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In memoria di Mario Salvi (7 aprile 1976) ucciso dallo stato

Noi non dimentichiamo, noi rivendichiamo.

Ieri come oggi, rivendichiamo il diritto all’insubordinazione contro le ingiustizie di questo stato che ha sempre soffocato nel sangue dei lavoratori e dei proletari le istanze di eguaglianza e libertà, per garantire i privilegi della classe dei potenti e del potere. 
Rivendichiamo il diritto alla costruzione della libertà e della giustizia, perché nessuno sia mai più schiavo dell’arroganza del potere e dei potenti 
Domenica 7 Aprile 2013, alle ore 11,00 in Piazza Mario Salvi (ex Piazza Clemente XI ) a Primavalle, si metterà la nuova targa in memoria del nostro compagno Mario. 
I compagni e le compagne di Primavalle

Primavalle: questo quartiere è una città. Contando anche la zona di Torrevecchia, ormai saldata al quartiere, ci vivono 140.000 persone: quante ne vivono a Monza o a Pavia. Nella Primavalle vera e propria, su un’area di appena 190 ettari, abitano 80.000 persone: la popolazione di Varese. Ma questa città è anche un inferno: 4.200 persone per un chilometro quadrato: uno degli indici di densità demografica più allucinanti d’Italia. Una strada fra due piazze, manciate di baracche, livide casermette dell’Istituto Case Popolari, qualche palazzina della speculazione edilizia, 32 lugubri lotti con in mezzo qualche superstite lingua di terra zellosa, una ragnatela di stradine sfossicate che non portano in nessun posto: è uno dei paesaggi più spettrali e disumani della cinta periferica romana (Collettivo Potere Operaio, Primavalle. Incendio a porte chiuse, Savelli, Roma 1974). 

Ci guardiamo intorno, per avvistare gli staccatori prima che si inoltrino nei lotti […]. Ecco […] la macchina dell’ENEL: parcheggia proprio di fronte all’osteria di Peppe, c’è quello con i baffi che già conosciamo e uno nuovo, mai venuto a Primavalle. […] in un attimo li raggiungiamo, quello con i baffi si aspettava di vederci ma ci fa capire che oggi ci saranno problemi. L’altro sembra quasi spaventato mentre recitiamo la formula di rito, Siamo il Comitato di lotta, paghiamo solo otto lire al chilovattore, come fanno i padroni. […] A questo punto ci si divide, una compagna e un compagno vanno ad avvertire le donne facendo il giro per i lotti, e gli altri seguono gli staccatori che sfogliano l’ordine di servizio. Il primo nome è di una famiglia del lotto due e sono tanti in un appartamento minuscolo: da subito hanno aderito alla lotta. Apre la porta una ragazza minuta, un po’ spaventata, vede che ci siamo anche noi del Comitato, chiede che succede, mentre un frastuono di bambini fuoriesce dalla camere. Noi ci mettiamo in mezzo, formando un domestico picchetto davanti al contatore; quello con i baffi guarda il collega e fa subito cenno di rinunciare (Alessandro Pera, “Simba” in “In ordine pubblico”, a cura di Paola Staccioli, Fahrenheit 451, Roma 2005). 

“Il mio ricordo di Mario Salvi è legato alla nostra comune militanza nel Comitato Proletario di Primavalle. […] Il “battesimo di fuoco” per lui, fu veramente di fuoco! La Sip staccava il telefono a chi praticava l’autoriduzione, si organizzarono come risposta una serie di sabotaggi alle cabine di derivazione telefoniche nei quartieri borghesi, lasciando così per un po’ di tempo senza telefono gli abitanti dei Parioli e degli altri quartieri-bene della città. Io e Mario ci recammo con una vespetta all’ora stabilita al nostro obiettivo, dovevamo aprire l’armadietto metallico (avevamo le chiavi, fornite da compagni operai della Sip ) e sistemarvi un ordigno incendiario. Un congegno chimico doveva ritardare l’esplosione; l’acido solforico entrando in contatto con la miscela di clorato di potassio e zucchero avrebbe innescato l’incendio della tanica di benzina; ma la qualità del profilattico che separava le fiale dell’acido dalla miscela era evidentemente scarsa, così la sua corrosione non avvenne, come preventivato, dopo qualche minuto, ma fu immediata. La fiammata illuminò la strada, saltammo sulla nostra vespetta modificata e schizzammo via a tutto gas nella notte. Le nostre capacità di artificieri ci lasciarono perplessi, ma la nostra ‘guida veloce’ ci confortò. […]“ 
Mario era un giovane che, come altre migliaia di giovani e meno giovani, in quegli anni aveva fatto della militanza politica e dell’ impegno sociale una scelta di vita. Militanza ed impegno che fondamentalmente significavano solidarietà ( in quegli anni veniva definita solidarietà di classe) con gli sfruttati e con i più deboli. (Testimonianza al Progetto Memoria. Roma, 1995) 

È il 7 aprile del 1976. La notizia della condanna a 9 anni all’anarchico Giovanni Marini si diffonde tra i militanti di piazza Cavour e un piccolo gruppo decide di staccarsi dal presidio per compiere un’azione dimostrativa. Tra loro c’è anche Mario Salvi, detto “il Gufo”. Chi lo ha conosciuto parla di lui senza eufemismi. Era il più bravo a diffondere la stampa militante ma anche a scucire le teste dei fascisti: un coraggioso. Non è strano se è il primo a correre verso un ingresso posteriore del Ministero. Nascosto sotto al giacchetto, il Gufo ha il pezzo: il suo compito è quello di coprire altri compagni armati di molotov. Le bocce vengono lanciate e al rumore del vetro infranto si unisce quello della fiammata, un suono secco come il colpo di una frusta. Dopo aver morso bisogna fuggire: l’attentato aveva uno scopo puramente dimostrativo, il suo potenziale distruttivo si è già esaurito senza fare danni. I danni, quelli veri, ci pensa un esponente delle forze dell’ordine a farli. Il giustiziere di turno si chiama Domenico Velluto e il suo lavoro, essendo un agente di polizia penitenziaria, potrebbe o dovrebbe considerarsi concluso quando le ore che lo obbligano a condividere le sbarre con i condannati si esauriscono restituendolo al corso di una vita normale. Questo discorso, però, il secondino Velluto non lo prende nemmeno in considerazione. Chissà, forse nella sua immaginazione ci sono già encomi solenni, premi in denaro, scatti di carriera… Quello che serve a farlo correre all’inseguimento dei “sovversivi” e a braccarli per centinaia e centinaia di metri, fino a raggiungere un luogo che non c’entra più niente con il Ministero: via degli Specchi, nei pressi di Campo de’ Fiori (Cristiano Armati, “Cuori rossi”, Newton Compton, 2008) 

L’agente Domenico Velluto con la pistola in pugno ha percorso centinaia di metri lungo le strade che portano a Campo de’ Fiori, alla ricerca di una vittima a cui sparare a freddo con tutta calma. Infatti quando Velluto ha sparato, nessuno stava scappando: il nostro compagno è stato freddato mentre camminava (Volantino diffuso dai Comitati autonomi operai, 1976). 

Mario conosceva tutti, dal primo ladrone all’ultimo coatto, e cercava di farci capire che lo scippatore a modo suo si ribella a una società che è di merda, e ci diceva che non erano tanto diversi da noi e che bisognava parlare con tutti e far capire quali erano le lotte giuste e come uscire fuori dall’oppressione (Testimonianza di Giampiero, raccolta in «Rivolta di classe» n. 3, 1976). 

La lapide [dedicata a Mario Salvi] non si staccherà, ci saremo noi, i suoi amici, i ladroni, le donne del quartiere ad impedire a questurini e poliziotti una cosa del genere. Sarebbe una lotta grossa, triste solo per i padroni (testimonianza di Giampiero, raccolta in «Rivolta di classe» n. 3, 1976). 

a cura di Cristiano Armati, Information Guerrilla

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