Il cinema uccide anche d’inverno
Da Pif a RaiFiction, l’umanizzazione differenziale
Se provate perplessità di fronte a un commissario Calabresi tutto proteso a comprendere le ragioni dei manifestanti, o a una Mara Cagol che non riesce a togliersi dallo sguardo una permanente luce di perfidia, pensate che siete voi stessi ad aver sdoganato simili operazioni quando, al cinema, avete riso di Totò Riina che non sa usare il telecomando (in La mafia uccide solo d’estate, il film di Pif uscito nelle sale a dicembre). Perché? Ovviamente è una provocazione: si ride quando e come si vuole; eppure, è interessante notare come la prevalente stroncatura della serie TV Gli anni spezzati sia seguita al quasi unanime plauso per il debutto cinematografico del giornalista di Italia1 che, a ben vedere, ha fatto un uso stilisticamente meno insulso, ma politicamente altrettanto problematico della macchina da presa. Andiamo con ordine.
La Fiction Rai è riuscita a mettere d’accordo quasi tutti, da Minimum Fax al Fatto Quotidiano al Corriere della Sera, nella condivisibile, e a tratti imbarazzata, classificazione della serie TV come pura e semplice monnezza. Sono anni, in verità, che la Rai (il cui settore dedicato alle Fiction venne lottizzato già a inizio anni duemila da Alleanza Nazionale) propina scadenti serie televisive di presunto carattere storico che non esitano a strizzare l’occhio alle peggiori eredità dell’età contemporanea, fascismo e guerre compresi, riversando quintali di infamie su chi ha dovuto o voluto pensare il proprio presente in termini diversi rispetto al potere, si trattasse di partigiani, iracheni sotto occupazione militare o rivoltosi degli anni Settanta; con questi ultimi, però, la Rai si è spinta così avanti da rischiare di rimanere sola: in fondo, si sono resi conto anche i più conservatori, non si rende un buon servigio alle rappresentazioni conformistiche della realtà, anche passata, senza un minimo di pudore – e, tra le altre cose, di “qualità artistica”.
Proprio da qui, in effetti – dalla “qualità artistica” – dovremmo partire, per non limitarci al facile fuoco di fila che questa produzione televisiva sta rendendo possibile (una serie patrocinata da associazioni di poliziotti non avrebbe potuto, d’altronde, riservare sorprese), ma interrogando i limiti più generali che i tentativi odierni di narrazione cinematografica del passato esibiscono, talvolta in modo esemplare. Molto facile sarebbe, infatti, limitarsi a enumerare le distorsioni storiche operate dalla serie o le ancor più interessanti omissioni, in primis nella ricostruzione degli elementi a carico della squadra politica di Calabresi per l’omicidio Pinelli, che nel film sono state deliberatamente censurate in modo da assolvere l’assassino almeno nella trasfigurazione del set. Eppure, anche al netto di questi prodigi, resta il cuore di un’operazione che non andrebbe semplicemente etichettata come “revisionistica” (la revisione dell’eredità storiografica è un compito anzitutto per la critica, ed è fisiologico che la memoria sia, finché esiste conflitto sociale, lacerata), ma analizzata nel quadro di un’attitudine molto più rivelatrice e profonda: l’umanizzazione inclusiva e differenziale tipica del cinema contemporaneo.
Va notato, in prima battuta, che numerose scelte narrative della prima parte della Fiction sono state copiate e incollate da Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana, il film che già pochi anni or sono tentò di offrire un’assurda rivalutazione della figura di Calabresi. Altra regia e altra sceneggiatura, anch’esse non indimenticabili, eppure, se smontiamo con attenzione l’artificio tecnico-narrativo di entrambi i prodotti, troviamo un impianto comune: l’affidamento alla dimensione psicologica, comune anche a Il giudice, del compito di assoluzione (storica) dei personaggi. La descrizione di Calabresi, come quella di Sossi, fasulle sotto il profilo professionale, sono quelle di uomini visti nella loro intimità e nei loro presunti tormenti interiori, al fine di provocare la ben nota identificazione patetica del fruitore dell’opera con la figura narrativa; soprattutto, allo scopo di produrre in esso l’irritato senso di superiorità nei confronti delle folle del linciaggio politico, incapaci di comprendere qualcosa di così semplice come il fatto che siamo tutti umani, dotati di complessità interiore e, di conseguenza, dobbiamo volerci bene.
Questa scelta, tipica di tutte le opere recenti sui passati conflitti italiani (si pensi al terribile La meglio gioventù, o al subdolo Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti) esprime, dietro l’ipocrisia di una pietas storiografica che deve trovare ecumenico compimento nell’arte, tutta la violenza dell’aggressione selettiva alle genesi del giudizio morale e della memoria storica. Si pensi, per fare un esperimento mentale, a cosa accadrebbe se la Rai (o una delle principali case di produzione italiane) si cimentassero in un’agiografia di Giorgiana Masi, Francesco Lorusso o Walter Alasia, descrivendone i caratteri, i tormenti e gli amori al fine di fomentare un effetto-empatia da parte del pubblico (l’esempio del Sergio Segio de La prima linea non vale, perché è la storia di un ravvedimento). La descrizione psicologica è nel cinema contemporaneo un privilegio per pochi selezionati, a riprova che su essa si gioca grandissima parte della sfida politica che qui è in questione.
È stato sufficiente che Michele Placido abbia osato una rappresentazione non assolutoria, ma orientata al chiaroscuro, della persona e del temperamento di Renato Vallanzasca, perché si sia trovato a subire (lui, lo sbirro de La piovra) un linciaggio che dalla Lega Nord è giunto fino a L’Unità, passando per le immancabili associazioni di vittime e per giungere infine, udite udite, nientemeno che a La vita in diretta (dove, in un’orgia censoria, fu arsa sul rogo anche la serie Romanzo criminale, colpevole, come noto, di indurci tutti in tentazione). Era già stato massacrato, a destra e a sinistra, anche il goffo tentativo di Roberto Bellocchio di dare, in un film senz’altro meno divertente (Buongiorno, notte) un mega-colpo al cerchio e un colpetto alla botte, oscillando, accanto all’ovvia santificazione del padre ante litteram delle larghe intese, Aldo Moro, tra la tentazione di rappresentare i brigatisti come persone in carne e ossa e la loro più ordinaria caricatura come automi lobotomizzati (scelta espressiva proseguita con disciplina a dir poco militare dalle puntate de Il giudice).
Perché la logica è questa: Calabresi, anche se omicida, persecutore politico e depistatore, va assolto, perché poliziotto; la banda della Magliana, depurata da alcuni connotati storici (estromessi tanto nel film quanto nella serie), può essere romanzata, giacché parliamo comunque di individui in gran parte succubi a potentati illegali e servizi segreti (ed uno degli aspetti più pregevoli della serie è stato a ben vedere una rappresentazione del potere tutt’altro che politically correct, caso rarissimo nella cinematografia italiana); ma Renato Vallanzasca, rapinatore “fai da te” che con mafie e servizi mai ebbe a che fare, lui no: andrebbe condannato anche al cinema senza appello, non soltanto in tribunale. Per non parlare, poi, del vario assortimento di rivoluzionari che, avendo perpetrato, giusta o sbagliata che fosse, una delinquenza politica, devono passare sotto il rullo compressore dei cliché horror dell’odierno Minculpop della memoria, ahinoi rappresentato, per i capitali di stato, da RaiFiction: giacché non si tratta di metterli in scena come donne e uomini da condannare, ma di affermare apertamente che non tutte le donne e non tutti gli uomini sono esseri umani.
Se dobbiamo ammettere, e dobbiamo farlo con forza, che l’apertura critica della narrazione artistica e della finzione cinematografica dovrebbe avere tra i punti di partenza anche la possibilità di togliere il consumatore di finzione dal ruolo umiliante, retrogrado e passivo di telespettatore o fruitore imbelle, offrendogli opere in grado (se possibile anche dal punto di vista formale) di solleticare i suoi dubbi, minare le sue certezze, propiziare epifanie o crisi e, soprattutto, garantirgli autonomia attiva nell’uso dell’intelligenza, allora oscurare il chiaroscuro morale o interiore di una fetta dell’universo rappresentato diventa un crimine ovunque e comunque, e poco importa chi sia il destinatario di una simile discriminazione. Per questo anche garantirsi un facile successo mettendo in scena i boss di Cosa Nostra come decerebrati, come accade nel film di Pif (peraltro inane sul piano politico, vista l’assenza di qualsiasi riflessione non “di facciata” su ciò che accadde in Sicilia in quegli anni), si inserisce a pieno titolo in questo dispositivo di inclusione ed espulsione.
Tale dispositivo, ed è la cosa più importante, non va visto superficialmente in relazione a questo o quel personaggio storico, che può farci più o meno ribrezzo; ma nella sua funzione amnesica riguardo alla complessità umana come tale (amnesia che non è resa necessaria, eventualmente, da scopi o pretese di comicità, né dalla legittima esigenza di veicolare un messaggio). Una funzione che è in moto là dove è evidente il suo straripare nei confronti di un giudice fanatico o di un poliziotto assassino, ma non è assente neanche quando si tratta di disumanizzare – in modo in fondo codardo – il boss mafioso e soprattutto il tipo umano e sociale che con esso si vorrebbe sottilmente squalificare, uccidendo così l’unica cosa da cui ogni individuo del pubblico potrebbe proficuamente trarre vantaggio: la conquista indipendente, e perciò stesso imprevedibile e sofferta, del giudizio morale sui propri simili. C’è da giurarci, d’altra parte, che questa conquista non sia nei piani della Rai, del ministero per i beni e le attività culturali o delle case di produzione; poiché proprio da una conquista simile potrebbero essere spezzati non gli anni su cui c’è ancora bisogno di insabbiare, ma i nostri: quelli in cui viviamo.
Underground Prince
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