci qualche danno. Se io acquisisco una tecnica calcistica attraverso il gioco essa penetra profondamente dentro la mia persona, se questa stessa capacità viene acquisita tramite l’addestramento, diventa qualcosa di un po’ più estraneo».

E, come spesso accade, una trasformazione del genere non riguarda solo lo sport.

«Notavo che rispetto ai tempi in cui ho cominciato da ragazzino, in cui dovevamo fare le cose per conto nostro, decidendo il posto e le regole, oggi quello spazio è sostituito dalle scuole calcio, si gioca di meno liberamente con gli amici, questo può essere un limite alla fantasia e non è una trasformazione relativa soltanto al calcio, dato che oggi sono diventate di moda anche le scuole di scrittura. Se infatti prima chi aveva voglia di scrivere faceva allenamento per conto suo, poi scriveva, poi buttava via i fogli, poi magari si confrontava con qualcuno, oggi invece ci sono scuole che ti insegnano le tecniche di scrittura».

Allora, penso, si potrebbe dire che si stava meglio prima. Per Paolo Sollier, invece, non è affatto detto: «Sulle spiegazioni assolute sono sempre molto diffidente». Parla di esperienze diverse, che non possono essere messe a paragone, ma che rispetto alle basi di partenza potrebbero essere completate da uno spirito meno meccanicistico.

«La società va avanti, il suo ruolo è quello: non ti deve far avere nostalgia di quello che c’era prima, ma farti capire le differenze e apprezzare quelli che sono i miglioramenti. Probabilmente il risultato finale sarà che verranno fuori degli scrittori tecnicamente più bravi, ma mancherà un po’ di quella vita vissuta, specie nel periodo adolescenziale, quel deposito di emozioni che si possono trasferire nella scrittura. E la stessa cosa vale anche nel pallone, per i calciatori. I ragazzi che giocano per strada con gli amici hanno qualcosa di più poetico della scuole calcio, che vedo un po’ più fredde, e che sono un importante passaggio tecnico. Purtroppo solo tecnico e non emozionale».

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Sport, politica e sessismo

«Non ho mai avuto ritorsioni per problemi politici, li ho avuti semmai con alcuni gruppi di tifosi e con alcuni giornalisti, ma è chiaro che questo possa avvenire quando prendi delle posizioni e dici cosa pensi». E Paolo Sollier non ha perso l’abitudine di dire cosa pensa, né tantomeno di leggere in parallelo cambiamenti sociali e cronaca sportiva.

«La vicenda Sarri mi ha fatto molto riflettere, innanzitutto perché lui mi è sempre piaciuto molto, per il percorso umano e professionale che ha fatto, ma poi mi ha colpito perché quando tu giochi, e vengono meno i freni inibitori, secondo me quello che dici fa venir fuori qualcosa che comunque in qualche modo hai dentro, anche se sei la persona migliore del mondo. E questo conferma l’opinione che ho di questo Paese, in cui un certo sessismo persiste, anche negli ambienti che dovrebbero essere più progressisti, dove mi capita di ascoltare certi discorsi su ruolo di uomo e donna che fanno rabbrividire. Anche da parte di persone che giudico ottime persone, ma che si portano dentro uno strascico di questi comportamenti che secondo me sono da rivedere».

«Da ragazzo ero juventino ma una volta diventato professionista mi sono allontanato dal tifo, dopodiché sono stato ferocemente critico, sia perché avevo altre posizioni sociali e politiche rispetto al mondo bianconero, sia perché una volta diventato giocatore avversario era normale che trovassi la squadra più forte anche la più antipatica. Ma proprio per l’insieme di questi due fattori dico sempre che con me la Juventus è riuscita a fare un miracolo: sia che perda, sia che vinca, io sono contento».

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