Il “caso Palamara” o di come si scopre l’acqua calda
Fin dalle scuole medie ci viene venduta la storiella della “separazione dei poteri” come garanzia dello Stato di diritto.
Una storiella edificante, ma che trova ben poche verifiche storiche. L’opinione pubblica si turba quando periodicamente emergono scandali che riguardano le contiguità tra magistratura e politica, ma bisognerebbe smetterla di stupirsi. Il caso Palamara è semmai la dimostrazione del livello di disgregazione a cui sono arrivate le istituzioni democratiche, neanche in grado di mantenere nelle segrete stanze le lotte di potere e le spartizioni che avvengono da sempre al chiaro di luna.
Che la magistratura in Italia rivesta un ruolo politico, e un ruolo di lotta politica, è un mistero solo per chi, come molti a sinistra, continua a farsi abbagliare dai miti costruiti ad hoc dalle narrazioni semplicistiche della “guerra alla mafia”. Una guerra alla mafia che, un po’ come la “war on drugs” statunitense per quanto riguarda il mito nixoniano, fa parte dell’epica fondativa della Seconda Repubblica, ma che nei giorni in cui, annualmente, si torna a parlare della “trattativa Stato – Mafia” mostra tutta la corda a chi vuole aprire gli occhi.
Ma torniamo a noi, il caso Palamara non fa che evidenziare come la magistratura sia il braccio armato dello Stato, quest’ultimo inteso alla maniera di Marx, come “comitato d’affari della borghesia”. Un buon “comitato d’affari” dunque ha bisogno di spartirsi il territorio per non pestarsi i piedi, ha bisogno che nessuno sia scontento della sua fetta e che tutti collaborino a impedire che altri, non seduti in quel comitato, ribaltino il tavolo. Il fatto che i panni sporchi vengano messi in piazza via intercettazioni e indagini vuol dire solo che qualcuno è rimasto scontento in queste spartizioni o che le suddette spartizioni non rappresentano più l’equilibrio datosi nel tempo nel quadro politico più generale.
Un altro scandalo recente in magistratura ci dà la percezione di cosa stiamo parlando: il caso Capristo, il procuratore capo di Taranto finito ai domiciliari per tentata induzione, truffa e falso, che, secondo i giornali, ha tentato di condizionare le indagini della procura di Trani (procura che guidava prima del suo arrivo a Taranto). Sempre secondo i giornali Capristo avrebbe messo in piedi una vera e propria gestione para mafiosa della procura di Taranto, con contatti importanti come quello con la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati. Capristo nelle intercettazioni definiva chi si oppone a questo sistema di potere “comunista di merda”, dunque si può comprendere facilmente da che orientamenti politici fosse viziato il lavoro della magistratura di Taranto.
Chiunque abbia partecipato a delle lotte che mettano seriamente in discussione gli interessi di questo o quel gruppo di potere sa bene cosa significhino queste asserzioni. E infatti l’unico fronte comune che sembra unire le magistrature da nord a sud, di quasi ogni colore politico, è la repressione delle lotte sociali. Senza andare con la memoria ai tempi andati basta osservare le vicende che riguardano la persecuzione del movimento No Tav e degli altri movimenti ambientali.
Certo, non è che non esista una soggettività politica dei singoli magistrati. Non è che orientamenti e modi di interpretare il diritto non vengano determinati anche dal vissuto individuale dei singoli, ma nel suo complesso l’organo svolge delle funzioni che molto spesso hanno ben poco a che vedere con il “fare giustizia” e lo “scoprire la verità”.
Dunque che volino pure gli stracci in pubblico durante la videochat dell’Anm (questi tempi strani ci permettono di derubricare il motto di Blade Runner: “Ho visto cose che voi umani…”), questo modello di amministrazione è corrotto, marcio, ingiusto ed è irriformabile. Ed è un bene che sempre più gente scopra l’acqua calda.
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