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Impressioni da New York (pt.1)


#1 La città  

Il primo europeo a mettere piede sull’attuale territorio newyorkese fu l’italiano Giovanni da Verrazzano, nel 1524. Pur rimanendo affascinato da questa grande foce che sbocca sull’Atlantico, il viaggiatore ripartì quasi immediatamente. Ci vollero più di ottant’anni prima che un altro europeo tornasse in quella zona. Un esploratore inglese al servizio della compagnia Olandese delle Indie Orientali, Henry Hudson (al suo ritorno in patria venne arrestato per aver navigato sotto bandiera straniera). Si deve a lui l’idea di insediarsi in questa zona, e a lui si deve il nome dell’immenso fiume che oggi si chiama per l’appunto Hudson River.

Sull’isola di Manhattan si stabilì una prima colonia olandese nel 1613, chiamata nel 1625 Nuova Amsterdam. Fondata per il commercio di pellicce e comprata ai nativi per 24 dollari (sic!), crebbe lentamente e nel 1664 passò sotto il dominio inglese, divenendo New York in onore al Duca di York e Albany Giacomo II. Se nel 1731 si contano 8628 abitanti, è un secolo dopo che iniziano le enormi migrazioni verso la città che ne fanno impennare il peso demografico: nel 1820 si contano 152.056 abitanti che trent’anni dopo sono divenuti 696.115. Nel 1898 i centri residenziali situati sull’arcipelago di isole e sulla terraferma si uniscono, probabilmente nella prima forma compitamente metropolitana in senso contemporaneo. New York ora conta quasi tre milioni e mezzo di abitanti, che toccheranno i sette nel 1930. All’oggi il perimetro cittadino conta poco più di otto milioni di abitanti, che tuttavia diventano oltre 18 milioni se si considera l’intero aggregato urbano, mentre l’aggregato metropolitano supera i 23 milioni. Grazie alla sua posizione geografica, New York è divenuta nel tempo un hub strategico che l’ha vista essere uno dei porti più importanti al mondo, decisivo terminal per la rete ferroviaria statunitense, e oggi uno degli snodi più importanti per il trasporto aereo. Una città cerniera, come avrebbe detto Gottmann: sviluppatasi proprio in virtù del suo essere cardine e perno tra Vecchio e Nuovo Mondo attraverso l’Atlantico. Figlia dell’immigrazione da tutte le parti del mondo e oggi sede dell’Onu, della prima borsa mondiale e fulcro di quello spazio transnazionale strategico per l’economia globale che Sassen definisce come Città Globali.

Arrivare a New York dall’Europa di oggi avendo in mente questo quadro mette immediatamente in guardia dalla facile seduzione dell’analogia. Lo spiazzamento che si prova entrando in città dall’aeroporto Newark, in New Jersey, non è paragonabile a quello che si può provare quando ci si trova in contesti con una storia radicalmente diversa da quella europea alle spalle. Si avverte una matrice comune che lega le due sponde dell’oceano. Eppure sono al contempo nette ed immediate le differenze, che rendono per l’appunto rischioso guardare a questa metropoli indossando le lenti acquisite nel vecchio continente. Da molti punti di vista: urbanistico, sociale e politico.

Per Hannah Arendt la città è l’esperienza che lega passato, presente e futuro attraverso il succedersi delle generazioni, la memoria e il progetto. La città è una realtà pancronica, in cui passato e presente si intrecciano quasi su un piano sincronico. O, come scrive Lazzarini, “è un meccanismo che riporta di nuovo in vita di continuo il passato, il quale ha la possibilità di cambiarsi col presente”. Eppure questo dispositivo del tempo vista da New York assume una tonalità ben differente. Laddove la città europea porta con sé il proprio passato, in termini spaziali e identitari, New York pare avere una naturale apertura sul tempo. Sembra vivere di un movimento che tende a prolungarsi sull’avvenire e dilatarsi verso una destinazione, piuttosto che riflettere sul proprio essere stato. Sembra più sradicata e deterritorializzata che qualsiasi posto in Europa, come se l’incrocio di mare e fiume da cui nasce ne avessero imbrigliato la natura in senso fisico. Come fosse fatta di un materiale fluido, terracqueo, malleabile. New York è l’intreccio ininterrotto di mondi che si mescolano, che confliggono, che si accostano ignorandosi. Mondi sociali, culturali, economici, spaziali, temporali, simbolici distinti. E’ teatro e scenario del farsi di questa trama polemica. E’ una gigantesca ed amorfa macchina che produce testi e contesti, che codifica e decodifica, traduce ed ibrida.

Dicevo dell’arrivo in aereo. Arrivare di notte consente di osservare un’infinita distesa di correnti di luce che paiono riprodurre più una scheda hardware di un computer che una città. O sembrano una galassia riprodotta sulla terra, una traduzione del cielo notturno orbis terrarum sub caelum.

Manhattan colpisce immediatamente: un’isola che è un groviglio di grattacieli che danno un senso surreale, dall’alto. Come se fosse una scatola con troppi oggetti stipati all’interno che traboccano. Eppure quando ci si cammina all’interno l’immagine abusata di urban jungle non mi pare reggere. Se dovessi rimanere nella metafora naturalistica parlerei più di grandi canyon, con le mura dei grattacieli a fare da altissima parete per i flussi di persone e macchine che scorrono al loro interno… C’è tanto spazio vuoto a New York, nonostante quello che si possa pensare. E come avrò modo di discutere, l’intreccio fortissimo tra spazio e politica è un filtro che mi pare necessario per poter cogliere le peculiarità di questa metropoli.

New York è dunque un grande linguaggio, forse il più ricco presente oggi sul pianeta. Complesso, eterogeneo, variegato, con una sintassi scomposta, affascinante, cangiante, ma anche tetra e volubile. Il senso di sospesa ambivalenza ti circonda e impone di misurarsi con figure retoriche e metafore originali. Ma anche in un significato più letterario, una cosa che si capisce in fretta quando si arriva è che l’inglese come “lingua della città” è un concetto veramente relativo ed ipostatizzante, e non solo perché una percentuale indefinita tra il 10 e il 40 per cento della popolazione proprio non conosce questa lingua. Due professori di linguistica del Cuny stanno svolgendo un progetto di ricerca teso a mappare tutti gli idiomi parlati in città. Se nelle scuole ne hanno contati 176, in tutta la città sono arrivati a contarne più di… 800! L’immagine del “colore” (33% di bianchi di discendenze europee, 29% di ispanici, 23% di afroamericani, 13% di asiatici e 0,5% di nativi americani 0,5%) che spesso si usa per descrivere New York nasconde infatti tutte le sfumature, che qui hanno una portata dirompente.

 

Nc across the Atlantic

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