La non-eccezione marocchina: “Much Loved” ed il Realismo, colonialismo e pornografia nel cinema marocchino
Un’ondata di controverse reazioni hanno dominato i media marocchini a seguito dell’uscita del nuovo film di Nabil Ayouch, Much Loved, una storia incentrata su tre prostitute marocchine a Marrakech. Le reazioni che il film ha suscitato provengono dalla visione del trailer e da diversi estratti apparsi online, alcuni dei quali contengono esplicite scene di sesso. Gli stessi estratti sono stati pubblicati poco prima della presentazione del film alla Quinzaine des Realisateurs a Cannes. Le proteste [a seguito dell’uscita del film “scandaloso”, ndt], sono culminate con la censura del film da parte del Ministero delle Comunicazioni marocchino. Le reazioni al film hanno sollevato numerose questioni nella stampa marocchina francofona, così come tra alcuni critici europei, che si sono chiesti come gli spettatori potessero essere così infastiditi da un film che non avevano ancora visto nella sua interezza.
Tutte le opposizioni al film sono state etichettate come reazionarie, la stampa francofona, però, ha largamente ignorato la varietà e la complessità delle risposte. Alcuni articoli hanno descritto la rabbia dell’opinione pubblica come “malata”, “retrograda”, “violenta”, “ancorata alla tradizione”, “medioevale”, “islamista”, mentre la gente come “vile” e “populista”. In un editoriale, l’autore parla di “reazioni negative incomprensibili”, una frase che ricorda la narrazione del giornalista francese durante la fine della battaglia di Algeri: “ululati incomprensibili provenienti dalla Kasbah”. Come il giornalista faticò a capire perché gli algerini si ribellarono al colonialismo, la mancanza di comprensione della stampa francofona dimostra il distacco dal contesto sociale, politico e storico dal quale un tale “rivolta” può emergere. La protesta è vista solo come un sintomo dell’arretratezza marocchina.
Questo articolo pone al centro della discussione le affermazioni critiche fatte sul film, con particolare attenzione alla questione del Realismo e le controverse reazioni nei confronti di ciò; per tentare di capire il diffuso sentimento negativo verso il film in un modo più chiaro, attraverso un quadro storico coloniale e neo-coloniale; e cercando di far luce sulle tendenze sessiste ed orientaliste presenti nel film che in parte ha incitato le reazioni negative. Questo pezzo è, prima di tutto, un commento sulle critiche (sia nella stampa, sia tra marocchini medi che si opponevano fermamente al film), piuttosto che una critica del film in sé. L’articolo non esula, tuttavia, dall’esaminare criticamente il film al fine di comprenderne meglio la rabbia che gli è stata mossa contro. La prima sezione di questo articolo è incentrata sugli argomenti più comuni in favore del film tra i critici: la rappresentazione realistica dell’atto della prostituzione e di come alcuni critici marocchini sostengano che si tratti di un metodo adatto ad influenzare la società ed a cambiare il sentimento verso le prostitute. La seconda parte è un tentativo di collocare storicamente il cinema marocchino in un contesto coloniale e neo-coloniale, al fine di dare un senso a quella che potrebbe essere la fonte della “rivolta” contro il film. L’ultima sezione, si muove lungo la sottile linea della critica del film stesso e di una critica delle critiche, si indirizza su come il film possa essere visto: come una continuazione di entrambi “discorsi coloniali” sessisti ed orientalisti ed in che modo questo discorso può essere controproducente con l’obiettivo dichiarato del film che sarebbe quello di cambiare l’atteggiamento verso le prostitute e le donne, in generale, nella società marocchina. Questo pezzo attinge ad un gran numero di osservazioni presentate sui social media, alle discussioni con marocchini provenienti da varie classi sociali che hanno espresso il loro malcontento sul film e alle note sui rumorosi dibattiti quasi onnipresenti che hanno avuto luogo nei caffè di Casablanca durante la fine di maggio e l’inizio giugno 2015. I loro pensieri e le loro credenze vengono presentate in questo articolo, in netto contrasto con le affermazioni fatte dai critici sulla stampa francofona e situate all’interno del contesto sociale e storico che li avrebbe prodotte.
Realtà vs Realismo
Attraverso una moltitudine di articoli che sono emersi sulla stampa francofona (sia marocchina che francese), alcuni critici hanno accusato coloro che hanno reagito negativamente al film di essere incapaci di capire il Realismo. Questa accusa è la base di quasi tutti gli scritti in difesa di Much Loved. Il film, a detta di chi lo difende, è solo una rappresentazione di una realtà sociale (Abdellah Tourabi di TelQuel [settimanale marocchino, ndt], si spinge fino ad affermare che il film è “tra il documentario e la finzione”). Eppure, è proprio perché il film pretende di ritrarre una realtà sociale che è oggetto della critica sociale. Come Shohat e Stam sottolineano citando Michail Bachtin: “l’arte è incontrovertibilmente sociale, non perché rappresenta il reale, ma perché descrive un modo di fare contestualizzato storicamente […]” [1].
Proprio come si è potuta comprendere la frase “ululati incomprensibili provenienti dalla Kasbah”, dopo aver capito la storia di violenza della Francia inflitta agli algerini, si possono anche capire le “incomprensibili reazioni negative” dopo aver compreso Much Loved come “’espressione’ storicamente contestualizzata”. La frustrazione popolare verso il film, anche se fomentata solo in base ad estratti, non è priva di senso o casuale. Questa frustrazione è consapevole, o parzialmente cosciente, di ciò che la sta guidando, e quando è inserita in un contesto storico di dominazione coloniale e dell’attuale contesto di dominazione neo-coloniale – economico, sociale, politico e culturale – possono essere intesi come il suono della reazione. “Quel qualcosa di vitale che è in gioco in queste discussioni” sul cinema, scrivono Shohat e Stam, “diventa evidente in quei casi in cui intere comunità protestano con passione le rappresentazioni che sono state fatte di loro, in nome del proprio senso esperienziale della verità”.
La posta in gioco in queste discussioni è la realtà vissuta delle masse o la loro concezione di quella realtà vissuta. Pertanto, le persone non sono necessariamente interessate al film stesso, ma piuttosto alla sua funzione di violazione, di influenza e di azione in quella realtà sociale da cui è emerso. Per questo motivo, diventa ironico quando, Mahi Binebine scrive “Allez censeurs du dimanche brulez tout!” (Andiamo censori amatoriali, Bruciare tutto!) perché coloro che reagiscono contro il film lo fanno in quanto hanno paura dell’“immagine riflessa” della loro società, al contrario, la maggior parte dei marocchini ha esperienza o familiarità con le condizioni che creano che l’ “immagine riflessa”.
Per essere più chiari, le terribili e diffuse condizioni in Marocco – che vanno dalla povertà alla mancanza generale di una corretta educazione e di una sanità – producono le circostanze e le realtà da cui emerge questa “immagine speculare”. In effetti, alcuni dei pareri controversi che sono stati fortemente espressi nei bar, nei social media e nella stampa di lingua araba verso il film sono stati tratti da una proclamata familiarità con la realtà (“non abbiamo bisogno che Ayouch venga dalla Francia per dirci quello che già sappiamo”), al fine di criticare il film ed un regista che viene percepito come paternalistico.
La stragrande maggioranza dei critici francofoni ha ignorato il suo percepito paternalismo, molti in realtà hanno glorificato Ayouch come una figura benevola e – dopo la censura del film – lo hanno descritto come un martire liberale del “linciaggio” da folle intolleranti. Preoccupati per l’intensità delle reazioni negative, la maggior parte dei critici francofoni non è riuscita a mettere in discussione l’autoproclamata benevolenza del regista e valutarne l’efficacia dell’approccio- realistico del film ai fini del suo obiettivo dichiarato ovvero quello di influenzare il cambiamento sociale. Alcuni critici hanno preso il “ritratto accurato e realistico”, indiscutibilmente, come il modo più efficace per cambiare la società marocchina attraverso il cinema. Nessuna domanda è stato posta sul fatto che, per dirla con le parole di Tomas Guiterez Alea, “il cinema può disegnare spettatori più vicini alla realtà senza rinunciare alla sua condizione di irrealtà, finzione, altrove” o se “porta gli spettatori, una volta hanno smesso di essere tali e si trovano ad affrontare quell’altro aspetto della realtà (spettatori della propria vita, la loro realtà quotidiana) ad una serie di ragionamenti, giudizi, idee e, quindi, una migliore comprensione della realtà stessa ed un adattamento del loro comportamento, della loro attività pratica”. [2]
[…]
Ciò che i critici hanno perso – il punto sull’efficacia del film come mezzo per ispirare il cambiamento sociale – gli spettatori hanno raccolto online. Alcuni interlocutori sui social media, per esempio, si sono chiesti: “non abbiamo veramente bisogno di usare parole volgari e la pornografia per fare [un] cambiamento sociale?” eco delle domande e delle dichiarazioni ascoltate in conversazioni ad alta voce nelle caffetterie.
Nella sua essenza, la questione pone il problema dell’accessibilità e di come parole volgari e scene pornografiche possano rendere il film inaccessibile ad una larga parte della società marocchina. Altri commenti fatti verso il film ricordano The Viewers Dialectic di Alea: “Lo spettacolo più socialmente produttivo di sicuro non può essere uno che si limita ad essere una riflessione più o meno precisa della realtà, esattamente come la realtà si offre nella sua immediatezza. Questo sarebbe altro nient’altro che una duplicazione dell’immagine che già abbiamo della realtà”.
Il punto qui non è per dire che il Realismo sia del tutto inadeguato per il contesto marocchino, o completamente frainteso. Infatti, possiamo citare una pletora di film realisti marocchini che sono stati accessibili ed in varia misura, efficaci – da Alyam Alyam (1978) a L’Orchestre des Aveugles (2015). Piuttosto, il punto è quello di sollevare le questioni che si pongono: quali siano i casi in cui possa essere efficace per un film cercare di imitare la realtà il più vicino possibile, quale possano essere gli aspetti della realtà che dovrebbero essere esclusi per garantire che un film non sia dannoso per le persone che vivono all’interno della realtà in cui viene ambientato, e quando invece dovrebbe alludere o fare delle rappresentazioni astratte.
Il contesto coloniale del cinema in Marocco
Qui, è utile ritornare all’idea che Much Loved – che si tratti di vero realismo o no, se sia socialmente efficace o no – sia un “espressione da collocare storicamente”. Anche se un gran numero di importanti fattori politici, economici, religiosi, linguistici e culturali influiscono nei marocchini e che hanno un impatto significativo sul modo in cui essi comprendono le rappresentazioni cinematografiche del reale, non si può dare un senso alla “rivolta” contro Much Loved senza contestualizzarlo storicamente. Dal momento in cui il cinema e la fotografia sono stati entrambi introdotti in Marocco durante il periodo coloniale (come Shohat e Stam sottolineano, il cinema stesso è nato presso la “vertiginosa altezza dell’imperialismo”), per brevità, questo articolo si concentrerà solo sui fattori storici che hanno avuto un impatto nel cinema marocchino da quel periodo. L’intento non è quello di minimizzare l’importanza di altri fattori che precedono l’epoca coloniale, non è nemmeno quello di affermare che i fattori storici siano i più essenziali o i più pertinenti. È piuttosto quello di dimostrare che ci sia una certa continuità del discorso coloniale nel cinema marocchino che possa spiegare (insieme ad altri fattori che sono incapace di affrontare completamente in questo articolo) parte dell’ostilità nei confronti dei produttori di immagini.
Degli articoli, critiche, recensioni che qualche critico marocchino ha pubblicato in difesa del film, molti hanno evocato opere letterarie che hanno sfidato i tabù della storia del Marocco, al fine di fare il punto di come la società marocchina sia regredito e diventata meno tollerante. Binebine, per esempio, paragona Much Loved con i classici della letteratura marocchina, come quella di Mohammed Choukri, For Bread Alone. Eppure, le immagini e le parole non sono equivalenti.
[…]
I nordafricani sono spesso proprietari delle loro parole e hanno esperienza nell’utilizzarle come metodo per rompere i “tabù”, dalla poesia di Abu Nawas ai testi di Cheikha Rimitti. Eppure, le immagini – in particolare le immagini “realiste” nella fotografia e nel cinema – sono storicamente funzionate come un mezzo per promuovere e giustificare il colonialismo. Jean Rouch sottolinea che il decreto Laval del 1934, che la Francia ha emanato nelle sue colonie africane al fine di regolare il cinema, “è servito come pretesto per negare ai giovani africani … il diritto di riprendere i loro paesi” [4]. In Marocco in particolare, gli ulteriori dahirs (decreti reali) del 9 dicembre 1940, del 14 agosto 1941, 18 aprile 1942 hanno effettivamente messo il cinema sotto stretto controllo francese e censura. [5]. È con questo spirito che il Centro Cinematographique Marocain (CCM) è stato fondato nel 1944. Rappresentando il Marocco attraverso l’immagine visiva, era un’attività concessa solo al colono il cui interesse fu quello esclusivo di ritrarre il colonizzato descrivendolo come beneficiario delle opere del colono. Affermando di aver ritratto la realtà, i fotografi orientalisti come Marcelin Flandrin, pittori come Delacroix, o registi come David Butler hanno coltivato un’immagine distorta e spesso disumanizzata dei marocchini. Molte di queste immagini, sia che fossero “etnografiche” o “artistiche”, sono state poi esposte in Occidente al fine di giustificare la dominazione violenta del colonialismo e dello sfruttamento di altri popoli. [6] Furono queste le attività cinematografiche e fotografiche coloniali che inizialmente hanno fomentato il sospetto sulle immagini realistiche aspetto che, fino a quel momento, è stato quasi inesistente nella cultura marocchina.
Oggi, nel contesto neo-coloniale del Nord Africa e dell’Africa occidentale (“Françafrique”), siamo in grado di testimoniare – in una forma o nell’altra – il controllo francese indiretto nel cinema, tra cui il cinema marocchino appunto. A questo punto, dovrebbe essere chiaro che non credo che l’intero corpus di film marocchini prodotti siano stati influenzati o controllati da istituzioni francesi. Né credo che tutti i film che abbiano finanziato le istituzioni francesi, non cercarono di sovvertire l’aiuto culturale francese per trasmettere idee che contraddicevano le intenzioni neo-colonialiste di programmi come il CAI (Consortium Audiovisuel International), ADEAC (Association pour le développement des échanges artistiques et culturels), l’Ufficio di presidenza del Cinema presso il Ministero della Cooperazione francese e Fonds Sud Cinéma. Possiamo citare il caso di Farida Belyazid, Une Porte sur le Ciel (1988) come esempio di sovversione dei fondi francesi mentre interpreta un personaggio che rifiuta l’identità francese ed abbraccia un’identità sufi musulmana come mezzo per raggiungere l’emancipazione femminile. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che una parte significativa dei registi marocchini che hanno ricevuto aiuti francesi tendono a cadere lungo una visione liberale occidentale della società marocchina, tendenza che è in aumento dopo l’esplosione dei programmi neoliberisti della fine del 1990.
Nabil Ayouch entrò nella scena del cinema marocchino contemporaneamente con la nascita delle politiche neoliberiste in Marocco. I titoli di coda nei suoi film rendono chiaro che Ayouch riceve finanziamenti da Francia o dal Belgio (da entrambi i donatori pubblici, come Fonds Sud del Ministero degli Affari Esteri francese, e donatori privati come Canal +). I finanziamento francesi per i film africani non è un tipo di beneficenza. Come racconta Manthia Diawara, dopo l’indipendenza di molte colonie africane, la Francia ha intrapreso, a partire dal 1961, una politica attraverso il Ministero francese della Cooperazione (ora parte del Ministero degli Affari Esteri) che ha sostenuto i registi di “francofoni” al fine di mantenere la dominazione francese neo-coloniale in Africa. [7] Diawara spiega che ci sono due modi per identificare il neocolonialismo sotto forma di aiuto francese per quanto riguarda il cinema africano: assimilazione e monopolizzazione. L’assimilazione, scrive Diawara, “si basa sulla premessa di selezionare alcuni africani benestanti dando loro gli stessi privilegi come a uomini e donne francesi. Dirigere film è uno di questi privilegi”. La monopolizzazione, dall’altra parte “condizionare gli amministratori a conformare la loro sceneggiatura per gli standard francesi. È in questo senso che le sceneggiature controverse ed anticolonialiste come La Noire de … vengono rifiutate”. Mentre è adorato dalla critica francese, la maggioranza del pubblico marocchino di lingua araba disprezza Much Loved, confermando l’idea che il film è destinato ad un pubblico occidentale o occidentalizzato e non al pubblico marocchino nel suo complesso. Non c’è da meravigliarsi quindi che il film sia stato possibile vederlo almeno undici volte in Francia all’interno della prima settimana di proiezioni alla Quinzaine des Realisateurs e mesi prima che uscisse in Marocco.
Much Loved intersezione tra il discorso coloniale e quello sessista
Per soddisfare l’Occidente, Much Loved può funzionare come una continuazione del discorso colonialista/imperialista, definito da Ella Shohat e Robert Stam come “l’apparato linguistico e ideologico che giustifica, contestualmente o addirittura retroattivamente le pratiche coloniali / imperiali”. In questo caso, il discorso riguarda nello specifico la situazione delle donne, il corpo delle donne, e la concezione orientalista europea del mondo musulmano secondo il quale sarebbe più oppressiva con le donne. In Women and Gender in Islam, Laila Ahmad descrive come le strutture di governo patriarcali britanniche abbiano diffuso l’ideologia femminista occidentale nell’Egitto coloniale. Queste osservazioni possono essere applicate anche ai discorsi coloniali francesi nei confronti del Maghreb. Scrive, mentre loro “avevano concepito teorie per contestare le affermazioni del femminismo, e avevano deriso e respinto le idee del femminismo” in Europa, allo stesso tempo “hanno catturato il linguaggio del femminismo e reindirizzato, al servizio del colonialismo, contro altri uomini e le culture di altri uomini” nelle colonie. [8]
Nell’ambito di un sistema patriarcale e coloniale, il colonizzatore potrebbe subito parlare della necessità di liberare la donna magrebina dall’uomo magrebino mentre fotografa il suo corpo nudo, come oggetto sessuale per i desideri maschilisti coloniali (desideri che sono stati spesso espressi violentemente con lo stupro delle donne native da eserciti dei colonizzatori). Jean-Hippolyte Flandrin, per esempio, come altri fotografi coloniali e registi, a volte hanno raffigurato le donne marocchine come vergini – figura retorica comune nelle immagini coloniali che denota sia le donne native che le terre d’origine come oggetti incontaminati per essere penetrati – o come prostitute che potrebbero essere comprate e vendute, proprio come la terra e le sue risorse. [9] Queste immagini sono state direttamente utilizzate per attirare gli uomini francesi ad unirsi alle forze di occupazione nel Maghreb. Come il suo predecessore coloniale, l’apparato del cinema maschilista in Marocco è in grado di distribuire la retorica femminista in un modo che funzioni a vantaggio di entrambi imperialismo e patriarcato. Così, come Flandrin, Ayouch descrive le prostitute in Much Loved come sempre pronte ad essere penetrato, evocando il pubblico maschile a partecipare collettivamente a questa penetrazione, visto che consumano le sue immagini voyeuristiche, allo stesso tempo invitano un pubblico occidentale a penetrare la terra nativa per continuare a “civilizzare” i musulmani (in questo caso sui diritti delle donne).
Infatti, è sufficiente vedere gli estratti e la locandina per capire il ragionamento nella maniera descritta precedentemente. Dagli estratti alla locandina del film, si nota un tema costante che riflette la posizione dei realizzatori su questa questione. Un poster di un film con una donna invitante seminuda mentre sta succhiando il suo dito non è teso ad invitare un pubblico affinché venga per capire come si è trovata in quella posizione che l’ha portata a diventare una prostituta, ma ad invitare un pubblico maschile ad accanirsi con lo stesso tipo di immagine che tende ad alimentare, non alleviare, la violenza sessuale. Questo dovrebbe essere una sorpresa, considerando gli altri film di Nabil Ayouch. In Ali Zaoua, prince de la rue (2000), ci sono solo due ruoli minori ricoperti da femmine e sono entrambe oggetto dei desideri maschilisti. Un ruolo è quello di una madre prostituta, il secondo è quello di una giovane adolescente desiderio di un ragazzo. In Les Chevaux de Dieu (2012), gli unici ruoli femminili sono minori ed i importanti di quei personaggi sono madri, prostitute, o una prostituta e madre allo stesso tempo. Se dovessimo, come alcuni scrittori ci chiedono, capire i film di Nabil Ayouch come una riflessione “vera” della realtà, si dovrebbe giungere alla conclusione che le donne marocchine sono aspiranti prostitute o prostitute o prostitute-madri o madri ingenue non istruite.
Così, i film di Ayouch servono a depotenziare la donna marocchina facendo sì che gli spettatori europei si sentano meglio nel loro posto privilegiato e da “illuminati”. Mentre la misoginia esiste sia in Europa che nelle ex colonie, un discorso misogino coloniale continua a permeare alcuni film marocchini. Ciò avviene soprattutto a partire dal 2000, con la nuova generazione di registi come Ayouch, Nourredine Lakhmari, e in una certa misura, Faouzi Bensaidi. Come i loro predecessori coloniali, questi film instillano l’idea che solo “Altri uomini” nelle ex colonie “incivili” sono veramente oppressivi con le donne, e quindi è una parte della missione civilizzatrice europea di insegnare ai colonizzati quali generi di relazioni dovrebbe avere. Ma la missione civilizzatrice coloniale non è né benigna né dolce; il suo obiettivo non è quello di educare ed aiutare, ma piuttosto, “con un tipo di logica perversa”, scrive Fanon, “rivolge la sua attenzione verso il passato del popolo colonizzato lo distorce, lo sfigura esso e lo distrugge”. [10] In definitiva, è un mezzo per giustificare la violenza e lo sfruttamento. La missione di fornire il nativo con una cultura “reale” è stato a lungo un travestimento per una violenta penetrazione imperiale, per civilizzare i popoli nativi americani, ma era in realtà un processo di genocidio, con l’Operazione Iraqi Freedom in cui si doveva elargire la “democrazia” ma che ha lasciato almeno mezzo milione di iracheni morti.
Tuttavia, molti marocchini rifiutano il paternalismo occidentale. In Between Femminism and Islam, Zakia Salime ha effettivamente mostrato il declino delle organizzazioni femministe appoggiate dall’occidente (spesso finanziate da istituzioni occidentali) in Marocco. Invece, le donne marocchine confidano sempre più nell’Islam e le tradizioni del Marocco per una rotta verso la loro emancipazione. [11] Così come respingono il femminismo occidentale, molti marocchini rifiutano rappresentazioni occidentali delle donne nel cinema. In questo modo, i marocchini rifiutano l’oggettivazione di Nabil Ayouch delle donne marocchine nello schermo. Questo non significa che i marocchini non oggettivano le donne in altri modi, ma piuttosto che rifiutano una modalità specificatamente occidentale (ed ulteriore) di opprimerle: la presentazione delle donne in varie forme di media come oggetti sessuali da consumare.
Per concludere, Much Loved è un film che deve essere considerato all’interno di un contesto storico, sociale, politico ed economico. Quindi, dobbiamo approfondire e dobbiamo contestualizzare la complessità dell’opinione pubblica contro il film, che va dal rifiuto esplicitamente femminista della rappresentazione delle donne, ai commenti misogini verso le attrici, agli insulti (e anche minacce di morte) verso il regista, al fine di far emergere i significati sottostanti. Coloro che a gran voce hanno espresso la loro rabbia verso il film non possono essere respinti come incapaci di comprendere il cinema, le loro convinzioni possono essere di grande valore per i registi marocchini che cercano di capire il loro pubblico. Ma il dibattito intorno a Much Loved non è solo utile ai cineasti marocchini, ma può anche offrire ai registi e ai critici di altre parti del Medio Oriente e Nord Africa una comprensione di come una varietà di donne – dalle laiche alle islamiste – percepiscano i film che affrontano le questioni femminili. È importante notare inoltre che sono maschi ad aver pubblicato la maggior parte degli scritti nella stampa in favore del film. Avendo scarso accesso ai media, le donne si esprimono principalmente attraverso canali informali. Forse, in questo caso, i discorsi nascosti o espressi in maniera informale possono avere più valore di quanto formalmente espresso nella stampa.
(Da jadaliyya, traduzione per Infoaut)
[1] Shohat, Ella, and Robert Stam. Unthinking Eurocentrism. 1994.
[2] Alea, Tomas G. The Viewer’s Dialectic. 1984.
[3] Getino, Octavio and Fernando Solanas. Towards a Third Cinema. 1969.
[4] Diawara, Manthia. African Cinema. 1992.
[5] Carter, Sandra G. What Moroccan Cinema?. 2009
[6] Shohat, Ella, and Robert Stam. Unthinking Eurocentrism. 1994.
[7] Diawara, Manthia. African Cinema. 1992.
[8] Ahmed, Leila. Women and Gender in Islam. 1992.
[9] Shohat, Ella, and Robert Stam. Unthinking Eurocentrism. 1994.
[10] Fanon, Franz. The Wretched of the Earth. 1961
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